23 dicembre 2022

Nell'Olimpo di Beethoven

  Chi si lamenta del fatto che in Italia si programmi esclusivamente a corta gittata ha sicuramente delle buone ragioni dalla sua, ma si perde qualche pezzo. Esistono progetti come “Nell'Olimpo di Beethoven”, organizzato dall'associazione Musincantus in collaborazione con la scuola di alto perfezionamento musicale di Saluzzo gestita da Donato Renzetti, che guardano molto avanti, fino alle Olimpiadi di Cortina 2026, con la proverbiale lentezza di chi pensa alla salute. Dal 2021 questa inedita triangolazione tra Treviso, Legnago e, appunto, Cortina dà corso a un appuntamento all’anno in cui si alternano, tra palco e strumento solista, un nome affermato e una giovane promessa, a fase alternata. Nella prima edizione della rassegna, che andava in scena esattamente dodici mesi fa, toccò proprio a Renzetti tenere a battesimo il “talentino” Davide Ranaldi al pianoforte. Invertendo i ruoli, il nome di richiamo per il secondo concerto del ciclo, che ha debuttato al Teatro Comunale Mario Del Monaco di Treviso lo scorso 14 dicembre con repliche a Cortina domenica 18 e a Legnago martedì 20, è Alessandro Taverna, chiamato ad affrontare il Concerto per pianoforte e orchestra n.1 Op. 15 di Beethoven. Accanto a lui c'è Alessandro Cappelletto, un giovane direttore che dopo questo tris di concerti sarà impegnato al Teatro La Fenice con Satyricon di Bruno Maderna.

Alessandro Taverna e Alessandro Cappelletto nell'Olimpo di Beethoven,


  Alessandro Taverna padroneggia il Primo di Beethoven con una classe che trascende la perizia tecnica. È un Beethoven intimo, tracciato con un’eleganza che ne enfatizza la radice classica senza spingerlo verso un impeto romantico, che in un contesto così raccolto e di fronte a un ensemble dalle dimensioni cameristiche sarebbe francamente fuori luogo, né asciugarlo troppo fino a rinsecchirlo. Un equilibrio di gusto che si concretizza nella sensibilità di una mano che trova sempre la giusta misura, sia nel variare i colori che nel dosare la dinamica.

  Se da Taverna ci si poteva aspettare una prova di garanzia, Cappelletto registra un ottimo debutto sul podio dell’Orchestra Regionale Filarmonia Veneta. Dopo l’Ouverture da La secchia rapita - omaggio quasi dovuto a Legnago, uno dei tre cantoni del progetto e città natale di Antonio Salieri - già in Beethoven dà dimostrazione di saper accompagnare con raffinatezza e attenzione, cosa ben diversa dal servilismo, evidenziando una comunione di intenti con il solista che raggiunge il suo vertice emotivo in un secondo movimento cantato a mezzavoce da strumento e orchestra.

  Schubert viceversa dà libero sfogo alla personalità del direttore che, questa è la prima buona notizia, c’è, e non è banale darne dimostrazione in un repertorio sentito e strasentito. È una Terza Sinfonia - diretta a memoria e con tutti i ritornelli al loro posto - trascinante e colma di energia, non perché spinta sull’acceleratore ma per chiarezza di articolazione e brillantezza, ma anche ben bilanciata nella concertazione, che a dispetto di un organico orchestrale estremamente leggero riesce a ottenere un suono al tempo stesso terso e rotondo. Come accennato, l’Orchestra Regionale Filarmonia Veneta è in assetto iper-cameristico, le manca dunque un po’ di ampiezza nel suono degli archi, ma risponde con reattività.

  Successo molto caloroso per tutti. Merita una menzione la meravigliosa esecuzione del bis proposto da Alessandro Taverna, una trascrizione dell’aria Schafe können sicher weiden dalla Cantata BWV 208 di Bach.

14 dicembre 2022

Charles Dutoit torna a Udine

  È un Mozart distensivo e conciliante, quasi crepuscolare, quello che fa oggi Charles Dutoit. Un Mozart - Sinfonia 39 - senza strappi né muscoli in vista, morbido e ben smussato anche nei passaggi più accesi. Se l'ottima Orkester Slovenske filharmonije avesse una voce, si direbbe di un suono ben appoggiato su di una sana colonna di fiato, che ne rende limpida e vigorosa anche le dinamiche più leggere. Bene o male che sia, non è il Mozart di oggi, ma porta la testa altrove, soprattutto a certa tradizione viennese ormai démodé. Charles Dutoit non ha una formazione lineare come molti suoi coevi - ahimé ne sono rimasti pochi - ma ha seguito un percorso ibrido. Cresciuto con Ansermet e Munch, studiò tra Svizzera, Italia e Germania, assorbendo quelle che erano, allora, scuole affatto distinte. Negli anni ‘50, nemmeno ventenne, si trovò a suonare il violino per l’orchestra di Lucerna di fronte a Karajan durante un corso di direzione d’orchestra, che lo folgorò. In seguito trascorse gran parte della carriera oltreoceano, tra Montréal, Minneapolis e Philadelphia, e in Giappone. Ascoltandolo, oltre alla consapevolezza del musicista arrivato alla maturità estrema, si ammira l'epigono - in realtà verrebbe la tentazione di usare un termine meno “polite”: il sopravvissuto - di un'epoca che se ne è andata per sempre, lasciandoci ormai solo qualche testimone da ammirare con gratitudine.


  A dispetto dei suoi 86 anni, Dutoit, che ormai è un ospite fisso del Teatro Nuovo Giovanni da Udine, mantiene una brillantezza di presenza e di gesto da lasciare allibiti. Una freschezza che gli consente di mantenere un controllo assoluto dell'orchestra, che sovrasta in tutti i suoi 180 gradi di escursione senza perdersi un attacco scomodo né un'indicazione espressiva dove la ritiene necessaria, e che raggiunge l'apoteosi in una Valse, furbescamente posta a fine concerto, che gronda di vitalismo. È un brano che Dutoit ama e lo si percepisce, lo dirige a memoria aggiungendo alla precisione e alla compattezza espresse nelle opere precedenti una flessibilità garbata, non esangue, tutt'altro, ma nemmeno ostentata.

  Nel mezzo c'è Petruška, una prova di bravura per l'orchestra, che nel giro degli ultimi anni è cresciuta molto, e direttore, il quale dà una lezione pratica di concertazione e pilotaggio, con una chiarezza del braccio destro esemplare. Gli equilibri sono perfetti, tanto più che il suono chiesto da Dutoit è bello corposo, la struttura e gli incastri idem. Certo, mancano la scioltezza e la fluidità delle orchestre top-mondo nei passaggi più ostici, e non potrebbe essere altrimenti, ma quel che fa ascoltare la Filarmonica Slovena è notevolissimo, sia per quanto attiene alla qualità dell’amalgama, sia negli interventi delle prime parti, in special modo legni e percussioni.

A fine concerto successo molto caloroso per orchestra e direttore.

8 dicembre 2022

La Turangalîla-Symphonie secondo Esa-Pekka Salonen

  È curioso, e nondimeno elettrizzante, ascoltare la strana accoppiata Esa-Pekka Salonen e Wiener Philharmoniker. Lui limpido e cristallino come il ghiaccio, minimalista e razionale, loro idiomatici e voluttuosi. Lui un contemporaneista, uno dei massimi esponenti della scuola direttoriale che è andata imponendosi negli ultimi decenni, loro che viceversa incarnano un’istituzione tra le più tradizionaliste e conservatrici sul panorama mondiale. Il risultato, a differenza di quanto si potrebbe temere, non è un incontro a metà strada, ma una reciproca esaltazione. Una comunione che funziona anche in un repertorio non immediatamente associabile ai Viennesi, ma stabilmente nel repertorio e nella sensibilità del direttore, che ci torna sopra sin dall’incisione giovanile realizzata con la Philharmonia nell’86: la Turangalîla-Symphonie di Olivier Messiaen. Spulciando la cronologia dei Wiener infatti, l’opera compare nei cataloghi in una sola occasione, nell’estate del 2000, a oltre cinquant’anni dal debutto, avvenuto a Boston nel 1949 sotto la direzione di Leonard Bernstein. In quell’unico ciclo di concerti, che per altro transitò anche da Lucerna, sul podio c’era Zubin Mehta e al pianoforte Yvonne Loriod, la vedova di Messiaen.

Esa-Pekka Salonen dirige la Turangalîla-Symphonie
© Peter Fischli/Lucerne Festival

  Lavoro ciclopico, anzi, una “cosmologia sonora” che è una vera e propria summa del sinfonismo e del percorso di ricerca musicale di Messiaen nella prima metà del Secolo. Un inno alla gioia e all’amore, alla creazione e all’agire del tempo sul mondo e sulla vita pensato per un’orchestra dall’organico eccentrico - le stravaganze riguardano soprattutto le percussioni - e due soli: pianoforte, nel caso Bertrand Chamayou, subentrato in extremis a Yuja Wang, e Onde Martenot, affidato a Cécile Lartigau.

  Per certi versi quello della Turangalîla è il Salonen che non ti aspetti. Brutale, quasi barbarico nell'esuberanza percussiva, insomma meno incline ad “alleggerire” di quanto sia solito fare, eppure quadratissimo nell'incastro delle cellule tematiche, che vanno agglutinando e squagliandosi come schegge sonore in moto continuo. Se il Chant d'amour I sembra una cavalcata nelle steppe sull'impeto di grancassa e tamburo, Turangalîla I scorre ipnotico ed acquoso, su un pulsare danzante di fondo che si addensa diventando via via più cupo. Chant d'amour II e il successivo Joie du sang des étoiles, staccato a un tempo vertiginoso, sono una gara di bravura tra direttore e orchestra. Come si diceva, quel che si ascolta non è il classico "Salonen-sound", ma qualcosa di diverso, di più vellutato e scuro, eppure egualmente intelligibile. Un delirio orgiastico, una confusione controllata da cui emergono gli infiniti preziosismi timbrici dell'orchestrazione e dell’orchestra viennese. Jardin du sommeil d'amour è uno stillicidio di suoni in purezza sin dall'attacco dolcissimo, su cui si adagia uno Chamayou che passa dall’isterismo sinistro dei due tempi precedenti a un lirismo cullante.

  Lo schiocco di Glockenspiel a tastiera e celesta a chiudere il sesto movimento, che Salonen suggerisce con una semplicissima divaricazione delle dita, è solo un banalissimo fotogramma che resta impresso di una direzione che raggiunge vertici di funambolismo e controllo quasi irridenti, non esclusivamente in corsa, ma anche nei piccoli gesti. Col suo moto danzante, il direttore aiuta l'orchestra dove necessario, preparando ogni attacco scomodo, mette in bolla ogni equilibrio e soprattutto la spinge al massimo del virtuosismo. Un virtuosismo che si fa sempre più forsennato sin dagli echi tribali di Turangalîla III, per esplodere in un Finale ritmicamente blindato.

