31 gennaio 2017

Il Tannhäuser di Bieito e Wellber al Teatro La Fenice

Per Calixto Bieito, Tannhäuser è un outsider, uno di quelli sempre fuori posto, deboli e impacciati, che non sanno adattarsi agli schemi della vita sociale. E sulle persone così, disallineate ma con una sensibilità iperreattiva, i conflitti pesano come macigni.

Il centro della questione non è la religione, non è la fede, non è l’amore. Il punto focale dell’opera è l’uomo, è il processo dialettico che forma una personalità e regola le relazioni, con se stessi e con il mondo. Insomma la classica contrapposizione tra natura e ragione. Siamo dalle parti dell’abc freudiano: da una parte le pulsioni animalesche, istintive, dall’altra la necessità di controllarle per vivere armonicamente in una collettività. Tannhäuser sta nel mezzo, in un limbo, troppo disadattato per il mondo degli uomini (quello delle regole, non ha nemmeno gli abiti giusti per entrarci), troppo represso per abbandonarsi agli impulsi che lo tormentano. Da qui la sua sofferenza. È un tema che in Wagner torna, non sarà geniale pensarci ma può funzionare. Infatti funziona alla grande, perché Bieito è un signor regista e sa farlo passare senza inciampare in elucubrazioni o simbolismi lambiccati.


Ci sono due luoghi: quello di Venere, una foresta capovolta (atto primo), quello degli uomini, un ambiente artificiale dall’architettura gelida (atto secondo). Il terzo ne è la sintesi: gli alberi sfondano le barricate del palazzo, lo divorano e ne diventano parte integrante. Istinto e ragione trovano il punto d’incontro, ed è quello che siamo noi tutti. È questa la redenzione di Tannhäuser, la risoluzione della dialettica in un unicum che è, appunto, l’Io, la persona.

Non può che essere così, la tendenza verso uno solo dei due poli crea uno squilibrio: Wolfram da un lato, che finisce per essere travolto dalla risacca delle pulsioni soffocate e perdere tutto, l’ipersessualità coercitiva di Venere dall’altro, un erotismo grottesco e sbagliato, deforme e sottosopra come il suo Venusberg.

L’idea è brillante, renderla con tale coerenza e semplicità è cosa da grande artista.

Tutto va di pari passo in questo Tannhäuser, anche sul versante musicale, a partire dalla direzione di Omer Meir Wellber che fa un Wagner teso e incalzante, più di sangue che di metafisica, e dunque perfettamente in linea con il palco. Il suono evidenzia qualche limite solamente nei forti, tendenzialmente opachi, ma è per il resto pregevolissimo. L’Orchestra della Fenice infatti rende uno splendido servizio alla musica e al direttore, confermandosi duttile e compatta ma anche capace di raffinatezze timbriche e dinamiche.

Merita poi un plauso speciale l’ottima Roberta Ferrari, catapultata in buca per salvare la recita del 28 gennaio, sostituendo al pianoforte (elettronico) l’arpista ammalata.

Anche il protagonista è un sostituto: Paul McNamara in luogo dell’indisposto Stefan Vinke. Il tenore ha uno strumento chiaro e di volume modesto ma regge con onore la scomodissima tessitura della parte e si rivela, soprattutto nel terzo atto, interprete interessante. Molto positiva la prova di Liene Kinča, Elisabeth dalla bella voce di soprano lirico.
Christoph Pohl è un Wolfram von Eschenbach di tutto rispetto: timbro fresco, tecnica d’alta scuola, presenza scenica notevole. Più debole, sia sul piano della personalità, sia vocalmente, la Venus di Ausrine Stundyte.
Corretto o poco più Pavlo Balakin, Hermann. All’altezza tutti gli altri.

Il Coro del Teatro La Fenice preparato da Claudio Marino Moretti giganteggia persino più del solito. Davvero magnifico.





30 gennaio 2017

Die Entführung aus dem Serail a Treviso

L’idea di Robert Driver è semplice ma potrebbe avere una sua efficacia. Die Entführung aus dem Serail diventa un film muto di inizio Novecento, sullo sfondo vengono proiettati spezzoni in bianco e nero (a cura di Lorenzo Curone) e didascalie, nel classico stile del cinema degli albori. Le premesse per uno spettacolo interessante ci sarebbero, a patto che venissero sviluppate con coerenza. Invece il tutto rimane una suggestione vaga, o meglio, lo spunto di partenza finisce per fungere da tappabuchi laddove l’originalità latiti.



