31 gennaio 2023

Satyricon al Teatro Malibran

   Sarebbe stato un delitto se Venezia si fosse dimenticata di Bruno Maderna nel cinquantesimo anniversario della sua morte, avvenuta il 13 novembre del 1973 a pochi mesi di distanza dalla prima esecuzione di Satyricon, che il compositore aveva tenuto a battesimo nel marzo dello stesso anno. Oltre alla varietà degli stili musicali che vi confluiscono e all’uso di quattro lingue nel libretto, la peculiarità di Satyricon è l’aleatorietà della struttura, costituita da ventuno numeri chiusi a sé stanti che devono essere ordinati a gusto dell’interprete in modo da costruire una drammaturgia variabile e sempre inedita a seconda della sensibilità musicale e teatrale dello stesso, cui è demandata anche la scelta di misura e disposizione dei nastri registrati predisposti dal compositore per essere riprodotti durante la rappresentazione.


   L’opera è ispirata alla Cena Trimalchionis del Satyricon di Petronio, un episodio improntato alla satira sociale dei tipi umani che popolavano la provincia romana del primo secolo, ospitati appunto da Trimalcione, un liberto arricchito che nella produzione in scena al Malibran non è solo il protagonista, ma una sorta di deus ex machina in divenire. Lo spettacolo di Francesco Bortolozzo ha infatti un grande pregio: riesce a compattare con una coerenza narrativa ben identificabile i brani, inventandosi un filo che non solo collega i vari momenti, ma li giustappone secondo un ordine di drammaticità crescente. Il filo conduttore è la parabola umana di Trimalcione che da burino scoreggione matura, patisce e muore come un Cristo dell’unica religione che conta, quella dei soldi, in un funeral party al tempo stesso sinistro e colto, disseminato di riferimenti e citazioni come la musica di Maderna. 

   Certo i mezzi del Teatro Malibran sono quello che sono in termini di tecnologia scenotecnica, per cui occorre dare fondo ad ogni stratagemma per catalizzare l’azione sul palco. La soluzione di Bortolozzo è la più vecchia del mondo. Il lavoro è affidato a un manipolo di mimi, che muovono e si muovono, entrano ed escono dalla recita assicurandole un buon ritmo e attrezzando la scena ad ogni occorrenza. A voler trovare un difetto a uno spettacolo che funziona, questo è la cautela nel calcare la mano sul lato più volgare e grottesco dell’opera, che c’è sì - dagli sculettamenti ammiccanti di Fortunata alla parata di selfie da travel-influencer di Trimalcione che scorrono in proiezione - ma sempre con un bon ton di fondo che è poi quello delle scene, eleganti ma fredde, di Andrea Fiduccia, per altro ben valorizzate dal disegno luci di Fabio Barettin. I costumi Marta Del Fabbro inquadrano alla perfezione i caratteri, dal padrone di casa francamente inguardabile nel suo outfit rosa da tamarro con le sneakers, alla prostituta “che si è fatta”, Fortunata, nel suo tailleur rosso da signora di buona società ma con la mercanzia bene in vista.


   Vanno ancor meglio le cose anche per quanto riguarda l’esecuzione musicale. Marcello Nardis, Trimalchio, non si limita a risolvere le sfide vocali della parte ma coglie lo spessore di un personaggio che non va ridotto alla cafonaggine di superficie, tanto più in uno spettacolo che ne pilota l’evoluzione verso una dimensione quasi profetica. Manuela Custer, che oltre alla parte di Fortunata si fa carico anche dell’aria di Quartilla, dà prova di padroneggiare in tutta la sua ampiezza il ventaglio di stili che la scrittura le mette di fronte. Bravissimo Christopher Lemmings, tenore di scuola anglosassone, a dare peso vocale e spessore alla grande scena di Habinnas. Eumolpus è un Francesco Milanese incisivo così come sono convincenti William Corrò e Francesca Gerbasi negli interventi, per lo più corali, di Niceros e Criside.

   Dalla buca si ascoltano ottime cose. Se ad Alessandro Cappelletto va dato il merito di una concertazione nitida e di rapportare al meglio i pesi orchestrali col palco e coi nastri registrati, che si saldano al suono dal vivo senza fratture né sbilanciamenti, va sottolineata la prova maiuscola dei professori dell’Orchestra della Fenice, su tutti - e senza far torto agli altri - l’oboe di Niccolò Dotti, cui è affidata l'aria di coloratura di Scintilla, e la tuba (Alberto Azzolini), protagonista nell’aria della “Signora Fortuna”, ripresa nel finale. La fondamentale regia del suono è a cura di Giovanni Sparano.

Successo caloroso per tutta la compagnia a fine recita.