  Successo calorosissimo ma sbrigativo.

Lahav Shani e la Rotterdam Philharmonic Orchestra

  Sembra che la Rotterdam Philharmonic Orchestra abbia ormai consolidato il suo modello vincente di business artistico-culturale. Un paradigma molto "olandese" in cui si punta sul talento, giovanissimo, per coltivarlo, farlo crescere e lanciarlo nello showbiz della classica. Scorrendo la cronologia delle ultime decadi, alla voce direttore principale si trovano una serie di scommesse vinte da lasciare di stucco. Conlon, Tate, quindi Gergiev e Nézet-Seguin. Tutti ingaggiati prima che entrassero nello star system e accompagnati, con reciproco vantaggio, nell'Olimpo dei grandi. Anche l'attuale reggente dell'orchestra è poco più che un ragazzo, un trentatreenne che pure si è già fatto un nome sia come concertista che direttore: l’israeliano Lahav Shani.


  Un maestro alle prime armi sì, ma che sembra non sia sfiorato dal timore di bruciare le tappe, o quantomeno di confrontarsi con il repertorio che scotta. Per chi avesse dubbi, basti ricordare che il suo debutto discografico per Deutsche Grammophon è avvenuto un paio d'anni fa con Settima e Quarto concerto per pianoforte di Beethoven, nella doppia veste di solista e direttore. Sorprende poco che per la tournée europea in corso abbia scelto uno di quei monumenti per cui i direttori saggi tendono ad aspettare la maturità: la Sinfonia n.9 in re minore di Anton Bruckner. Una pagina che potrebbe quasi fare serata da sé, ma che al Teatro Valli di Reggio Emilia è stata preceduta dal Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra in do minore op. 37 di Beethoven, con un solista del calibro di Yefim Bronfman.

  Shani di talento ne ha da vendere, non ci piove, ma ha anche molta strada da fare prima di poter reggere i confronti più impegnativi. Il suo Bruckner è interessante, sì, ma ancora acerbo, e si assesta grossomodo nel binario dell'ottima esecuzione con qualche scatto improvviso verso l'alto. Pesca alcune frasi, alcuni scarti di gradazione interessanti, infiamma qualche momento spingendo sull'acceleratore, e altresì concerta con eleganza, ma pecca di esperienza e visione, com'è inevitabile che sia. Sporca dunque qualche attacco scoperto, chiede ai suoi ottoni delle peripezie in pianissimo che vanno al di là delle loro possibilità e si lascia scappare qualche equilibrio interno (un limite che emerge soprattutto nella prima parte di concreto, in cui si deve rapportare con Yefim Bronfman, a cui non difetta certo il volume). Minuzie, il suo vero limite è quello che affligge nove direttori su dieci quando devono confrontarsi con Bruckner: manca la capacità di raccontarne le tribolazioni compositive, di sminuzzare e riassemblare il materiale costitutivo di quelle enormi cattedrali sonore scavando alla ricerca di ogni elemento strutturale anziché cementificarlo in un blocco inscalfibile. Gli esce dunque una Nona assai ben suonata ma poco avvincente, che va sviluppandosi piacevolmente senza riservare alcuna sorpresa.

  In Beethoven c'è Yefim Bronfman che, a dispetto dell’atteggiamento quasi compassato con cui siede al pianoforte, si conferma musicista di straordinaria meccanica e sensibilità. Non strafà, è pulito e cristallino, ritmicamente precisissimo, predilige un'esposizione chiara e razionale a un'esuberanza circense, eppure, in quella visione, riesce a sfruttare le infinite sfumature di grigio che lo strumento gli mette a disposizione. Quanto alla Rotterdam Philharmonic Orchestra, durante la serata mette in mostra eccellenti qualità di compattezza e un corpo sonoro scuro e ricco, ma anche di avere dei margini di virtuosismo che andrebbero oltre quanto sollecitato da Shani, che come molti direttori provenienti dal pianoforte tende a trattare la concertazione secondo una visione stagna in cui l'orchestra è considerata un gigantesco strumento anziché una pluralità di voci differenti.

  Grande successo personale per Bronfman dopo la prima parte, che si congeda dopo aver offerto un bis (Arabesque di Robert Schumann), e per orchestra direttore a fine Bruckner.


Secret Love Letters, ma dal vivo

  Yannick Nézet-Séguin appartiene a una specie di direttori rara, soprattutto in Europa, dove si tende a premiare un atteggiamento più intellettualoide e deferente alla musica. Lui viceversa ci si getta dentro senza filtri né meccanismi di difesa e senza nessuna smania di mettere in chiaro quanto è bravo, ma con una gioia totale e una passione impudica, talmente esplicita da arrivare dritta al bersaglio. È un "fare musica" che da queste parti potrebbe sembrare forse ingenuo, probabilmente esteriore, non fosse che il suo approccio epidermico alla pagina è tutto fuorché superficiale. Non lo è innanzitutto perché traspare la sincerità dell’afflato che lo trasporta, il suo entusiasmo schietto, ma anche per via della cura capillare del suono della sua Philadelphia Orchestra - un'orchestra spaziale - e della raffinatezza con cui pennella il suono, che non è mai inamidato nella scansione né, all’estremo opposto, mosso con elasticità troppo smaccata.

  Sono grossomodo queste le impressioni che desta la Settima sinfonia di Dvořák proposta nel KKL di Lucerna, di fronte a un pubblico incredibilmente sparuto quanto estasiato. Quel che Nézet-Séguin fa con la pagina, almeno con questa pagina, ha dell'incredibile: la aggredisce, la azzanna e poi la culla con tenerezza, stiracchia le melodie con garbo e d’improvviso osa altresì slanci spudorati che riempiono la sala con tanto di quel suono che metà basterebbe, passa da pianissimi inconcepibili a esplosioni a pieno organico nel più classico “american style”, con ottoni imperiosi.

  Il più incredibile dei pianissimi incredibili lo indovina il primo clarinetto in apertura del Primo Concerto per violino di Karol Szymanowski, nel momento in cui gli tocca di ribattere a quell’incantatrice che è Lisa Batiashvili. Batiashvili che ha un controllo assoluto della tastiera e del legato, oltre a un’omogeneità di colore - ambrato e vagamente acidulo - ad ogni altezza della tessitura, senza increspature né fratture. Anzi, mantiene una linea cantabile della melodia negli sbalzi di registro che ha del prodigioso.

  È su per giù la stessa cosa il Poème per violino e orchestra di Chausson. Lei limpida, espressiva, non si mangia una nota, lui plasma l'orchestra per assecondarla al meglio, con il suo gesto quasi didascalico da quanto è eloquente. I due si conoscono, hanno suonato e inciso parecchio assieme e che tra di loro ci sia un'intesa speciale è evidente dall'esito del concerto. Lo conferma uno dei bis che chiudono la prima parte di serata, con Yannick Nézet-Séguin che accompagna la solista direttamente dal pianoforte. Quanto all’Orchestra di Philadelphia c’è poco da dire, è semplicemente perfetta. A qualsiasi formazione capita, durante un concerto, almeno un suono sporco, una piccola sbavatura. Non a loro. Ogni nota è come dev’essere, ogni minima modulazione di tempo è rispettata dall’intero organico come fosse un unico, gigantesco strumento. Certo, il suono magari non ha l’allure personale di certe orchestre europee, è scintillante e meno misterioso, ma non privo di espressività. Altri due bis a fine concerto, dopo Dvořák, rinfocolano un pubblico entusiasta che saluta trionfalmente tutti i protagonisti.

2 dicembre 2022

Viktoria Mullova torna al Giovanni da Udine

  Viktoria Mullova, una delle violiniste russe più brillanti degli ultimi decenni, ha un vissuto singolare. Nei primi '80, poco più che ventenne, riuscì ad abbandonare il Paese approfittando di un ingaggio in Finlandia, ben sapendo di lasciare indietro casa e famiglia, preda di possibili ritorsioni. Proprio per scongiurare il pericolo di fuga, il regime impediva alle coppie di viaggiare insieme, così il compagno di lei, il direttore Vakhtang Jordania, per poterla accompagnare dovette fingersi pianista. Da Helsinki i due ripararono a Stoccolma, che allora brulicava di spie del KGB, e dopo un paio di giorni nascosti in una camera d'albergo riuscirono ad ottenere un visto per gli Usa.

  Fa un certo effetto ascoltare la Mullova oggi, nel suo ritorno sul palco del Teatro Nuovo Giovanni da Udine, in un concerto di un altro russo che col regime ebbe un rapporto ancor più teso, tanto più che Dmitrij Šostakóvič iniziò la stesura del suo Concerto per violino e orchestra n. 1 in La minore op. 99 proprio mentre in Unione Sovietica andava imponendosi lo ždanovismo, la dottrina che dopo la Seconda Guerra inasprì il controllo statale sulla produzione culturale. Si tratta di un’opera che Viktoria Mullova conosce bene e che ha inciso a fine anni ‘80, sorprende dunque vederla sul palco con un leggio di supporto, come temesse di inciampare tradita da un qualche vuoto di memoria. Niente del genere. Mullova è una perfetta macchina di virtuosismo, ma non solo. Fa cantare il suo violino a mezzavoce, con un suono ambrato e appena graffiante, a tratti lamentoso, talora indemoniato. Quel che può permettersi in termini di sottigliezze dinamiche e sfumature è sì manifestazione di un bagaglio tecnico-artistico da grande strumentista, ma in parte sostanziale è merito del sostegno che Jonathan Nott le offre, lasciando presagire tutte le qualità che direttore e orchestra mettono completamente in mostra nella seconda parte della serata.

  È affascinante scoprire nella prova dell’Orchestre de la Suisse Romande una sorta di continuità storica con le testimonianze del passato, quasi il sound fosse determinato dal patrimonio genetico della formazione, che oggi, come ai tempi di Ansermet, è acquerellata e diafana. Non propriamente chiara, ma delicata, non flebile ma duttile e leggera. Quel che Jonathan Nott mette di proprio è una concertazione attentissima - che si perde solo qualche piccolo equilibrio tra archi e legni nel finale di Also sprach Zarathustra, con i secondi troppo arroganti sul pianissimo dei primi - e una qualità di legato orchestrale da grande direttore. È forse questa la caratteristica che colpisce maggiormente: lo sviluppo liquido e senza fratture del flusso musicale, la continuità delle arcate, ma anche il controllo millimetrico dell’orchestra in punta di bacchetta, quasi senza alcun anticipo, al netto di un’esecuzione strumentale non sempre perfetta, soprattutto in zona ottoni.