Per il resto lo spettacolo può essere archiviato nello scaffale dell’onesta tradizione: tradizionale la recitazione (ma curata, va detto), tradizionali le scene, tradizionali le scappatoie per risolvere la comicità.

L’ambientazione ricalca un esotismo stereotipato e già visto, scene e costumi (Guia Buzzi) sono sul filone delle turcherie all’opera come le abbiamo sempre conosciute. Al minimo sindacale il disegno luci di Roberto Gritti.

Gli interventi più significativi interessano invece il testo: i parlati sono in italiano, il canto in tedesco. Niente di scandaloso, non fosse che la scelta si traduce in una continua frammentazione dell’azione e in una fastidiosa disomogeneità di stile e linguaggio.

Luci (poche) e qualche ombra di troppo per quanto attiene l’esecuzione musicale. A Jeanette Vecchione-Donatti la scrittura di Konstanze sta ancora larga. Il registro medio-grave è pallido, quello acuto più sonoro ma troppo spesso spinto e forzato. Le agilità ci sono, seppur scolastiche, il legato e l’omogeneità tra i registri ancora no.

Martin Piskorski è un tenore da tenere d’occhio: la voce è sufficientemente ampia e di bel timbro, la musicalità fuori dal comune. Per Belmonte però non basta, si sente infatti la mancanza di un più saldo controllo del passaggio e dei primi acuti che escono spesso schiacciati, se non proprio sporchi.

Solido e simpatico l’Osmin di Manfred Hemm, al di là di qualche ruvidezza nell’emissione.

Brava la Blonde di Daniela Cappiello, squillante e disinvolta sulla scena. Il Pedrillo di Marc Sala è vocalmente garbato ma piuttosto esile.

Bruno Praticò se la cava senza problemi nei pochi interventi di Selim.

Francesco Ommassini, sul podio di una discreta Orchestra Regionale Filarmonia Veneta, tiene insieme i pezzi con buon passo teatrale. La sfortunata disposizione dell’orchestra (buca a livello della platea, percussioni e ottoni sui palchi di barcaccia) comporta qualche qualche pasticcio nella tenuta ritmica e negli equilibri interni. Il palco è ben sostenuto, il suono pulito e asciutto benché tendente a una certa omogeneità di tinte.

Ben si comporta il Coro del conservatorio Benedetto Marcello di Venezia preparato da Francesco Erle.

Buona ma sbrigativa l’accoglienza del non foltissimo pubblico trevigiano.

15 gennaio 2017

Die Zauberflöte di Mozart divide il Verdi di Trieste

Se fossi un regista, davanti al Flauto magico di Mozart non saprei dove sbattere la testa. La drammaturgia è contorta, eccentrica, i riferimenti culturali e musicali sono tanti e divergenti. In fin dei conti la scelta più saggia e vincente – Michieletto l’ha dimostrato di recente – è puntare su una chiave di lettura netta e svilupparla con coerenza, dimenticandosi del resto.

Foto Fabio Parenzan


Valentina Carrasco conosce i ferri del mestiere (la scuola è quella della Fura e si vede), ha delle idee, forse anche troppe ma tutto sommato non così sovversive come è parso a parte del pubblico del Verdi di Trieste, e una discreta abilità nel realizzarle. Purtroppo anche lei si perde nella giungla del Flauto, tra esotismi e simbolismo, sacralità e pruriti terreni, metafisica e patafisica.

La Carrasco sceglie di lavorare su una regia a concetto: Isis e Osiris sono due bambini che creano lì per lì, sul momento, la storia di Tamino & Co., giocando con dei pupazzetti e una casa di bambole. I personaggi diventano creature in balia di due pargoli capricciosi e imprevedibili, come divinità nietzschiane.
La premessa è furbetta e non originalissima ma potrebbe funzionare, però a una sola condizione: la riduzione della trama a mera fiaba per bambini. Allora sì, i conti tornerebbero, ovviamente con qualche accettabilissima forzatura.

Invece la regista si lascia prendere la mano e mescola le fantasie infantili con ombre massoniche, i giochi con evocazioni funerarie (la tomba del padre di Pamina), connota le brame di Monostatos di significati sessuali per nulla fanciulleschi. Il risultato è confuso e a tratti incoerente. Non manca poi qualche evitabilissimo strale di denuncia sociale, come la “polizia femminista” che multa i misogini del tempio.
Insomma alla Carrasco si può rimproverare d’essersi persa per strada, di aver voluto strafare anziché perseguire con ostinazione un taglio drammaturgico che poteva funzionare.

