30 ottobre 2018

E se Amartuvshin Enkhbat fosse il baritono verdiano che stavamo aspettando?

Chi dice che non esistono più le voci di una volta mente, che poi lo faccia in coscienza o meno poco importa. Prendiamo Amartuvshin Enkhbat ad esempio. Lo scorso anno impressionò il Verdi di Padova con un Conte di Luna bastianiniano, si parva licet, sicché le alte sfere del teatro hanno ben pensato di richiamarlo per un'altra parte totemica del repertorio baritonale: Nabucco. Lui una grande voce ce l’ha indubbiamente, come volume e come qualità della grana, e ha anche una grande tecnica. Sale e scende senza intaccare un’omogeneità bronzea, sa sparare degli acuti che sono fucilate, sempre tondi e brillanti, e può permettersi persino di alleggerire la dinamica alla mezzavoce mantenendo un sostegno del fiato da mantice. È anche attore e interprete tutt’altro che compassato, che sa quello che dice e come lo deve dire.

Il suo Nabucco, che è già ben rodato nonostante la giovane età, si esalta doppiamente nello spettacolo di Filippo Tonon che, forse involontariamente ma centrando l’effetto, lo tramuta in una sorta di Gengis Khan; la fisionomia tipicamente mongola del baritono, che già di per sé disegna un carattere ben riconoscibile sul palco, finisce per accentuare lo scontro culturale ed etnico che regge la trama dell’opera e darle un inedito vigore.

Foto Nicola Fossella

In ogni caso l’allestimento di cui Tonon è pressoché unico firmatario e responsabile funziona a dovere. Un Nabucco di onesta tradizione che guarda al peplum e che eccede forse nell’ingenuità di qualche effetto e nell’abbondanza dell’oro (oro sui fondali, oro sulle vesti, oro sulle pelli) ma che ha una sua tenuta teatrale salda e in cui solisti e masse sono mossi quel tanto che serve per evitare la stagnazione del ritmo. La scenografia rimane quasi invariata per l’intero sviluppo dell’opera e riproduce un ambiente che va bene per tutte le stagioni: una parete di fondo che all’occorrenza può aprirsi su tre accessi delimita un praticabile di pedane parzialmente mobili che fanno pensare ai Giardini pensili di Babilonia. Tonon punta sul colpo d’occhio, soprattutto nelle grandi scene corali e nei concertati che guardano smaccatamente alla pittura, ma lo fa, va detto, con cognizione di causa.

Sono forse meno centrati i costumi (che, accanto a quello del regista stesso, portano il nome di Carla Galleri) e non perché siano brutti, non lo sono affatto, ma perché non si capisce bene dove vogliano andare a parare, mescolando un po’ di stili, gusti ed epoche senza troppa coerenza.

Foto Nicola Fossella

Se lo spettacolo regge senza sbandamenti o cali di ritmo lo si deve anche alla mano di Jordi Bernàcer che, sul podio di una buona Orchestra di Padova e del Veneto, non si perde il palco per un secondo, sa valorizzare la semplicità quasi barbarica della scrittura senza calcare eccessivamente la mano e imprime un bel passo alla narrazione. Una buca scattante e asciutta che mantiene sempre a bolla il livello della tensione grazie all’adozione di agogiche stringenti e di una pregevole plasticità della dinamica.

Anche il resto del cast si difende dal bene al benissimo. Rebeka Lokar è un’Abigaille dai mezzi notevoli, soprattutto nell’ottava acuta – in basso invece fatica un po’ – e dal canto splendido nei momenti più lirici: l’aria che apre la seconda parte e il finale sono pregevolissimi per legato e morbidezza, ma anche per varietà di dinamiche. Scivola un po’ sulle agilità di forza e negli sfoghi drammatici, benché non le manchino volume o note. L’interprete ricalca modelli convenzionali ma c’è e prova ad emancipare Abigaille dal prototipo dell’amazzone furiosa, cercando di mettere in luce anche i patimenti della figlia(stra) e di ispezionarne, dove possibile, l’anima.