  Successo trionfale sia per Viktorija Mullova, al termine della prima parte di concerto, che per direttore e orchestra, che si congedano proponendo il quarto movimento del Concert Românesc di Ligeti.


1 dicembre 2022

Falstaff inaugura la Stagione del Teatro La Fenice

  Può darsi che tornare all'antico non sia necessariamente un progresso, come sosteneva invece Verdi in una delle sue “quote” più abusate e travisate, ma di certo alle volte può essere un buon affare. Adrian Noble, quando ha pensato al Falstaff che ha aperto la stagione del Teatro La Fenice, è andato indietro nei secoli fino al tempo di Shakespeare e del teatro elisabettiano, calando le furfanterie di Sir John e delle gaie comari in quel Globe Theatre in cui la produzione del Bardo ha visto la luce.


  Rassicurante tradizione potrebbe dire qualcuno, celando una punta di snobismo, e può darsi che in parte lo sia, ma solo in parte. Quella cui si rifà Noble è piuttosto una tradizione accogliente, sia verso lo spettatore, digiuno o navigato che sia, sia verso le infinite sfumature di umanità che Verdi e Boito mettono nel loro capolavoro. Assolve insomma a quel proposito di universalità che le opere come questa racchiudono in sé. Un Falstaff che è teatro nel teatro, in cui diventa man mano più complicato distinguere quale sia la recita - nel primo atto è semplice: le trame di Windsor procedono nella platea del Globe mentre sul palco va in scena il Sogno di una notte di mezza estate davanti allo sguardo attento di William Shakespeare  - e quale la "realtà". O meglio, cosa sia teatro, inteso come imitazione e rappresentazione della vita, e cosa sia invece, inesorabilmente, burla. Noble non reinventa dunque il Falstaff di Verdi - e lo ringraziamo per ciò, ogni tanto è bello vedere i grandi capolavori camminare sulle proprie gambe senza l’ausilio di stampelle drammaturgiche - ma ne coglie lo spirito, lo capisce. A ciò si aggiunga che recitazione e movimenti sono pilotati come da migliore scuola british e che di idee e ideuzze, talora brillanti, altre volte meno, ce ne sono a decine.

  Le scene di Dick Bird, che riproducono questo spaccato semicircolare di teatro all’inglese in legno, oltre a essere assai belle, sono ben valorizzate dal disegno luci di Jean Kalman e Fabio Barettin. Non meno appaganti per l’occhio sono i costumi di Clancy.

  Si sarà dunque capito che lo spettacolo funziona e, come avviene ogni qual volta che ciò accade, la direzione rema nello stesso verso del regista. Ci sono diversi modi di fare Falstaff. C'è il filone toscaniniano della radicalità inesorabile, senza vie di fuga o mezze misure, o viceversa l'estremo opposto del virtuosismo un po' rococò di chi approfitta di una partitura zampillante  per ricamarci sopra ogni sorta di ghirigori. Myung-Whun Chung sceglie la terza via, che è forse quella del musicista "arrivato" che non ha niente da dimostrare. Lascia che sia la partitura a raccontare, standosene un passo indietro. Che il maestro coreano abbia assorbito la lezione giuliniana è evidente, d’altronde a Los Angeles lui c’era, come assistente. Sceglie tempi comodi e distesi, che danno agio alla parola e al suo contraltare musicale di articolarsi con chiarezza di dizione, narra col colore, puntando il faro su quel retrogusto se non amaro, crepuscolare dell'opera. Scova accompagnamenti straordinariamente poetici negli episodi dei giovani innamorati, quasi cambiasse, assieme al suono, la tinta delle luci ogni volta che i due si incontrano, pennella di malinconia il monologo che apre il terz’atto, col vecchio John consolato dal suo tenerissimo paggio-bambino (un momento molto dolce, come il vin caldo). Scova uno degli arrivi di Falstaff alla quercia di Herne più belli che si siano mai ascoltati. E poi, quando c'è da limitarsi a reggere le briglie di quel’ingranaggio perfetto macchinato da Verdi (in breve, nei finali d’atto), Chung si defila, si fa piccolo piccolo e lascia che sia il palco a parlare. Un debutto notevolissimo, arrivato al momento giusto, nell’opera del “vecchio” per i vecchi.

  Due parole le merita l'Orchestra della Fenice, che è un'eccellente interprete d'opera e non solo. Al di là della qualità di prime parti e sezioni in blocco, che negli anni è andata in costante crescendo, la buca del teatro veneziano ha ormai maturato un sound proprio, morbido e caldo, oltre a una rotondità che si sposa perfettamente con il canto del melodramma. 


  Se nel Falstaff, come nella vita, "nessuno è meno importante degli altri", Myung-Whun Chung dixit, per la riuscita di una produzione è fondamentale un cast omogeneo e senza buchi. E qui c'è, a partire da Nicola Alaimo, protagonista e mattatore, che ormai si avvia a diventare l'interprete di riferimento della parte di questi anni. Un Falstaff in scia alla grande tradizione, intesa come massima espressione della scuola italiana, in cui gesto, parola, persino lo sguardo, sgorgano da una visione strutturata e nobile, perché "alta", dell'arte. Ecco, quella nobiltà verdiana spesso misinterpretata come forbitezza o civiltà di emissione fine a se stessa, Alaimo insegna che è in realtà qualcosa di diverso, di più, anche e soprattutto in un personaggio cui non mancano tratti grotteschi se non scurrili. La nobiltà è una questione di rispetto per l'arte, di approfondimento, di scavo, di ricerca del colore giusto, dell'inflessione, dell’occhiata, di tutta quella serie di dettagli pulviscolari che messi insieme costruiscono lo spessore - e che spessore! - della caratterizzazione. Appartiene alla stessa risma Sara Mingardo, somma artista, somma cantante e somma Quickly, che non spreca una sillaba né un passo sul palcoscenico.

  Vladimir Stoyanov, Ford, è una garanzia per solidità di impostazione, brillantezza vocale e musicalità, Selene Zanetti un’Alice di gran voce e verve. I due ragazzi sono Caterina Sala, che è giovanissima per davvero e che sa cantare con quella purezza di linea necessaria per uscire vittoriosi dal confronto con la scrittura di Nannetta e René Barbera, un Fenton dal timbro rossiniano che nella sua aria dà prova di avere un controllo del fiato di alta scuola. Non c’è molto da dire su Veronica Simeoni, se non che è una Mrs. Meg di stralusso. 

  Molto positiva la prova di Christian Collia nei panni del Dr. Cajus, così come rendono un ottimo servizio a Bardolfo e Pistola Cristiano Olivieri e Francesco Milanese, bravi a centrare la giusta misura in due ruoli da caratterista sempre in bilico sul crinale del macchiettismo. Inappuntabile il contributo del Coro della Fenice preparato da Alfonso Caiani.

  Trionfo per tutta la compagnia a fine spettacolo, con punte di entusiasmo per Alaimo e Chung, salutato da battimani ritmati alla "We will rock you".


8 novembre 2022

La Resurrezione di Luisi

Un’apertura di stagione in autunno inoltrato è una scelta inconsueta per il Giovanni da Udine ma non illogica, visto che la data del concerto inaugurale ha mancato di un pelo il venticinquesimo compleanno del teatro, che cadeva giusto un paio di giorni prima che la Seconda di Mahler alzasse il sipario sulla nuova annata. Inconsueta è stata anche la sfilata di amministratori e politici sul palcoscenico, una circostanza infrequente da queste parti in cui domina un understatement molto “friulano” che rasenta la laconicità. D’altronde l’occasione era ghiotta, anche per chi a teatro ci mette piede di rado, per rivendicare il ruolo centrale dell’istituzione udinese nella vita culturale cittadina e regionale e celebrare, anche giustamente, l'amore del pubblico che non è mai venuto meno neanche nei momenti in cui le restrizioni erano più stringenti.

La scelta del titolo, voluta o meno che fosse, calzava a pennello per festeggiare quella che si spera sia una vera “resurrezione” dell’attività a pieno regime e richiamava - il compositore era lo stesso - il concerto che il 18 ottobre del 1997 battezzò il neonato teatro, con la Sinfonia dei Mille.

Quanto al programma, si trattava della terza replica dell’evento che ha aperto la stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai e di cui ha dato conto Ludovico Buscatti, l’unica in trasferta dopo le due all’Auditorium "Arturo Toscanini” di Torino. Difficile non condividere l’ammirazione per la capacità del direttore emerito dell’orchestra, Fabio Luisi, di dare coesione narrativa allo sviluppo della sinfonia. Luisi non rinunciava alla magniloquenza dell’opera, aiutato da un’orchestra capace di prodursi in sonorità compatte e brillanti soprattutto nei forti, ma nemmeno a rifinire i dettagli. Eccellente la prova del Coro del Teatro Regio di Torino preparato da Andrea Secchi, per varietà coloristica e ampiezza del ventaglio, mentre tra le due soliste è parsa in forma migliore il contralto, Wiebke Lehmkuhl, voce ampia e tornita, rispetto a Valentina Farcas che, pur esprimendo ottime intenzioni espressive, faticava a riempire l’ampia sala del teatro udinese.

A fine concerto accoglienza festosa e prolugata per tutti.

23 ottobre 2022

Lucas Debargue al Cristofori

  Doveva essere un concerto solo quello di Lucas Debargue al Festival Pianistico Internazionale Bartolomeo Cristofori, ma in realtà sono diventati due. Anzi tre, perché nel mezzo c’è stato anche il Bar Tolomeo - Cocktail di contemporanea “Margarita”, con un ottimo Daniele Fasani al pianoforte a esplorare alcuni anfratti della produzione recente per lo strumento: parte delle Variazioni su El pueblo unido di Frederic Rzewski, Variazione su uno spazio ricurvo di Salvatore Sciarrino, le Blanca Variations, tratte dall’opera The Exterminating Angel di Thomas Adès, e una prima assoluta, Ah! Poor bird di Dario Carpanese.

  Ma andiamo con ordine. Il Festival Cristofori, che ha appena festeggiato il quinto anno di vita, è una rassegna dedicata all’inventore del pianoforte e dunque allo strumento stesso, che si tiene a Padova dal 2018. Tra concerti, approfondimenti e simposi multidisciplinari, il programma si allarga dalla musica ad altre scienze, fino a coinvolgere la gloriosa Università cittadina, sconvandone le interconnessioni profonde.