Ciò detto la vanno riconosciute una notevole abilità nel gestire recitazione e ritmo e una buona dose di inventiva. Gli artisti sono mossi con spigliatezza, l’azione è molto curata sia nei protagonisti, sia nelle masse. Il racconto è fluido e senza impacci. E tutti questi non sono meriti da poco, per un regista.

Il pubblico l’ha sommersa di fischi. Meritati? No. No perché lo spettacolo, sul piano tecnico e realizzativo, è tra i migliori che si siano visti a Trieste negli ultimi tempi, al di là delle falle nella drammaturgia. Se poi nel 2017 si parla ancora di “atto dissacrante” o “vilipendio al genio di Mozart” per simili inezie, c’è solo da dispiacersi del fatto che ci sia una fetta di pubblico che non si è accorta di cosa sia il teatro, e di dove stia andando da cinquant’anni a questa parte. Peccato per loro, non sanno cosa si perdono.

Le scene di Carles Berga sono ben realizzate e belle, i costumi di Nidia Tusal meno.

Nessun dissenso invece per gli altri interpreti che sono tutti all’altezza della situazione e offrono – merce rara! – una Zauberflöte convincente in ogni componente (o quasi).
Pedro Halffter Caro concerta con attenzione agli equilibri interni e al palco, giocando più sull’articolazione che sui colori. Tensione, nessuna leziosità, suono asciutto ma mai secco, poco vibrato e un’apprezzabile freschezza narrativa. Insomma un Mozart del nostro tempo, peraltro suonato alla grande dall’Orchestra del Verdi, in forma smagliante.

Tra i cantanti la migliore è Elena Galitskaya, Pamina. La voce è leggera ma penetrante, l’emissione sempre morbida ed espressiva, sia nei recitativi, sia nel canto spianato.
Merto Sungu, Tamino, fatica nella prima aria ma è per il resto convincente e, nel secondo atto, anche qualcosa in più. Funziona il Papageno di Peter Kellner che ha voce di bel timbro e una buona comunicativa. Debole nell’accento e nel volume (ma anche nell’intonazione) la Regina della Notte di Katharina Melnikova.

David Steffens è un Sarastro giovanile ma sufficientemente autorevole, Motoharu Takei un efficace Monostatos. La Papagena di Lina Johnson è brillante ma vocalmente non irresistibile. Horst Lamnek è un Oratore corretto.
Meritano di essere menzionati i tre geni delle ottime Elena Boscarol, Simonetta Cavalli e Vania Soldan, così come sono davvero brave le tre dame: Olga Dyadiv (Prima), Patrizia Angileri (Seconda) e Isabel De Paoli (Terza). Affidabilissimi e solidi Giuliano Pelizon e Francesco Paccorini impegnati come sacerdoti e armigeri.
Bene, al solito, il Coro del Verdi preparato da Francesca Tosi.

Come detto, successo pieno per cantanti e direttore, furibonde contestazioni per la regista (che non l’ha presa benissimo…).

Un’ultima considerazione: fa bene il Sovrintendente, o chi per lui, a mettere in stagione spettacoli come questo, ben sapendo di andare incontro a reazioni contrastanti. Il pubblico deve avere la possibilità di conoscere anche un teatro che vada oltre il pedissequo svolgimento delle didascalie (succede in tutto il mondo da molti decenni), con buona pace di chi maledice i registi empi e traditori, colpevoli di pensare – e di chiedere al pubblico di pensare! – anziché sbobinare il libretto.


Foto Fabio Parenzan



4 gennaio 2017

Georges Prêtre

Non sono mai riuscito ad ascoltarlo dal vivo, sebbene negli ultimi tempi ci avessi provato ostinatamente. Però sono stato battezzato dai suoi dischi, in particolare dalla mitica Carmen con la Callas, la mia prima opera, ero bambino.

Georges Prêtre era uno dei più grandi direttori viventi, non si discute. Si potrebbero spendere fiumi di parole sulla sua magica capacità di giocare col tempo, con i colori, di "rubare", e ci sarà chi saprà farlo meglio di me. 

Io voglio ricordarlo per quello che era il suo talento più affascinante: Prêtre sapeva sorprendere, sempre, qualunque cosa facesse la prevedibilità non gli apparteneva. Esiste una dote più preziosa per un artista?