Rafal Siwek ha un bel vocione scuro e ampio, ideale per una parte, quella di Zaccaria, che il basso risolve senza troppi patemi, almeno finché la tessitura non si fa troppo acuta; qui qualche sbavatura ci scappa, ma d’altronde la scrittura è assai impervia.

Foto Nicola Fossella


È splendida la Fenena di Annalisa Stroppa. Bella sulla scena, voce di velluto e musicista di grande raffinatezza: le basta il recitativo di sortita per dare subito la misura della sua classe. Ha voce e temperamento ma deve ancora rifinire i primi acuti Azer Zada, Ismaele, che dal passaggio in su tende ad aprire i suoni finendo per compromettere intonazione e brillantezza.

Ha la giusta ieraticità il Gran Sacerdote di Belo di Luciano Leone. Antonello Ceron è un Abdallo con squillo da Manrico, Fulvia Mastrobuono una Anna più che convincente.

Si comporta bene il Coro Lirico Veneto preparato da Giuliano Fracasso che dà il meglio di sé in un Va pensiero sussurrato come da partitura.

Trionfo per tutti, assolutamente meritato.

Recensione pubblicata su OperaClick

Foto Nicola Fossella

23 ottobre 2018

Dal Verdi al Verdi: la Traviata passa da Trieste a Pordenone

"Oh, come son mutata" dice attonita Violetta guardando il fazzoletto imbrattato di sangue che stringe in mano. È il terzo atto e dopo un’ottima lettera – quanti soprani inciampano nella prosa! – Claudia Pavone indovina il momento più intenso della Traviata in scena al Verdi di Pordenone, allestimento fresco di laboratorio dell'omonimo teatro triestino, dove ha chiuso la stagione pochi mesi fa. Nel complesso è proprio il terzo atto il meglio riuscito di questa produzione, o quantomeno il più sorprendente e calibrato.

Foto Fabio Parenzan

Tradizionale nell'impianto, anche se postdatato rispetto al primo Ottocento da libretto, lo spettacolo di Giulio Ciabatti è lineare e pulito, racconta la storia in modo chiaro e lo fa strizzando un po’ l’occhio al suo pubblico, cioè quello triestino e giapponese (che lo vedrà in tournée il prossimo anno), che non ama troppo essere sorpreso. Pur in un contesto pensato per non turbare le oneste e ben create coscienze, non manca la cura per alcuni dettagli né, soprattutto, per la narrazione, che è sempre limpida e ben condotta.
È di stampo classico anche la recitazione dei personaggi, che funziona benissimo per protagonista e alcuni comprimari, bene per baritono e controscene e un po’ meno bene per tenore e coro, che soffrono di qualche eccesso di staticità.

Le scene di Italo Grassi tendono a un’oleografia vagamente liberty nei primi due atti mentre virano verso una scabra povertà nel terzo, che racconta la "prigionia" di una Violetta ostaggio della malattia e dello stigma sociale. Lei rinchiusa in quella scatola nera e vuota come un leone ferito in gabbia mentre là fuori il carnevale impazza. D’effetto!

Claudia Pavone è una Violetta più che convincente. La voce è leggera ma penetrante e corre bene in sala ad alta quota come in basso, le note ci sono tutte e sembrano anche piuttosto facili, ma soprattutto c’è Violetta. Le si crede; a quello che dice, a come si muove, alla figura nel complesso. Un pizzico di coraggio in più nelle dinamiche e nel buttare il cuore oltre l’ostacolo in quei momenti topici in cui Violetta deve mettersi a nudo e l’interpretazione della Pavone potrà davvero ambire ad imporsi.

L’Alfredo di Francesco Castoro ha uno strumento non privo di qualità: il timbro è fresco e piacevole, lo squillo non manca né mancano buone intenzioni musicali e interpretative. C'è ancora qualcosa da levigare nel controllo dell'emissione, che talvolta esce eccessivamente aperta o inciampa in qualche piccolo slittamento d’intonazione, ma soprattutto – questo è un consiglio non richiesto – c’è da rinfrescare un gusto nella recitazione e nel canto che guarda più al passato che al presente.