  Quello di Lucas Debargue si annunciava come il concerto evento della rassegna e non ha deluso le aspettative. Debargue è una figura dalla parabola curiosa e dall’indole antidivistica. Scopre il pianoforte già cresciutello, a undici anni, giocandoci per caso mentre è ospite di un amico, ma a diciassette lo pianta in asso per cambiare vita e dedicarsi ad arte e letteratura. Tuttavia, come insegna la canzone, ci sono amori che fanno giri immensi e poi ritornano, e così succede. Debargue, divenuto ormai ventenne, torna nel paese natale per un concerto jazz e la scintilla scatta di nuovo. Decide così che il pianoforte sarà la sua professione e inizia un percorso intensivo di formazione con Rena Chereshevskaya che lo porterà a guadagnarsi il quarto posto al Concorso internazionale Čajkovskij del 2015. Non un gran piazzamento in valore assoluto, ma Gergiev lo nota e lo vuole portare con sé in tournée. È il treno che passa una volta nella vita per sconvolgerla radicalmente. Da allora è iniziata una carriera da star, con ospitate e collaborazioni per cui molti artisti firmerebbero un patto col demonio. 

  Non è dunque un musicista qualsiasi, Debargue, uno dal percorso lineare e dalla marcia instradata col paraocchi, ma un eclettico. Fa il grande repertorio, sì, che probabilmente è quello che gli dà da mangiare, ma non vi si limita. Compone, improvvisa, strimpella altri strumenti, quando capita torna al jazz.

  Il programma cui è chiamato dal Cristofori nella Sala dei Giganti di Padova è ispirato a “Musica e poesia” e si fatica a immaginare una scelta più azzeccata, anche se l’universo di Debargue pare lontano da certo versificare soave e lirico, ma più incline a una poetica maledetta baudelairiana, se non addirittura espressionista. Ha sì tecnica e controllo prodigiosi - e d’altronde quali tra i solisti in circolazione non possono dire lo stesso? - ma non solo. Aggredisce la tastiera con impeto brutale, mordace, con una passionalità quasi violenta.

  Non ricerca la tenerezza né la bellezza, almeno non solo quelle, ma l’urgenza. È un pianismo elettrico il suo, vitalistico, non un’esibizione perbenino da primo della classe, anche se primi della classe bisogna esserlo per affrontare un programma simile, che dopo la Sonata in la minore K 310 di Mozart mette in fila tre prove di bravura da far tremare le vene. Un triplice Chopin, con Ballata n. 2 op. 38, Preludio op. 45 e Polonaise-Fantasie op. 61, quindi i tre poemetti da Gaspard de la nuit di Ravel e la Fantasia quasi Sonata “Après une lecture de Dante” di Franz Liszt. Cambia epoca e repertorio ma non la sostanza: Debargue è un terremoto, addenta alla giugulare il vecchio Steinway della sala con precisione e fluidità che mandano in delirio il pubblico.

  Di quel che è successo dopo si è già fatto cenno. Al main event della domenica ha fatto seguito un appuntamento "minore" al Barco Teatro, una piccola sala con bar che ospita una propria stagione con un bel palco e un’eccellente acustica, con protagonista il citato Daniele Fasani. L'epilogo non era previsto in locandina e forse proprio per questo è stato ancor più interessante. Una volta terminato il concerto della “seconda serata”, Debargue e Fasani si sono smezzati palco e strumento un po’ per improvvisare, un po’ per sottoporre allo stress-test del pubblico qualche pezzo inedito, un po’ per il mero piacere di suonare, anche insieme. Una gioia condivisa da pochi intimi, che non se ne dimenticheranno.


22 ottobre 2022

Simon Rattle e la London Symphony Orchestra tra Sibelius e Bruckner

  Prima la cronaca. Dopo un paio di minuti dall'inizio della Settima di Bruckner, un manipolo di professori d'orchestra abbandona il palco del KKL di Lucerna. Rattle, sgomentato, non sa che fare, esita per alcuni istanti e quindi ferma tutto. Confabula per una decina di secondi con una prima parte degli ottoni, quindi avanza in proscenio e avvisa: un musicista si è sentito male, "it's real life", ricominciamo dall'inizio. E così è andata.

Simon Rattle e la London Symphony Orchestra tra Sibelius e Bruckner
© Priska Ketterer/Lucerne Festival

  Se il Sibelius di Oceanidi e Tapiola è grossomodo un esercizio di stile per far capire a tutti quanto sono bravi Simon Rattle e la London Symphony Orchestra, i conti si fanno con Bruckner. E i conti tornano. Sibelius è una lezione pratica di direzione e concertazione. Sembra che Rattle si diverta a pilotare quel macchinario-straordinario che è l'orchestra inglese per mettere in mostra quanto è possibile cavare dall’orchestrazione del compositore finlandese. Un trionfo di colori, fremiti, di controllo ed equilibrismo. Basterebbe il perfetto bilanciamento tra ottoni e archi, a disegnare un suono ombroso (Tapiola), a dare prova della maestria coloristica di Rattle, che pur è sempre sorvegliatissimo. Anche nei momenti di maggior impeto non si avverte mai uno sbilanciamento tra sezioni, uno stridore, un elemento indisciplinato che sfugga all’ordine.

  Ma come si diceva, il bello deve ancora arrivare. E arriva, con una Settima di Bruckner che non è solo magnificamente eseguita, ma vissuta e spiegata. L'inizio carezzevole cede presto il passo a un pulsare ora ansioso, ora esitante, a cercare quel bandolo della matassa che con Bruckner sembra non arrivare mai. Rattle scava nel tentativo di dare sintesi e consequenzialità a tutti quei temi e frammenti che si susseguono, avanzando tra slanci e indugi. L'Adagio è commovente. Libero e leggero, con il tema principale che ritorna ora più lento, ora più mosso, senza che si percepisca alcuna forzatura nei leggeri sbalzi agogici.

  Quindi riparte il processo di costruzione e decostruzione, come fosse lì a cercare di mettere insieme dei pezzi uno dopo l'altro per costruire qualcosa che non si capisce mai dove possa portare. Una prova di classe cui morbidezza e flessibilità della London Symphony Orchestra contribuiscono in modo sostanziale. Un’orchestra tanto limpida quanto pastosa e bilanciata nell’amalgama, che sotto la guida Rattle - che tra un paio d’anni lascerà lo scranno per fare posto ad Antonio Pappano - ha mantenuto la formidabile qualità tecnica, guadagnando, se possibile, un ventaglio coloristico ancor più ampio.

  Trionfo clamoroso a fine concerto, con il pubblico del KKL in piedi ad applaudire direttore e orchestra.

8 ottobre 2022

Saraste dirige la GMJO

  Doveva esserci il fresco novantacinquenne Herbert Blomstedt sul podio della Gustav Mahler Jugendorchester per la tournée estiva di quest'anno, finché un acciacco non ha costretto lui a cancellare l'impegno e l'orchestra a cercare un sostituto a pochi giorni dall'inizio. Difficile immaginare che il minimo preavviso consentisse una vasta scelta di alternative, tanto più in un periodo in cui i grandi direttori, cioè quelli da GMJO, sono tutti impegnati nei vari festival estivi in giro per il mondo.

  Il caso ha fatto sì che la strada della Mahler si incrociasse con quella di Jukka-Pekka Saraste, che si è sobbarcato un progetto già bello che pronto e che probabilmente lui avrebbe sviluppato in modo diverso. Almeno questa è l'impressione che lascia il suo Bruckner (Settima Sinfonia) nel secondo concerto friulano di quest'anno, in cartellone al Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, che segue a ruota la serata al Verdi di Trieste, che presentava un programma sulla carta più adatto alla sensibilità del maestro (Schubert e Sibelius). La novità infatti è che la residenza della Gustav Mahler Jugendorchester a Pordenone, giunta al giro di boa del quinto anno, è culminata in una doppietta di serate equamente smezzata tra i due teatri omonimi della regione.

Ma com'è dunque questo Bruckner? Godibile, superbamente eseguito, ma discontinuo. O meglio, ha una sua coerenza di fondo nell'approccio senza troppi fronzoli, ma al netto della piacevolezza d'ascolto, è povero di sentimento. Il che vuol dire tutto e niente e, si capisce, è difficilmente oggettivabile, eppure è difficile esplicare altrimenti la sensazione che trasmette.

Saraste indovina tanti bei momenti, ma ne spreca altrettanti lasciandoseli scappare dalle mani senza lavorarli quanto potrebbe. Se certe frasi degli archi, e soprattutto il dialogo tra sezioni degli stessi, qua e là mettono davvero a nudo la scrittura, eviscerandola con un'attenzione quasi illuminante, a uno sguardo più generale si tratta di passaggi avulsi, collegati l'uno con l'altro da una marcia col pilota automatico. Cosa manca dunque? L'ampiezza di respiro, l'afflato tragico, la tensione drammatica. 

Qualità che talvolta si intravedono, ogni tanto germogliano ma non riescono mai a fiorire completamente, spezzate da un approccio al battito troppo rigido e dall'assenza di abbandono al flusso musicale. Fuori di metafora, è quel genere di cose per cui trattenere una nota per una manciata di decimi di secondo in più, stiracchiare una pausa, esitare, forzare l'assalto a una frase o sostare un istante per lasciar morire un suono nel nulla fa tutta la differenza del mondo.

Ciò detto, la GMJO è in ottima serata e dà pieno sfoggio delle proprie qualità, che sono poi le solite. Un colore tendenzialmente scuro e caldo, archi carezzevoli e una straordinaria compattezza di suono. Suono che è ben concertato ma forse un po' meno di quanto avrebbe potuto essere, poiché a tratti rimane l'impressione che ci fosse del margine per limare ancora un po' i dettagli, soprattutto in zona ottoni.

Accoglienza molto calorosa del pubblico pordenonese, che non smette di applaudire nemmeno quando l'orchestra si congeda.


12 luglio 2022

Peter Grimes al Teatro La Fenice

  Il Peter Grimes in scena al Teatro La Fenice è una delle cose migliori che si siano viste lì dentro da molti anni a questa parte. L’opera di Britten arriva a Venezia per la prima volta dalla nascita con uno spettacolo scarnificato fino all’osso, che pare dispensato dalla smania modaiola di stupire o reinventare la drammaturgia originale a tutti i costi e forse proprio per questo motivo risulta così potente. Un Peter Grimes che Paul Curran, regista, riesce a trasformare in un thriller a tratti inquietante, a tratti grottesco. Una categoria, quest'ultima, che irrompe allorché sale sul palco Mrs. Sedley, in locandina una Rosalind Plowright che dicono gloriosa ma che purtroppo alla recita di cui si racconta è stata degnamente sostituita, causa indisposizione, da Kamelia Kader.