Kováč e Valčuha al Verdi di Pordenone

Mentre Tibor Kováč sgranava le implacabili cascate di note del Concerto n. 2 per violino e orchestra con una tenuta ritmica da macchina da guerra, pensavo che benché fosse tutto giusto, giustissimo, quella bellezza trascendentale, spietata, della musica di Béla Bartók, pretendesse di più. Forse un briciolo di carattere, di personalità o estroversione, forse di coraggio. Intendiamoci, Kováč le note ce le ha tutte - o quasi, qualche pasticcio qua o là ci scappa, me è cosa da poco - e in un lavoro di tale complessità, l’uscirne indenni è già un successo. Non solo: ci sono frasi ostiche che gli riescono con una morbidezza e una facilità di legato che lascia esterrefatti. Il suono del suo Stradivari è poi bello, luminoso, piccolo ma ficcante. C’è tuttavia nel suo gusto una stilizzazione che diventa quasi intimismo, se non timidezza, a tratti eccessiva, soprattutto per una musica tanto eclettica, varia nei caratteri e nei colori.

Certo il risultato è affascinante, perché un Bartók così pudico e trattenuto, così liricizzato, non è comune e merita di essere ascoltato, però l’impressione di un certo contegno, di un navigare a vista, a tratti c’è. Insomma Tibor Kováč è senza dubbio un eccellente, forse straordinario strumentista, ma per imporsi sul palco come solista manca qualcosa.

Chi invece sta benissimo al proprio posto, cioè il podio, è Juraj Valčuha il quale dopo aver sorretto con perizia – e una certa prudenza – le sorti del concerto di Bartók, si esibisce in un’affascinante interpretazione della Sinfonia n. 2 in re maggiore, op. 73 di Johannes Brahms, puntando più o meno nella stessa direzione classicheggiante e apollinea, ma con risultati assai più entusiasmanti. Nella lettura di Valčuha, è evidente, c’è uno studio profondo della partitura e un accorto lavoro di bulino su ogni singolo inciso, su ogni sfumatura dinamica. Ne esce per l’appunto un'esecuzione olimpica, equilibratissima e levigata in cui ogni dettaglio emerge con chiarezza e inserendosi in un disegno coerente e pensato. Il suono è perfettamente bilanciato e “giusto”, l’articolazione brillante e non priva di fantasia ma sempre nei binari dell’eleganza.

Lo scotto da pagare a una impostazione simile è la rinuncia a qualcosa in termini di abbandono e “passionalità”, ammesso e non concesso che tutto ciò ci debba essere per forza.

L’Orchestra Haydn è precisissima, trasparente, e può vantare alcune sezioni, su tutte gli archi gravi, capaci di sonorità calde e piene. Se a tratti si avverte un’eccessiva secchezza, o quantomeno una debolezza nella rotondità dell’amalgama, è cosa forse imputabile più alla concertazione cameristica e “chiara” che non a qualità intrinseche dell’orchestra.

La cortese ma tiepida l’accoglienza dopo Bartók, diventa trionfo a fine concerto.

2 gennaio 2017

Una Bohème incidentata al Verdi di Padova

Nello strano mondo dell’opera il confine tra il trionfo e il tonfo è sottile e sdrucciolevole: la fragilità degli equilibri tra le componenti e i linguaggi in gioco è tale che basta una piccola incrinatura a inceppare anche il meccanismo più oliato. Nella Bohème andata in scena al Teatro Verdi di Padova il 29 dicembre tuttavia, più che di una piccola inconvenienza teatrale si potrebbe parlare di un vero e proprio brutto tiro della sorte.


Andiamo con ordine: a poche ore dallo spettacolo il tenore Giorgio Berrugi viene colpito da una bronchite, apparentemente lieve, che con il passare delle ore peggiora lasciando il cantante di fatto afono all’alzata di sipario, quando ormai è troppo tardi per cercare un sostituto. Berrugi si sacrifica – con generosità e senso di responsabilità, va riconosciuto – affinché la recita possa andare in porto e faticosamente sostiene la parte, ma lo fa come può, cioè accennando e accomodandosi la scrittura.

Purtroppo, alla prova dei fatti, una Bohème senza tenore non regge o quantomeno zoppica vistosamente. È un peccato, non solo per Berrugi che avrebbe tutte le carte in regola per portare a casa un eccellente Rodolfo, ma anche perché il cast assemblato per questa produzione si rivela di assoluto valore, a partire dalla Mimì di Maija Kovalevska che dopo un primo quadro incolore, dal terzo prende confidenza – molto riuscita l’esecuzione di Donde lieta uscì - e chiude con un finale di notevole intensità. La voce non è particolarmente attraente ma ampia senz’altro e, fatta salva qualche tensione in acuto, ben controllata. Si apprezza inoltre un sensibile lavoro di scavo della parola e una recitazione misurata ma d’effetto.

“Molta civetteria, un pochino di ambizione e nessuna ortografia”: difficile trovare un difetto a Mihaela Marcu che, oltre alle qualità vocali - il timbro è suadente, l’emissione omogenea e rotonda in ogni registro – ha il temperamento scenico adatto per disegnare una Musetta di carattere e il giusto provocante. La Marcu è poi attrice di talento fuori dal comune.