A Trieste e Pordenone si ricordano ottime prestazioni donizettiane e rossiniane di Filippo Polinelli: proprio su questo palco qualche tempo fa cantò un Don Bartolo di livello. Germont invece non fa ancora per lui. Nonostante la buona volontà e la ricerca di un canto sfumato e pesato sulla parola, il fiato scarseggia e la voce non risponde come dovrebbe, arretrando pericolosamente in gola appena la tessitura si inasprisce. Meglio aspettare ancora un poco.

È invece eccellente la Annina di Rinako Hara, che canta bene e recita meglio, così come si segnala per ricchezza dei mezzi la Flora di Ana Victória Pitts: è giovane e ha un bel vocione caldo, chissà che non possa ambire e parti più importanti.

Completano il cast, tra alti e bassi, Paolo Ciavarelli (Douphol), Dario Giorgelè (Marchese D’obigny), Francesco Musinu, che è un Dottor Grenvil particolarmente empatico, Alessandro Turri (Gastone), Dax Velenich (Giuseppe), Fumiyuki Kato (domestico) e Giuliano Pelizon, un commissionario.

Resta da dire di Fabrizio Maria Carminati che probabilmente è il migliore in campo. Il suo feeling con l'Orchestra del Verdi di Trieste, che infatti suona molto bene, è cosa nota, ma ciò che ad ogni prova sorprende di questo direttore è la pregnanza stilistica e la capacità di essere dentro alla partitura. Che si tratti di belcanto, di Verdi, Puccini o anche Čajkovskij, Carminati non sembra mai fuori posto né si adagia su una comoda routine. Forse sì, talvolta può eccedere nella timidezza dei volumi e mancargli la zampata del grande, ma c'è sempre un controllo delle sonorità e della qualità orchestrale, dei dettagli e del palco, da vero direttore d'opera. Inoltre, pur nella varietà di risorse, Carminati non ricerca mai il facile effetto né la sottolineatura, ma sa fare uscire il gesto musicale scritto nero su bianco traducendolo in teatro. Che i Puritani in arrivo a Trieste siano affar suo è un'ottima notizia (lo è di meno il cambio di regia recentemente annunciato, transeat).

Come accennato l’orchestra, che ormai conosce la Traviata anche capovolta, è decisamente in forma: leggera ma sempre timbrata, nitida, impeccabile negli interventi delle prime parti.

Ineccepibile il coro dello stesso teatro triestino, al solito preparato dalla brava Francesca Tosi.

Meritano infine una menzione i ballerini Guillermo Alan Berzins e Marijana Tanasković, che danno prova della propria arte durante i cori di zingarelle e mattadori.

Buon successo a fine spettacolo, con ripetute chiamate per tutto il cast.

Recensione pubblicata su OperaClick

Semiramide torna a casa

Per capire dove voglia andare a parare la Semiramide in scena alla Fenice bisogna aspettare il secondo atto. Il primo Cecilia Ligorio lo butta un po' via, congelandolo in un affresco aureo che appaga l'occhio ma che dell'opera e dei personaggi racconta ben poco. Poi, come il sipario si alza sul duetto tra Semiramide e Assur, ecco la quadratura del cerchio. Lei, fin lì algida ai limiti dell’indifferenza, si mostra per quella che è: una donna che probabilmente non rifarebbe quello che ha fatto, che vive con un peso sulla coscienza che le toglie qualcosa ogni giorno ma che nonostante tutto continua a cedere a quell’attrazione malata per Assur che le ha tolto la luce dagli occhi. Da lì in avanti tutto scorre meglio: il duetto con Arsace e la sua aria sono essenziali ma sentiti, quelle del tenore e del basso due buoni momenti di teatro (anche perché Esposito è istrione fin nel midollo), il finale a palco vuoto, giocato solo su movimenti e luci soffuse, ha una sua antieffettistica efficacia. Certo la sensazione, alla fine della fiera, è che molto della colossale opera rimanga tra le pagine della partitura e che, a dispetto dell’oscurità che regna sul palco, le ombre inquietanti del Voltaire in salsa rossiniana rimangano in gran parte inespresse.