  Curran insomma monta il Peter Grimes di Britten senza cambiarlo di una virgola, ma concentrandosi sulla tridimensionalità dei caratteri, che sono autentici, umani nella loro inafferrabile contraddittorietà e fallibilità. Curran non consola né condanna, semplicemente racconta. Racconta di un borgo che è sì bigotto e pettegolo, ma in fondo non senza qualche buona ragione per esserlo, di uomini ottusi e intransigenti e di altri divorati dal dubbio e da una parvenza di scrupolo morale, di tante singolarità che nella moltitudine diventano un unico, informe branco. Racconta di un Peter Grimes che non ci sta con la testa e che il conflitto con il villaggio spinge verso uno stato di alienazione prima fisica, infine mentale. Forse, in fin dei conti, il personaggio meno interessante tra quelli in scena risulta proprio il protagonista, che emerge come colpevole sin da subito: un colpevole più aggressivo che passivo, vittima dei suoi disturbi mentali e di un lato oscuro represso fino all'inevitabile deflagrazione. È un Peter la cui forza teatrale non è tanto in sé, quanto nella reazione che scatena in chi gli sta accanto, come in Ellen Orford, una meravigliosa Emma Bell dalla voce con qualche fissità in alto ma strepitosa musicista e attrice. Ellen è una maestrina accecata dall'egocentrismo "buonista", sì direbbe oggi, una di quelle che vogliono salvare il mondo ad ogni costo, un po' per autentico altruismo, un po' per la smania di sentirsi belle persone, ma che finiscono per fare più danni che bene. In tal senso è perfettamente sbalzato il raffronto con Captain Balstrod, un Mark S. Doss asciutto e ficcante tanto nel canto quanto nel gesto, che cerca di fare la cosa giusta senza crederci mai davvero del tutto, fino a crollare sotto al peso dei sensi di colpa

  In un piccolo mondo spaccato in due tra imputati e inquisitori, emerge il tenerissimo rapporto di solidarietà tra le "male-femmine" del borgo, le reiette, quelle che hanno preso la cattiva strada, o perché prostitute, come le ragazze della locanda, o perché si sono schierate dalla parte sbagliata, come Ellen appunto. Loro sono lo specchio di Peter, che è inequivocabilmente l'orco del villaggio, non se ne dubita nemmeno per un secondo. Curran ci porta a pensare che lo sia, ci fa entrare nella testa del “borgo”, scaraventandoci nel mezzo sin dal processo sommario del prologo, che va in scena con le luci in sala ancora accese. Quel bifolco iracondo dal fisico imponente e dai modi bruschi non ci piace, non possiamo essere certi che abbia ammazzato il mozzo ma in fondo ci viene facile crederlo. Ciò detto, Andrew Staples, che dà il suo corpaccione e voce al protagonista, è tutt'altro che monodimensionale o rozzo nel canto, che sviluppa invece con grande sensibilità musicale e un assortimento di colori da liederista all'inglese di razza.


  A voler trovare un difetto a uno spettacolo sontuoso, il borgo costruito da Gary McCann, che sposta l'azione intorno alla metà del secolo scorso, grossomodo vicino all’epoca di composizione, è fin troppo ordinato e pulito. Manca un po' del lerciume, della puzza di pesce e di salsedine che ci si aspetta di trovare in un posto del genere, povero e rurale. Il distacco tra il paria Grimes e il contorno piccolo borghese è metaforicamente affascinante, ma un po’ patinato. Inezie nel contesto di un impianto scenico che è sia cornice che quadro e che ha anche il grande pregio di muoversi senza un cigolio, rapido e cangiante come la tempesta che investe il villaggio. L'ambiente è via via delineato da una serie di pannelli sghembi, sospesi o scorrevoli, animati dalle ispiratissime luci di Fabio Barettin.



  La restante parte della compagnia mette insieme una sfilza di caratteristi che sono uno più bravo dell'altro. È ottima la Auntie di Sara Fulgoni e forse lo sono anche di più le due nipotine: Patricia Westley e Jessica Cale, abbigliate a mo’ di pin up anni ‘50, che, oltre a incarnare il desiderio erotico dei maschi del paesello, cantano magnificamente. È assai ben caratterizzato anche lo Swallow dal vocione torvo e dal fisico ingombrante di Sion Goronwy.

  Tra i due uomini di fede, il Robert Boles splendidamente cantato da Cameron Becker e il reverendo Horace Adams di Eamonn Mulhall, è più interessante il secondo, non per maggiori meriti artistici ma perché risulta meno squadrato e macchiettistico. Benissimo anche il Ned Keene di Alex Otterburn, che il pubblico ha salutato con sorprendente entusiasmo, e l’Hobson di Laurence Meikle.

  Il Coro, che è il fulcro dell'opera, trova nella formazione della Fenice diretta da Alfonso Caiani un'interprete di gran qualità, non solo per la compattezza del fronte vocale, ma anche per la duttilità nel tenere la scena, prestandosi a ogni richiesta di una regia molto accurata ed esigente.

  A tirare i fili del tutto c'è Juraj Valčuha, che firma una direzione in zona capolavoro. Trasparente, nitida, tesa anche nei passaggi più distesi, che non perdono mai forza né elettricità, possente eppure mai opaca o chiassosa. Merito del maestro, senz’altro, ma anche di un’Orchestra della Fenice in stato di grazia, che sa essere duttile e flessibile, ma anche scatenare i decibel senza mai perdere limpidezza e precisione.

Successo trionfale per tutta la compagnia, con Valčuha festeggiato da eroe della serata.


30 maggio 2022

Iván Fischer e la BFO chiudono la stagione del Giovanni da Udine

  Doveva esserci Daniil Trifonov sul palco del Giovanni da Udine accanto alla Budapest Festival Orchestra, ma una tendinite l'ha costretto a cancellare la piccola tournée europea e di conseguenza l’appuntamento conclusivo della stagione musicale del teatro friulano. È un peccato, ma l'Incompiuta di Schubert che ha sostituito il Quarto concerto di Beethoven in programma è comunque un bell'accontentarsi, soprattutto se a suonarla è questa orchestra e a dirigerla c'è Iván Fischer, che dell'orchestra ungherese è una diretta emanazione. O viceversa. La simbiosi tra direttore e musicisti ha ormai maturato un tale livello da produrre un suono che pare innaturale per quanto è perfettamente controllato ed esposto. Non è solo questione di concertazione, ma di sviluppo di ogni singola frase. Qualcosa di prodigioso soprattutto negli archi, che aprono e chiudono ogni arcata senza lasciare che si scorga l’attacco del suono e che sanno rafforzare l’intensità espressiva di una nota, o la sua forza, senza modificarne la dinamica.

  È una perfezione strumentale che nella Prima Sinfonia in Re maggiore di Mahler esplode in un livello di virtuosismo grandioso, sia per quanto riguarda le singole sezioni, sia per la capacità di Iván Fischer di tenere insieme ogni pezzo incastrandolo con gli altri. Fischer non è il genere di direttore che si inventa cose strane o che ripensa le idee del compositore per arrivare a imprimere una versione personalistica dell’opera. È piuttosto uno che riesce a tirare fuori tutto quello che c’è nella pagina, imprimendo la propria cifra nei piccoli dettagli: nell’articolazione, nel fraseggio, nel carattere, nel colore.

  Apre la sinfonia sussurrando, come raccontasse la sorpresa di un risveglio primaverile, al secondo movimento dà accenti grevi da taverna di campagna, acuendo quell’ascendenza popolare che si ritrova, seppur in modo diverso, nelll’iperespressività larmoyant e stiracchiatissima del valzer del Trio. C'è un'anima mitteleuropea ancestrale in questa musica che l'orchestra ha nel sangue. È una idiomaticità che ritorna negli echi di ciarda del terzo tempo, che va animando il motivetto luttuoso in canone introdotto del contrabbasso.

  Non è un Mahler forsennato né travolgente quello fatto da Fischer, anzi, è per certi versi klempereriano, non meditabondo ma ben ragionato, analizzato in profondità nell’architettura e per certi versi persino spiegato: le chiuse di primo e quarto movimento, faticose, estenuate e pesanti, così ineditamente speculari, danno al quadro un’organicità che sfugge alle esecuzioni più “emozionali”. Non è tuttavia un vigore che ammorba o affatica, ma atto ad accumulare una tensione drammatica che esplode nel giubilo finale, che si ascolta doppiamente in estasi: da un lato per la carica vitalistica della musica in sé, dall'altro perché osservare Fischer che pilota questo macchinario gigantesco come fosse una console appaga la passione feticistica di qualsiasi amante della musica sinfonica.

  Quanto alla Budapest Festival Orchestra, è tra le migliori che si possano ascoltare sulla scena internazionale da diversi anni a questa parte. Ha un suono morbido e lussureggiante, carico e caldo sì, ma limpido, sempre elegante e bilanciato, e una gamma di sfumature sia nelle sezioni che nelle prime parti che pare inesauribile.

  Trionfo a fine concerto che si spegne solo quando il direttore congeda l'orchestra. Curiosa la proposta, a termine dell’Incompiuta, delle poche battute del terzo movimento abbozzate da Schubert.



12 maggio 2022

Rigoletto ritorna al Verdi di Trieste

  Nelle stagioni del Verdi di Trieste, che ormai non sgarrano di un centimetro dai binari del grande repertorio, Rigoletto rispunta con cadenza quinquennale. La cosa curiosa, spulciando la cronologia, è la presenza costante di Devid Cecconi, già in locandina nell’”epoca Oren” del teatro, nel 2006, al debutto assoluto nel titolo e su un palcoscenico, e ancora chiamato nel secondo cast nella produzione del 2012, che vantava due stelle in fieri come Salsi e Meli. Cecconi mancò l’interlocutoria inaugurazione di stagione del 2016, firmata dalla coppia Carminati-Grinda, mentre torna da protagonista nello spettacolo in scena in questi giorni.

  E che protagonista! A dispetto di uno strumento che rispetto al passato sembra aver perso un po’ di “peso”, Cecconi è un artista che scava nella parola, che colora e accenta, smorza e sfuma, con una sicurezza tecnica e un controllo dell’emissione irreprensibili, soprattutto nella scomoda zona alta della tessitura, che molti Rigoletti tendono a risolvere in un forte costante o ad accomodarsi declamando brutalmente. Il suo è un Rigoletto maturato a fondo e sviscerato nel dettaglio, in cui rabbia, patetismo, amore paterno, frustrazione e viscidume morale si combinano a disegnare un personaggio completo e chiaroscurato.


Foto Fabio Parenzan


  Difficile trovare un difetto alla Gilda di Ruth Iniesta, che è perfetta sul piano vocale, musicalissima, ha una dizione cristallina e dà altresì al personaggio una tempra moderna forse non in linea con lo spettacolo, ma molto affascinante. Quella della Iniesta è una Gilda tutt’altro che ingenua, ma piuttosto una ragazzina smaliziata che non vede l’ora di togliersi di torno il padre per iniziare a godersi la vita e la libertà.