Il Marcello di Gezim Myshketa è ormai una piacevole certezza: lo strumento è di bel colore brunito e si espande con facilità, ben sostenuto da un’emissione che consente pregevoli morbidezze e slanci spavaldi. L’interprete è brillante e ha nella vivacità scenica e nell’estroversione le proprie frecce più appuntite.

Gabriele Sagona è un Colline solido, dalla voce ampia e di bella pasta. La buona esecuzione della “Zimarra” gli vale un entusiastico applauso a scena aperta. Daniel Giulianini, Schaunard, ha anch’esso mezzi considerevoli e un’apprezzabile confidenza col palcoscenico.

Davide Pelissero (Benoît) e Christian Starinieri (Alcindoro) dosano con misura la comicità delle rispettive parti senza scivolare in spiacevoli eccessi di macchiettismo. All’altezza della situazione Luca Favaron (Parpignol), Luca Bauce (Sergente dei doganieri) e Riccardo Ambrosi (Doganiere).

Eduardo Strausser firma una direzione interessante e personale, il che è già molto per un titolo così inflazionato e noto. C’è molta freschezza in questa Bohème, molta delicatezza, il che non significa affatto sentimentalismo o leziosità ma piuttosto leggerezza, frutto di sonorità tenui e ben impastate e di un’attenzione minuziosa alle dinamiche. Allo stesso modo la drammaticità non è ottenuta attraverso un abuso del volume ma piuttosto tramite i contrasti e la variazione del colore orchestrale.

Qualche eccesso di prudenza e qualche inciampo nella narrazione qui o là ci scappa, complici probabilmente i problemi del protagonista e lo scarso rodaggio dello spettacolo, ma non di meno ci sono certe finezze e attenzioni al dettato pucciniano non comuni. Due esempi: la risata dei bohemiens alla scacciata di Benoit è davvero “a tempo, deciso” - come scrive Puccini - e la “lunga pausa” sulla corona che suggella la morte di Mimì è giustamente molto prolungata.

L’Orchestra Filarmonia Veneta non è sempre impeccabile ma sa adeguarsi alle indicazioni del podio con grande duttilità, trovando soprattutto negli archi delle pregevolissime risorse timbriche.

Qualche pasticcio lo combina invece la banda fuori scena.

Ben si comportano il Coro Lirico Veneto preparato da Stefano Lovato e il Coro Voci Bianche “Cesare Pollini” diretto da Marina Malavasi.

Resta da dire dello spettacolo, interamente firmato da Paolo Giani Cei, che è affascinante ma non completamente risolto. L’ambientazione è contemporanea nel contenitore (scene, costumi e luci) ma non nei contenuti, o meglio, fatta la tara di alcune idee originali e ben trovate, rimane una discreta regia tradizionale assai più riuscita e convincente nelle scene poco affollate che nei momenti di maggiore confusione (troppo rigido e disorganizzato il secondo quadro). La comicità è ben risolta, senza eccessi, così come la recitazione dei singoli.

La scena, fissa per l’intera durata dello spettacolo, riproduce un ambiente spoglio, il che andrebbe benissimo per raccontare una soffitta finalmente povera e fredda, anche se più che una soffitta pare che il regista voglia calare la vicenda in un capannone, forse un dormitorio, colmo di cianfrusaglie e detriti che rimandano alle occupazioni dei protagonisti (libri, quadri, leggii...). Anche La barriera d’Enfer si giova di questo clima gelido e spettrale, riuscendo efficace, principalmente in virtù di una recitazione ben curata (lo scontro fisico, violento, tra Marcello e Musetta nel finale terzo è un bel momento di teatro).

Più problematico invece il secondo quadro in cui si fatica a seguire il filo della drammaturgia, con il caffè Momus che diventa una sorta di night club.

Insomma ci sono molti spunti, alcuni ben realizzati, rimane tuttavia sullo sfondo l’impressione di un’eccessiva freddezza emotiva, di una Bohème quasi “antiempatica”, ma dati i problemi della serata è plausibile che tale effetto fosse amplificato da una tensione generalizzata degli artisti. Senz’altro è uno spettacolo che meriterebbe di essere rivisto in condizioni ottimali.

Tuttavia, a dispetto degli imprevisti, l’accoglienza del pubblico è stata decisamente calorosa, in particolar modo per Giorgio Berrugi, trascinato a forza sul palco dal regista e salutato con affetto dal Verdi.