Ci sarebbe ulteriore margine di manovra insomma, e non è detto che nelle repliche che seguiranno le cose non vadano sciogliendosi e migliorando.
C'è meno opulenza nel secondo atto – la Babilonia tutta ori e dovizie che Nicolas Bovey racconta nel primo lascia spazio alla tenebra – ma in definitiva più teatro. Dicono poco invece le pantomime a sipario chiuso e i movimenti di danza, che non sono mal realizzati ma non aggiungono niente al racconto.
I costumi di Marco Piemontese non danno riferimenti temporali specifici, tendendo piuttosto a delineare delle maschere stereotipiche; certo quelli affidati al coro non brillano sempre per bellezza.

Jessica Pratt, come detto, è una Semiramide che campa sulla mestizia e sul rimpianto, il che funziona soprattutto nel secondo atto, ma necessariamente sacrifica qualcosa della complessità del personaggio (la sfera sensuale ad esempio non viene nemmeno sfiorata). La voce sta meglio in alto che in basso e pertanto non si sposa benissimo con la scrittura prevalentemente centrale della parte. Certo la qualità “strumentale” del canto, al netto di qualche sbavatura, è indiscutibile; ciò che la Pratt può (e dovrebbe) ulteriormente rifinire sono la varietà d’accento e di fraseggio, il lavoro sui colori e sulla parola e certa freddezza nella recitazione, tutti dettagli che amplierebbero lo spettro emotivo e psicologico del personaggio.

Teresa Iervolino, Arsace, ha bel timbro vellutato, più morbido che brillante, gran gusto musicale e ottime agilità. Soffre ancora un po' gli sfoghi più drammatici in cui si avverte la ricerca di un peso vocale che ancora non c'è, mentre si esalta nei passaggi più intimi, quelli in cui il figlio prevale sul guerriero, quindi in sostanza anche lei nel secondo atto.



Che Alex Esposito sia un signor cantante non è certo una scoperta, ma la sua grande scena che anticipa il finale lo ricorda ai più sbadati. Attacca un recitativo sconquassante per varietà di intenzioni e accenti, poi nel canto spianato c'è tutto quello che serve: dinamiche, legato e infine anche le agilità. Quello che nel complesso manca alla sua prova è il senso della misura, sia nella caratterizzazione del personaggio – d'accordo, questo Assur è un cattivone, per di più zoppo, ma a tratti scade nella parodia – sia nel canto vero e proprio. Esposito sceglie infatti una strada inedita per risolvere i recitativi, contaminandoli con il parlato, sporcandoli di graffi e accenti e, con la stessa veemenza, marca la recitazione. L’operazione è interessante e per certi versi spiazzante, anche perché quello che ne esce è un Assur di rottura, quasi mefistofelico, senz’altro “disturbante”, tutte cose che un intelligente lavoro di sottrazione finirebbe per esaltare anziché affievolire.

Enea Scala esce vincitore dalla sfida con una delle parti tenorili più atroci del repertorio: il suo Idreno ha volume, gusto, un bel medium, musicalmente è impeccabile e sale bene alle massacranti puntature. Che qualcuno dei tanti sopracuti esca schiacciato è il minimo sindacale.

Simon Lim è un Oroe roccioso e autorevole, Marta Mare un’Azema elegante e vocalmente a posto.
Imperioso Francesco Milanese nelle frasi dell’ombra di Nino (altro dettaglio che la regia risolve in modo discutibile, sia nelle intenzioni che nella pratica). Enrico Iviglia è un Mitrane squillante.

A reggere le fila dell'intero discorso c’è Riccardo Frizza, che si conferma direttore intelligente e di buonsenso. Sa che in questo repertorio ci sono momenti in cui l’orchestra può permettersi un passo in avanti, altri in cui deve farsi narratrice e dipingere, e altri ancora in cui è necessario scendere a patti con il canto per far quadrare i conti. Ebbene Frizza, per le quattro ore e mezza abbondanti di spettacolo – partitura in edizione critica integrale – non si perde il palco per un istante (neanche quando la Pratt tira un po' indietro nella coloratura della cabaletta Dolce pensiero) né allenta mai la tensione narrativa. L’Orchestra della Fenice è compatta e sbava pochissimo, anzi, va crescendo per qualità e morbidezza di pasta in corso d’opera.

Monumentale il coro preparato da Claudio Marino Moretti.

Alla fine è trionfo per tutti.