  Antonio Poli è un notevolissimo prospetto di Duca di Mantova. Un Duca che deve ancora farsi e risolvere qualche piccola magagna, ma che fa anche ascoltare ottime cose. Il primo atto è guardingo, con bei momenti uniti a qualche salita avventurosa verso gli acuti, così come manca di spavalderia La donna è mobile. Di contro, Poli apre il secondo atto con un recitativo meraviglioso, seguito da una Parmi veder le lagrime di pregevolissimo legato e ampiezza, tornita con una serie di contrasti dinamici prodigiosi sul piano tecnico ed espressivo.


Foto Fabio Parenzan


  Solidissima la prova di Abramo Rosalen, Sparafucile dal bel timbro nero e dal volume portentoso, così come è perfetta la Maddalena di Anastasia Boldyreva: bel velluto e bella presenza, per il personaggio difficile pretendere di più. Alterno il contributo della tante parti di contorno. Rocco Cavalluzzi è un Monterone deludente. Nel momento in cui si scrittura un Monterone bisogna assicurarsi di una sola cosa: che tutti gli strali che va lanciando quando sale sul palco suonino abbastanza minacciosi e tonanti, anche perché in quei momenti l’orchestra sotto spinge parecchio. Se manca quello, manca tutto. Molto convincente la Giovanna di Kimika Yamagiwa, che la regia dipinge come una prezzolata pronta a vendere la  sicurezza di Gilda in cambio di qualche pezzo d’oro. Buone le prove di Dario Giorgelé e Dario Sebastiano Pometti, rispettivamente Marullo e Matteo Borsa, mentre fa più fatica il Conte di Ceprano di Francesco Musinu. Al solito affidabilissima Rinako Hara, impegnata nella doppia parte della Contessa di Ceprano e del paggio della Duchessa. Corretto nel suo piccolo intervento Damiano Locatelli, usciere di Corte.


Foto Fabio Parenzan


  Tiene salde le redini Valentina Peleggi, che si trova a guidare un'orchestra allargata oltre la buca vera e propria, che è in buona parte rialzata in bolla con la platea, e con una piccola appendice sui palchi di barcaccia. Ne consegue qualche difficoltà nel regolare i volumi in rapporto con il palco, anche nei momenti in cui l’orchestra alleggerisce la dinamica verso il pianissimo. Al di là delle condizioni ambientali ineludibili, Peleggi fa ascoltare una buona concertazione e anche la giusta attenzione al palco, cui manca solo un briciolo di cantabilità nei momenti più ariosi. Ciò detto, l’Orchestra del Verdi suona molto bene, sia come qualità di amalgama, sia come precisione, consentendo alla direttrice di enucleare alcuni dettagli interessanti dell’orchestrazione e di ottenere certi stacchi di tempo belli decisi ma sempre pulitissimi (come il Cortigiani, giustamente più svelto di quanto voglia la tradizione). È molto positiva anche la prova del Coro del Verdi preparato da Paolo Longo.


Foto Fabio Parenzan


  Quanto allo spettacolo, Éric Chevalier, segue una linea programmatica chiara stampata nero su bianco nel programma di sala: “un’opera popolare come Rigoletto è in grado di attirare un nuovo pubblico, ma deve essere presentata in modo leggibile e comprensibile, per rivolgersi efficacemente allo spettatore che non abbia necessariamente i codici del teatro lirico. Mi sembra fondamentale, registicamente, interpretare l’opera in modo tale da non scoraggiare chi si appresta per la prima volta al linguaggio lirico”. Si può condividere o meno il punto di vista - e io non lo condivido affatto: pensare di destinare Rigoletto a un pubblico digiuno nel momento in cui lo si allestisce in un teatro in cui l’opera va in scena ogni cinque anni è una tesi difficilmente sostenibile, né si capisce perché il supposto neofita dovrebbe ricevere un’attenzione maggiore rispetto a chi a teatro ci va assiduamente, cioè la gran parte del pubblico in sala - ma una volta preso per buono l’assunto di partenza, si cerca di apprezzarne la coerenza realizzativa. Che nel caso in questione è complessivamente buona. Certo, è il più classico dei Rigoletti didascalici di tradizione, con la gobba abnorme, il cappello da giullare e tutto il resto, ma la regia è ben curata e la vicenda “spiegata” con chiarezza. Le scene, firmate dallo stesso Chevalier, sono scarne e low-budget ma funzionali. Un grosso praticabile rotante con una scalinata centrale assolve alle necessità “ambientali” di massima, mentre una serie di proiezioni sullo sfondo completa il quadro. I costumi “d’epoca” di Giada Masi sono complessivamente molto belli, mentre è davvero troppo piatto il disegno luci, che altrimenti curato avrebbe potuto valorizzare in modo migliore il palcoscenico.

Successo caloroso per tutti a fine recita, con ovazioni per i tre protagonisti.

5 aprile 2022

I Lombardi tornano alla Fenice

  Nei 178 anni che sono passati dalla prima e unica volta de I Lombardi alla prima crociata al Teatro La Fenice, datata 1844, un po' di cose sono cambiate. I Lombardi sono diventati una setta di fanatici cristiani, forse dei giorni nostri, forse di un futuro distopico non troppo lontano. Pagano è la pecora nera della famiglia "bene" che sta a capo di questa congrega di invasati violenti. Lui è un mezzo hippie con l'aria da vichingo de noaltri, loro dei santoni di bianco vestiti che se non impugnano un crocefisso è solo perché la mano è occupata da un kalashnikov, e se non c’è nemmeno un kalashnikov va bene anche una mazza da baseball. Dall'altra parte ci sono i nemici, ovviamente i musulmani, il cui profilo è grossomodo uguale e contrario. Semplificando, Valentino Villa, regista della produzione, la vede più o meno così. Dico semplificando perché in realtà di carne al fuoco Villa ce ne mette parecchia, probabilmente troppa. È vero che la trama dell'opera è improbabile, che il libretto zoppica e che i personaggi, nel loro integralismo curiosamente elastico, non offrono molti appigli, però Villa, per cavare un goccio di sangue dalla rapa lombarda, finisce per intasare il flusso narrativo con tanta di quella roba che la metà basterebbe per due produzioni.


  C'è il filo conduttore di Caino e Abele, condivisi dalle scritture cristiane e coraniche, che nascono, crescono e muoiono sulla scena in corso d'opera. Il parallelo con i fratelli protagonisti è lapalissiano, ma la pantomima biblica non aggiunge proprio niente alla drammaturgia dell’opera. Villa ci spiega poi che il fanatismo religioso spesso sfocia nel razzismo e il razzismo nella violenza, e che le guerre danno la stura ad abusi e ruberie. Tutto vero, manca però un disegno coerente nel mettere in fila i pezzi. La presa di Gerusalemme ad esempio, che diventa una razzia brutale a un minimarket-kebab di quelli tipicamente gestiti da immigrati orientali, anziché condurre all’acme della tensione, come avrebbe potuto essere, rimane un episodio incidentale totalmente avulso da quel che lo precede e lo segue. Il problema è che a metterci questo e quello, e poi quell'altro e quell'altro ancora, il filo si ingarbuglia. Qualcosa si coglie, molto passa via. È come se il regista cercasse di distogliere l’attenzione dall'immobilismo dell’opera, purtroppo inesorabile, riempiendo i vuoti d’azione con spunti su spunti, controscene e violenza gratuita, per altro realizzata in un modo che non è mai davvero disturbante, ma talvolta involontariamente comico. Quanto al lavoro di regia vera e propria, Villa fa quel che può, e d'altronde è difficilissimo dinamizzare l’azione in un'opera in cui il coro è quasi costantemente in scena. Massimo Checchetto disegna un ambiente indefinito per i primi due atti, un hangar cementato che si apre a fondo scena con una feritoia cruciforme, mentre gli ultimi due si svolgono sullo sfondo di un ambiente di ispirazione mediorientale. I costumi di Elena Cicorella assolvono a una funzione identificativa delle fazioni in campo.

  Venendo alla musica, il dato saliente è la prima rappresentazione assoluta dell’edizione critica della partitura pubblicata da The University of Chicago Press. Una tappa significativa nella storia dell’interpretazione contemporanea del genere, anche se nel caso specifico la rilevanza dell’aspetto culturale non è pareggiata dall’efficacia teatrale. Fa un buon lavoro Sebastiano Rolli, che è un “nerd” verdiano e si sente. Si sente il lavoro in sala coi cantanti, che accentano e sfumano la dinamica, si sente la concertazione accurata - e infatti l'Orchestra della Fenice è in ottima serata e suona bene assai -, si sente anche un'attenzione affettuosa ma non servile al palco. Però il lavoro dei cantanti non è solo studio e preparazione, c'è anche quell’ineffabile “in più” che fa tutta la differenza del mondo.


  Roberta Mantegna ad esempio, ha tutte le note di Giselda. Ha voce di bel timbro raggiante che rispetto al passato ha ulteriormente acquisito peso e anche una notevole sicurezza nell'affrontare ogni richiesta della scrittura, dal legato all'agilità. Solo gli estremi acuti non le riescono sempre limpidissimi. Però il suo è un canto tendenzialmente monocorde: manca di colori, di pathos, persino dell’audacia di rischiare il suono magari meno pulito ma teatralmente più pregnante.

  Il Pagano di Michele Pertusi è viceversa molto chiaroscurato e vario, secondo un gusto decisamente debitore alla tradizione italiana. La voce, del colore nobile che ben conosciamo, acquisisce timbratura man mano che sale, trovando sfogo in un’ottava superiore bronzea.

  Antonio Poli, da (eccellente) tenore mozartiano, è ormai giunto al grande passo delle parti verdiane. Il suo strumento negli anni si è molto allargato, sia nel medio grave, che ha una velatura quasi baritonale, sia in acuto, mantenendo tuttavia elasticità nell'espandersi dalla mezzavoce alla massima potenza. Gli resta da limare un po' il passaggio tra i due registri, che è poi la zona su cui questo repertorio batte più insistentemente. Ottima la prova di Antonio Corianò, che è un Arvino di grande squillo e sicurezza. Per una parte tutto sommato marginale, Corianò è un gran lusso, al punto che rimane la curiosità di ascoltarlo in un impegno di maggior rilievo.

  Bastano poche frasi ad Adolfo Corrado, Acciano, per fare apprezzare un timbro di basso di tutto rispetto. È al solito affidabile Mattia Denti, Pirro, così come si comportano bene Marianna Mappa nei panni di Viclinda e Barbara Massaro, Sofia. Completa il quadro Christian Collia nel breve intervento del priore. Il Coro del Teatro La Fenice, di recente passato sotto la guida di Alfonso Caiani, non ha perso la compattezza che l’ha sempre caratterizzato, peculiarità che, unita all’ampiezza del ventaglio dinamico, lo rende un eccellente protagonista del giovane Verdi.

Buon successo per tutti, con punte di entusiasmo per Mantegna, Pertusi e Rolli.

4 aprile 2022

Iván Fischer dirige la EUYO

  A cinquant’anni dalla composizione, il Cantus Arcticus di Einojuhani Rautavaara arriva al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, seconda tappa della piccola tournée che la EUYO - European Union Youth Orchestra, in questo inizio di primavera, sta conducendo tra Italia e Finlandia. Sul podio c’è uno dei grandi del nostro tempo, Iván Fischer, cui non sfuggono le evocazioni e le alchimie di questo contrappunto orchestrale al canto degli uccelli. Rispetto alle esecuzioni di scuola finnica cui si è abituati, Fischer fa un Rautavaara meno trasparente ma più caldo e denso. Il che non significa che lo appesantisca, anzi, ma piuttosto che ricercare un amalgama vitreo e gelido, Fischer adombra e inspessisce il suono, esaltando la componente più lirica e cantabile della scrittura.

  C’è molta Finlandia nella serata di cui si racconta. Dopo Rautavaara, tocca al pilastro della tradizione nazionale Jean Sibelius con il suo Concerto per violino e orchestra in Re minore, op. 47. Kreeta-Julia Heikkilä, trentaseienne violinista finlandese, è molto attiva in ambito cameristico e si sente. È fine, pulita, ha un approccio aulico al Concerto di Sibelius, ma fatica a reggerne il peso. Non per mancanza di qualità musicali o tecniche, che sono all'altezza della sfida, ma proprio per una questione di spessore del suono. Fischer tiene a bada l'organico mastodontico della EUYO, salvo poi scatenare la piena potenza del motore nei momenti in cui la solista tace, ma anche sul tappeto rarefatto e morbido intessuto dal direttore, la Heikkilä patisce la disparità di volume tra il suo Guarnieri e un'orchestra bella folta. Il suo è un suono bello, chiaro ancorché velato, tendenzialmente nasale ma poco penetrante, insomma piccolo-piccolo, tant'è che pare arrivare alla fine del terzo movimento metaforicamente coi polmoni spompati. Fischer con Sibelius fa l'abile mestierante. Sta attento che i conti tornino - e tornano sempre - ammorbidisce e aggiusta, si prende qualche licenza dove può, ma fondamentalmente sta un passo indietro senza illuminare il concerto di luce nuova.

  Ha ben altra libertà nel Concerto per orchestra di Bartók, in cui dosa virtuosismo e prudenza, ironia e senso del colore, possanza e frivolezza. Fischer ha quella capacità rara di ammorbidire e legare anche nelle sferzate più violente e di mantenere il calore del suono senza mai farlo impantanare. È un suono a tratti cupo, a tratti crepuscolare, ma per nulla morchioso o pesante, anche nei passaggi in cui l'orchestra alza il volume. E soprattutto è il suo suono, quello che si ascolta dalla Budapest Festival Orchestra (che sarà protagonista a maggio sul palco del teatro), trasposto pari pari sui ragazzi della EUYO. Oltre alla concertazione, che è capillare e ineccepibile, pur andando a memoria Fischer è sempre in perfetto controllo di ogni linea, che direziona con un gesto parco e un abilissimo gioco di leggero anticipo su ogni intenzione. Quanto all’European Union Youth Orchestra, non si può che lodare la qualità dell’amalgama generale e delle prime parti. È sempre sorprendente la capacità che hanno queste orchestre giovanili ad altissimo turnover di mantenere un’identità timbrica e una quadratura che non sfigurerebbero di fronte a confronti di prim’ordine e di reggere con facilità quasi irrisoria qualsiasi pagina del repertorio.

29 marzo 2022

Dal pianoforte al podio, Chung è il protagonista

 Myung-Whun Chung non è un solista nemmeno quando gli tocca farlo. Anche al pianoforte per il Concerto n. 23 di Mozart, sul palco del Malibran per la stagione sinfonica del Teatro La Fenice, pensa da direttore. In fondo ha scelto molto tempo fa verso quale strada direzionare la sua carriera. Ovviamente Chung non ha nelle mani il virtuosismo fluido dei “pianisti” da concerto, il loro tocco suadente, non ha nemmeno una agilità pulitissima: non è più quello il suo mestiere. Eppure quel che fa merita d’essere ascoltato e applaudito.

Chung non è il genere di solista che si fa accompagnare dall’orchestra, né ci si appoggia sopra come un ospite passeggero e intercambiabile, non ha insomma il narcisismo del protagonista. Nell'orchestra lui ci si addentra. La linea del pianoforte è una voce che entra nel tessuto e dialoga con tutte le altre a una profondità che un solista “vero”, fosse anche eccezionale, difficilmente riesce ad esplorare. Perché Chung, appunto, la vede organicamente, dal punto di vista del podio. Sa in ogni momento cosa “dice” ogni altro strumento e sa come deve essere l’interazione con esso, o almeno come lui vuole che sia. Chiama i legni e risponde loro, gioca a sprofondare e riemergere dall’orchestra, arretrando quando necessario o uscendo con grazia senza sgomitare, ma accomodando il suono che lo circonda e il proprio. È in tal senso felicissima la scelta di asciugare al minimo l’organico, che oltre a una leggerezza davvero mozartiana - e dunque dolce e trasparente sì, ma non inconsistente - esprime una qualità musicale di prim’ordine. Mancheranno al Chung pianista i colori delle mani più navigate e quella precisione della meccanica che ormai è nel bagaglio di ogni strumentista più o meno interessante, ma non manca mai il pensiero, l’ampiezza della visione musicale.

Sorprende di meno l’Eroica di Beethoven, non perché di qualità musicale inferiore, tutt’altro, ma perché le doti di affabulatore del podio del maestro coreano sono cosa ben nota. Chung fa un Beethoven concertato divinamente ed equilibrato, non solo nel bilanciamento sonoro, ma anche nelle scelte musicali. È un Beethoven senza eccessi né carenze, in cui drammaticità, respiro e virtuosismo coesistono armoniosamente. Non è una Terza analitica né spiegona, di quelle sviscerate e decostruite fin nel dettaglio, ma semplicemente - si fa per dire - suonata benissimo e senza sofisticazioni.

Di fronte a lui l’Orchestra della Fenice è in una delle sue migliori serate degli ultimi tempi. Gli archi sono sempre morbidi e responsivi, i legni eccellenti - senza fare torto agli altri, l’oboe di Rossana Calvi merita una menzione - gli ottoni e timpani a fuoco e precisi.


25 marzo 2022

Raphaël Pichon e le ultime tre di Mozart

 Sembra che i trentasette anni di vita di Raphaël Pichon siano trascorsi intensamente. Dopo gli studi in pianoforte e violino e quelli successivi in direzione, per un certo periodo è stato un controtenore di buona carriera. Nel 2006, giovanissimo, ha fondato l’orchestra Pygmalion, accanto alla quale è cresciuto in quella che è ormai la sua occupazione a tempo pieno, maturando per altro una strana gestualità in cui il battito passa alternativamente dalla sinistra alla destra e viceversa. La Pygmalion è una delle tante orchestre che suonano su strumenti d’epoca secondo una prassi storicamente informata e ha quindi tutte le peculiarità delle sue sorelle: sonorità e corpo sono caratterizzati da quell’opacità e quella secchezza intrinseche agli strumenti e che sono grossomodo non ovviabili.

Diversa è la questione su come tali specificità vengono sfruttate. Nel mondo della musica antica è andata affermandosi una maniera, bisogna ammetterlo, che travalica gli scrupoli filologici e che pare avere letteralmente creato da zero un codice espressivo specifico da applicare a ogni esecuzione del genere: contrasti dinamici molto marcati, sonorità taglienti e articolazioni spiccatissime, tempi svelti nei passaggi più concitati e ben distesi quando il metronomo rallenta e così via. Raphaël Pichon ha il merito di non cedere a questa moda. Prova piuttosto a dare una connotazione più varia e introspettiva alla musica che dirige, proposito fondamentale in un repertorio come quello mozartiano che vive di ambiguità e sfumature che si sforza di pennellare con dovizia di chiaroscuri. Non sempre ci riesce, un po' per via della ristrettezza del range dinamico e della tavolozza dell'orchestra (un arco montato all'antica o un ottone naturale hanno caratteristiche oltre cui non è possibile spingersi), un po' perché qualche momento meriterebbe un maggiore approfondimento anche in termini di fraseggi ed espedienti espressivi.

È dunque un approccio più ibrido che oltranzista il suo, o meglio, non radicale. Non cede alla meccanicità di altri specialisti della prassi né alla estremizzazione verso il bianco o il nero di ogni gesto musicale, né rinuncia alle conquiste della storia dell'interpretazione post ottocentesca. Anzi, in qualche modo cerca di lasciarne traccia anche in una musica precedente. Lavorando in piccolo tuttavia, cioè nel dettaglio anziché sull’effetto di forte impatto, emerge qualche problema di monocromia e piattezza. Involontarie, sia chiaro, perché l'intenzione di sbalzare i piani dinamici e i timbri in Pichon c'è e si sente, ma rimane come attenuata da una sordina.

In definitiva, quel che si ascolta al Teatro Nuovo Giovanni da Udine nelle ultime tre sinfonie di Mozart è un punto di vista specifico e parziale delle stesse. Interessante, sì, e in relazione alla nicchia specifica della musica su orchestre pre-moderne anche di ottima realizzazione. Ma alla fine dei giochi rimane la sensazione che manchi qualcosa, che una parte sostanziale della musica di Mozart rimanga inespressa tra le pagine.

24 febbraio 2022

Le Baruffe

La commedia è una cosa seria. Non è detto che caricandola di drammaticità e violenza a scapito delle vie di mezzo, delle malizie più o meno giocose, insomma della leggerezza, la si arricchisca o se ne incrementi il carico emotivo. Anzi, è spesso vero il contrario.

È questo l’errore capitale delle Baruffe (chiozzotte), la nuova opera al debutto al Teatro La Fenice che Damiano Michieletto e Giorgio Battistelli traggono da Goldoni.



Le baruffe è grossomodo una giostra di beghe da cortile tra famiglie di pescatori chioggiotti innescata dalla malaugurata trovata di Toffolo, detto Marmottina, che offre la zucca barucca a un paio di ragazze già “prese” per far ingelosire quella di cui è innamorato.