Recensione pubblicata su OperaClick.


17 ottobre 2018

Fra gli amplessi

Così fan tutte è l'opera che salverei dalla fine del mondo. Quel balzo dei violini dal mezzo forte al piano passa via inosservato (solo Solti nella sua prima incisione - peraltro bruttarella - lo fa sentire bene, e credo di averle ascoltate quasi tutte), eppure è una manifestazione assoluta del genio mozartiano. Dopo che Fiordiligi cede ("Fa di me quel che ti par") attacca un Andante: i due innamorati si sono scelti ed è il momento di passare dalle parole ai fatti. C'è un primo, timido tentativo di avvicinarsi, di toccarsi, poi un secondo, infine le linee iniziano a rincorrersi e intrecciarsi, quel che succede è inequivocabile. Però questo scarto, due battute, è ancor più sottile. È uno slancio istintivo che viene immediatamente represso, un avvicinarsi titubante ma irrefrenabile, è quel "che faccio, vado o non vado?" che ci siamo chiesti tutti almeno una volta. È una dinamica musicale che si fa dinamica psicologica, emotiva e teatrale. Così fan tutte non è un'opera, è un manuale di istruzioni dell'essere umano.

15 ottobre 2018

Falstaff all'Olimpico di Vicenza

Al Vicenza Opera Festival va in scena il Falstaff di Iván Fischer e, come d’incanto, anche quello di Giuseppe Verdi. D’accordo, è una provocazione, ma fino a un certo punto. Qui non si parla di ossequio al Verbo, inteso come libretto o partitura – anche se nel caso specifico la partitura è rispettata eccome! – ma di spirito dell’opera, di atmosfera, qualunque cosa possa significare. Un Falstaff che è innanzitutto commedia e non farsa proprio a partire dal gesto musicale, e poi lo è anche sul palco o quel che ne rimane. Per uno strano scherzo del melodramma, uno spettacolo d’impronta tradizionalissima e per di più in forma semiscenica, quindi senza quinte né fondali e con mezza orchestra dispersa tra i cantanti, diventa teatro al cubo, quasi il clima intimo e gli spazi contenuti della cavea semicircolare dell’Olimpico, che pare abbracciare la scena per entrarci, riuscissero a moltiplicare la reciproca immedesimazione di pubblico e artisti.

Foto: Kata Schiller

E poi c’è la mano di Fischer, il quale fa piazza pulita di vezzi e vizi della tradizione. Via pause e corone di routine, via rallentandi e compiacimenti ritmici assortiti, via tutte le pigre strizzate d’occhio al comodo o all’abitudine d’ascolto. Resta Verdi in sostanza, con tutto il suo genio musicale e teatrale ben esposto in vetrina. Un Verdi in salsa mozartiana per dimensioni dell’organico e leggerezza, sorridente ma ambiguo e sfaccettato, concertato con attenzione all’equilibrio più minuscolo e al dettaglio pulviscolare senza che la calligrafia prenda mai il sopravvento sul testo. L’eccentrica distribuzione dell’orchestra – archi sul palco e in buca, alle spalle del maestro, fiati e percussioni – restituisce un curioso effetto stereofonico che esalta quella prodigiosa scrittura in cui ogni nota sottotitola un gesto (il pizzicato sorprendentemente esposto del primo violoncello a dipingere l’“aria che vola”, solo per fare un esempio tra mille). E tanti, tantissimi colori, perché ogni frase è accompagnata da un tono diverso che sottintende una diversa intenzione.

In mezzo a tutto ciò Fischer non si perde una semicroma e “racconta” con virtuosismo quasi insolente la musica. I concertati scorrono via con una facilità persino spiazzante, tutto è limpido e chiarissimo senza che tanta levigatezza tradisca sentori di accademia o anche soltanto di superficialità.

La Budapest Festival Orchestra in assetto da camera è una delizia per le orecchie: tersa, ricca, corposa. Niente sbavature né frasi buttate via, solo musica ad altissimo livello.

Foto: Kata Schiller

Fischer firma, a quattro mani con Marco Gandini, anche una regia che di per sé non inventa niente di sconvolgente, ma che c’è e funziona. È vero, molte trovate sono viste e riviste, qualcuna anche un po’ ammuffita, ma in un Falstaff che guarda all’altro ieri ci possono stare, anche perché in compenso c’è un’attenzione alla recitazione e al ritmo della narrazione tutt’altro che banale. Pur su un palco disadorno, con le scene (di Andrea Tocchio) ridotte al minimo e dei costumi belli ma vagamente carnascialeschi (Anna Biagiotti), la sospensione dell'incredulità non esita un istante e si finisce tutti per credere d’essere catapultati in questa strana Windsor palladiana.
Non manca poi qualche trovata d’effetto: il direttore d’orchestra che gioca a fare l’oste della Giarrettiera e di tanto in tanto “cortocircuita” con la recita pare divertire molto il pubblico.

Foto: Kata Schiller

La vulgata vuole che Falstaff sia opera da direttore d’orchestra (come se poi le altre non lo fossero!) ma non di meno esige un cast di musicisti e attori di prima qualità che qui, con diversi gradi di eccellenza, non mancano.

Ambrogio Maestri è il Falstaff dei nostri giorni. La parte gli calza a pennello e l’ormai lunga frequentazione ha limato il dettaglio del dettaglio. Maestri dà senso e colore a ogni parola, giocando anche sulla dinamica e talvolta magari calcando un po’ la mano, ma il personaggio c’è tutto: un Sir John che centra quell’ineffabile mezza via shakespeariana in cui i registri si mescolano e contaminano a vicenda. Un po’ intristito e un po’ patetico, un po’ bonario e velatamente cinico, Maestri cammina sul filo di una radente ambiguità non senza un’irresistibile simpatia di fondo. La voce si impone ancora per ampiezza soprattutto nei centri e negli acuti a pieni polmoni, mentre soffre un po’ nei falsetti e nei pianissimi ad alta quota, ma sono inezie che nulla tolgono a una grande caratterizzazione.

Anche Tassis Christoyannis è un Ford di lungo corso, e si sente. La voce c’è ed è a posto, ma anche nel suo caso il canto non è mai il fine ma un mezzo a servizio del teatro, come dovrebbe essere sempre.
Eva Mei soffre un po’ la scrittura di Alice in basso mentre svetta ancora con insolenza quando la tessitura sale, ma è soprattutto il genere di artista che non si canta mai addosso, né spreca una parola o un gesto.

Xabier Anduaga, giovane tenore classe 1995, è un signor Fenton. Voce di bel timbro fresco e, a dispetto del gran volume, una capacità di sfumare e legare che promette benissimo. Da tenere d’occhio per domani e dopodomani: ne sentiremo parlare. Sua degna controparte la Nannetta di Sylvia Schwartz, vocalità leggera ma non priva di corpo ed emissione d’alta scuola che dà pieno sfoggio di sé nei filati acuti.
Ottima anche la Quickly di Yvonne Naef: bel velluto e una cavata da violoncello al servizio di un gusto che bandisce ogni effettaccio (finalmente!).

Laura Polverelli è una Meg Page di lusso, così come convince senza riserve lo squillante Dottor Cajus di Francesco Pittari. Completano degnamente il cast Stuart Patterson (Bardolfo), che sa essere caratterista senza scadere nella macchietta, e Giovanni Battista Parodi, Pistola dalle scarpe grosse e dal canto fino.

Foto: Kata Schiller

Due parole le merita il coro che non c’è, almeno nominalmente, ma c’è eccome: nel terzo atto una manciata di violiniste abbandona il leggio per intonare a passo di danza i versi delle ninfe. Se lo fanno come lo fanno, cioè cantando splendidamente, il merito è senz’altro di György Philipp che le ha preparate, ma anche della loro statura artistica. Il che vale più o meno per tutti i professori della BFO, non ultimo quel violinista di fila che imbraccia la chitarra per accompagnare (e come!) l’ingresso di Falstaff a casa Ford.

Alla fine è trionfo fragoroso che rischia di far crollare le gradinate lignee dell’Olimpico, tra le apprensioni delle maschere che osservano impotenti un pubblico indisciplinato che pesta forsennatamente i piedi.

Recensione pubblicata su OperaClick

Foto: Kata Schiller