Il caso innesca una polveriera che tra gelosie, malintesi e un buon carico di pettegolezzi esplode travolgendo tutti. Il problema è che questa cavalleria rusticana al cubo regge su conflitti troppo sciocchi per essere davvero interessanti, troppo inumani - laddove per umanità si intende la complessa rete di intrecci relazionali ed emotivi, interni ed esterni, nonché l’ampiezza dello spettro affettivo - per essere commedia e troppo futili per avere un qualche valore tragico.

La spirale che va a inghiottire i chioggiotti, alimentata da invidie e risentimenti, ma anche da dispettucci infantili da gente piccola piccola, sfocia in un tutti contro tutti in cui ciascuno agisce, si direbbe, sull’onda di una furia animalesca e cieca, o meglio, in un meccanismo di riflessi che bypassano l’intelligenza. Il tutto in una laguna povera quanto intrisa di rabbia e bassi istinti che la musica di Battistelli carica di cupezza e tensione thriller, come accompagnasse le risse tra bande di una qualche periferia scalcagnata da b-movie americano, quelli un cui volano botte e proiettili senza che se ne capiscano bene le ragioni ma soprattutto senza si riesca a creare una reale empatia con quel che si sta guardando.

Tutti agiscono allo stesso modo, tutti cantano allo stesso modo, tutti pensano alla stessa maniera. Il vocabolario emotivo e musicale è il medesimo per ciascun personaggio ed è un vocabolario ristretto. Non c’è una sfasatura tra i caratteri, ma piuttosto una soglia di reattività condivisa. Ad ogni azione una reazione, anche emozionale, che è sempre la medesima. Le belle alchimie timbriche create da Battistelli, i giochi ritmici perfettamente concertati con l’azione in scena, la vivace vena compositiva riescono dunque come eccellenti esercizi di scrittura per teatro, ma di teatro vero e proprio ce n’è poco. C’è sì, invece, molto spettacolo, e di gran fattura.



Non si può rimproverare alcunché a Enrico Calesso, all’orchestra di casa e al coro diretto da Alfonso Caiani che danno l'impressione di essere padroni della materia. Che poi fosse davvero così lo sa solo chi ha potuto leggere la partitura, non certo noi seduti tra il pubblico di una prima assoluta.

È per altro difficile immaginare che in futuro l’opera possa giovarsi di un allestimento migliore di quello proposto, che è una sintesi perfetta delle abilità di Damiano Michieletto, che oltre al libretto fa la regia, e della sua banda di fuoriclasse.

La gestione dei movimenti e degli spazi è di alta scuola, il che vale per i cantanti-attori, per il coro ma anche per le scene di Paolo Fantin. Di base tutto si sviluppa intorno a quattro pannelli rettangolari diversamente componibili, che scivolano, ruotano, volteggiano, crollano, vanno sfaldandosi e si ricompongono come fossero tavolette di Lego in mano a un bambino. E all’occorrenza forniscono i listelli di cui i personaggi in scena si servono per suonarsele di santa ragione. Restando alla pura gestione dell’azione, non c’è nell’ora e mezza abbondante e filata di musica un attimo di stanca o di sciatteria, né un solo gesto che sia scoordinato o che si inceppi.

Sul piano tecnico, uno spettacolo di gran livello.


Quanto al cast, gli elogi vanno distribuiti ecumenicamente per la capacità di tutti di aderire a un progetto di cui ben si coglie la compattezza, buttando la voce, è il caso di dirlo, oltre l’ostacolo. Sì, perché la scrittura frastagliata e tutta sbalzi esige molto dalle gole, soprattutto da quelle femminili, almeno quanto la regia, che muove ogni elemento in un perfetto meccanismo a orologeria.

C'è Padron Toni, una specie di Peter Grimes del Polesine, che forse tra tutti è quello che ha più sale in zucca, ottimamente incarnato da Alessandro Luongo. Sua moglie in scena, Madonna Pasqua, è Valeria Girardello, una di quelle cantanti che oltre a una bella voce hanno anche un magnetismo innato. Peccato solo che la scrittura della parte batta un po’ troppo in basso per le sue corde.

Leonardo Cortellazzi è Toffolo, il personaggio più interessante, uno scemo del villaggio che non si capisce fino a che punto “ci sia o ci faccia” ma non privo di certa maligna ignoranza. Va molto bene sotto ogni punto di vista la Lucietta di Francesca Sorteni e il suo fidanzato-tira-e-molla Titta Nane, Enrico Casari.

Il Coadiuator di Federico Longhi, Isidoro, richiama per molti versi i buffi della tradizione italiana, tant’è che fa un po’ da deus ex machina della situazione e anche il suo messo (Emanuele Pedrini ) ha tratti comici, forse fin troppo caricaturali.

Silvia Frigato, Checca, ha una scrittura davvero impervia ma ne esce con gloria. Beppo è ben interpretato da Marcello Nardis, la fidanzata Orsetta da Francesca Lombardi MazzulliRocco Cavalluzzi è il balbuziente Padron Fortunato, Loriana Castellano la di lui moglie Madonna Libera mentre Pietro Di Bianco è il pescatore Padron Vicenzo.

Canocchia, Safa Korkmaz, è infine il venditore che va spacciando questa strana zucca arrostita che fa un po’ da elisir d’amore, un po’ da frutto proibito, un po’, o forse soprattutto, da scusa buona per dare sfogo a ogni frustrazione repressa.


16 febbraio 2022

Le prime Nozze del Giovanni da Udine

Buona la prima. Prima e, almeno per ora, unica. Dopo venticinque anni di attività anche ai piani alti del Giovanni da Udine hanno pensato che fosse tempo di rischiare il grande passo: produrre un'opera in casa. Ecco dunque la primogenita, Le nozze di Figaro, purtroppo in una sola data ed è un peccato che non si replichi, vista la bontà del risultato e la risposta del pubblico, che ha riempito la sala come non succedeva da troppo tempo.

Non è poi detto che il modello, culturale e di business, non possa essere ripreso in futuro o imitato da altre realtà, perché se è vero che nel nostro paese la produzione d’opera, almeno ad alto livello, è quasi esclusivamente appannaggio delle fondazioni lirico sinfoniche, con tutti i limiti che conosciamo, che un teatro “contenitore” scelga orchestra e team creativo e ci associ un cast di nomi internazionali per mettere in cantiere uno spettacolo è quantomeno una proposta da seguire con curiosità.

Foto Benedetta Folena

Saggiamente – talora anche i feticisti del teatro cosiddetto “di regia” devono ammetterlo – nelle Nozze di cui si dà conto si è deciso di proporre l’opera in una versione aderente alle prescrizioni del libretto, che per semplificare si potrebbe bollare come “tradizionale”, ma non per questo smunta o stantia. Scelta intelligente quando si tratta di iniziare a un genere poco frequentato un pubblico, quello di casa, che di opera negli anni ne ha vista passare, sì, ma non più che a spizzichi e bocconi, in ospitate saltuarie da altri teatri, quasi sempre il Verdi di Trieste.

Ben venga dunque una produzione in cui tutti fanno quello che ci si aspetta facciano, secondo le didascalie stese da Da Ponte, tanto più se l’azione è ben concertata e condita da qualche ideuzza originale e mai forzata, che è in sintesi quel che fa, con cognizione di causa e solido mestiere, Ivan Stefanutti. Il quale espone le Nozze senza fronzoli né troppi sottintesi, ma neppure semplificandola al punto da nascondere il retrogusto amarognolo della commedia. Talvolta si ride, più spesso si sorride e di tanto in tanto, in agguato, prende quel groppo alla gola che Mozart innesca subdolamente in mezzo a una battuta di recitativo o a una figurazione ritmica degli archi.

Portano la firma dello stesso Stefanutti le scene, invero semplici-semplici – insomma, low budget – che hanno giusto il compito di fornire qualche coordinata spaziotemporale e i costumi realizzati da Nicolao Atelier, che sono meravigliosi.

Foto Benedetta Folena

Anche Marco Feruglio, sovrintendente e direttore artistico del teatro prestato al podio, che sarebbe poi il suo mestiere, segue la linea dello spettacolo, scelta che paga sempre. Fa dunque un Mozart fresco e leggero, che racconta e accompagna senza pedanteria né la pretesa di spaccare il capello in quattro, ma ponendosi al totale servizio della narrazione, che infatti scorre via che è un piacere. Lo asseconda un’Orchestra di Padova e del Veneto precisa e ben equilibrata sia internamente che nei rapporti col palcoscenico. Sempre nell’ottica di aiutare la fruibilità dello spettacolo, non dispiace la scelta di sacrificare i numeri di Marcellina e Basilio nell’atto finale.

Merita una menzione Silvano Zabeo, maestro al fortepiano, che ha accompagna dei recitativi cui i cantanti hanno dedicato molta attenzione, e si sente.

Foto Benedetta Folena

È complessivamente ottimo il cast. Markus Werba è un protagonista esuberante e istrionico. Anna Prohaska è una Susanna di ascendenza leggera. Non ha gran peso vocale dunque, ma è una splendida musicista ed è assai raffinata nel “dire” i recitativi.

È ancor più espressiva e cesellata la Contessa di Almaviva di Anett Fritsch, che canta, colora la parola e recita splendidamente. Le manca forse un po’ di quella “punta” che i melomani più intransigenti cercano nelle voci, anche se non si può certo dire che la gran sala del teatro udinese e l’ancor più ampio palcoscenico, nel caso specifico privo di quinte chiuse, abbiano aiutato i cantanti a farsi sentire.

Andrei Bondarenko, Conte di Almaviva, ha un bellissimo timbro bass-baritonale, morbido e dal nobile velluto, e tutto quel che occorre per servirsene al meglio. Gli resta solo da perfezionare una pronuncia non sempre irreprensibile. Ha notevoli qualità vocali anche Serena Malfi, dunque bello smalto e squillo facile, ma al suo Cherubino manca un briciolo di varietà d’accenti e colori, soprattutto nell’aria di sortita.

Maurizio Muraro è un Don Bartolo di consumato mestiere e innata simpatia, Alessia Nadin una eccellente Marcellina. All’altezza Federico Lepre che si divide tra Don Basilio e, nel terzo atto, Curzio. Eccellente il contributo di Marcos Fink, Antonio, che si mangia la scena ogni volta che ci mette piede e di Giulia Della Peruta, una Barbarina di lusso.

Porta il suo solido contributo anche il Coro del Friuli Venezia Giulia ben preparato da Cristiano Dell’Oste.

Che l’esperimento sia riuscito lo conferma l’accoglienza trionfale che il pubblico ha riservato a tutta la compagnia.