26 settembre 2021

Double Wang

Come gli altri massimi esponenti del pianismo per così dire “internazionalizzato” che è andato imponendosi negli ultimi decenni, Yuja Wang sta bene in ogni vestito. Metaforicamente parlando, sia chiaro, le divagazioni circa i suoi cambi di outfit su cui si sono spesi fiumi di inchiostro al pubblico dei concerti interessano il giusto, cioè molto poco. È invece ben altrimenti interessante osservarla balzare di repertorio in repertorio, mutando di stile com’è ormai scontato, ma senza perdere l’identità che la definisce. Così se l’abito-Bach (Concerto n. 5 in fa minore BWV 1056) se lo cuce addosso senza asciugare troppo l'espressività ⎼ tratto appunto comune a questo filone di musicisti contemporanei, che pur consapevoli della lezione filologica non rinunciano a prendersi qualche libertà nell’avvicinare i compositori più antichi, senza fingere che nel mezzo non ci sia stato l’Ottocento con le sue rivoluzioni ⎼ anche il Šostakóvič del Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra in fa maggiore op. 102 ha un'impronta più ibrida e "globalizzata", in sostanza più facilmente esportabile in modo da ingraziarsi ogni palato. È per certi versi addolcito e solare, poco disturbante e poco "sporco", ma suonato divinamente.

©JuliaWesely


Wang incarna infatti un pianismo prodigioso per controllo, sia del suono che di fraseggio e dinamiche, ha mani leggere e, come si arguisce al solo osservarne l’aspetto gracile, si gioca le sue carte migliori nei piani e pianissimi, controllati quasi senza affondare le dita nei tasti, piuttosto che nei passaggi di forza che sono sì brillanti, ma difettano di un briciolo di muscolatura. O meglio, ne difettano in una situazione in cui la direzione è nominalmente affidata alla pianista stessa, ma nei fatti la agisce in delega la spalla della Mahler Chamber Orchestra, Matthew Truscott, che chiaramente dal primo leggio può solo dare qualche attacco o aggiustare il tiro con un cenno del capo laddove qualcuno perda l’orientamento, ma certo non bilanciare i volumi, che non sono sempre favorevoli alla pianista. Tecnica a parte, in Wang c'è anche una consapevolezza assoluta dello sviluppo musicale, che pare sì computerizzato, tanto è perfettamente misurato, ma non al punto da risultare algido o distaccato. Le frasi di sortita dell'Andante ad esempio, oltre alla purezza miracolosa del tocco, sono articolate con una libertà ritmica e dinamica in cui è davvero difficile non riconoscere l'intelligenza musicale della grande artista, indipendentemente dai gusti individuali. È un modo di suonare fortemente improntato al virtuosismo non privo di detrattori, le cui ragioni sono intuibili ma difficilmente oggettivabili. Che si possa ravvisare in questo “gusto” un velo di freddezza è lecito come ogni punto di vista soggettivo, tuttavia è difficile non restare stregati di fronte a cotanta onnipotenza tecnica.

I minimi problemi di concertazione che appesantiscono il concerto di Šostakóvič non si palesano nella Sinfonia n. 31 in re maggiore di Haydn, né tantomeno nell'Ottetto per strumenti a fiato di Igor Stravinskij, replicati pari pari nei due concerti in serie che ormai sono diventati l’abitudine nella stagione estiva del Teatro Nuovo Giovanni da Udine.

La prima, condotta dallo stesso Truscott, chiaramente non può essere illuminata dalla zampata di una bacchetta terza, ma è perfettamente dipanata e suonata, nell'accezione più nobile del termine. Un Haydn senza sottotesti, limpido e vivace, oltre che ineccepibile dal punto di vista strumentale. L’Ottetto mette in vetrina un ensemble di fiati di prim'ordine che enfatizza l'impronta neoclassica del lavoro, piuttosto che avventurarsi nelle sue arditezze jazzistiche, ma non per questo lo priva di spirito e giocosità.

Il teatro, decisamente più gremito nel secondo concerto, saluta trionfalmente Yuja Wang, cordialmente tutti gli altri.

15 settembre 2021

Doppietta di Valerij Gergiev

Tra i maggiori beneficiari dei due concerti che Valerij Gergiev e “i suoi” del Mariinskij hanno dato al Giovanni da Udine ci siamo noi che abbiamo avuto la fortuna di ascoltarli entrambi, uno dopo l’altro. Non tanto perché ci è stato risparmiato il cruccio di scegliere a scatola chiusa tra una Grande che si è poi rivelata trascendentale e un’Italiana più ordinaria, ma per avere potuto ammirare a poche ore di distanza gli stessi musicisti nella stessa pagina: una breve suite del Romeo e Giulietta di Prokof’ev. Solamente quattro brani del balletto in realtà, che direttore e orchestra suonano insieme da decenni e conoscono a menadito, cosa che non li tenta nemmeno per un attimo di adagiarsi sulla comoda routine. Lo prova il fatto che tra la prima esecuzione - più limpida e per certi versi distesa, al punto che il durante le Maschere il direttore si trova a dare qualche gomitata mancina per ringalluzzire gli archi - e la seconda, incalzante e nervosa, le differenze non si contano: nei tempi, nel carattere, nei volumi. Gergiev non è insomma il tipo di direttore che attacca il pilota automatico e aspetta la fine, ma vive la pagina lì per lì, in preda a una sorta di enthousiasmós, o semplicemente abbandonandosi all’istinto.


Dello Schubert s’è già detto tutto con un solo aggettivo. Provando ad andare oltre la laconicità, c’è da raccontare di un’interpretazione sorprendente e imprevedibile, a tratti rivelatrice, che palpita dall’attacco agli accordi conclusivi. Certo alcuni potranno preferire un approccio più sobrio e analitico all’espressività brada di Gergiev, che pare trasformare l’Andante in una danza infernale che s’avvita su se stessa, con tanto di fiati che s’alzano in piedi sul finale di movimento ad aggredire a pieni polmoni le rispettive parti. Non è dunque uno Schubert pudico o “perbene”, quello di Gergiev, ma estremo, coloratissimo e delirante, a tratti in preda ai furori, a tratti straniante. 

Eppure il suo non è il radicalismo musicale di chi vuole stupire a tutti i costi o trovare nell’eccentricità la propria ragion d’essere, ma procede piuttosto assecondando un’urgenza narrativa che non perde coerenza nemmeno negli sviluppi più audaci: dal terzo movimento in avanti il susseguirsi di temi e intrecci è impastato con tale audacia da rasentare la trasfigurazione in una “Grande Symphonie fantastique”.

Confesso di non aver trovato altrettanto illuminante il Mendelssohn della Sinfonia n. 4 in la maggiore del concerto delle 21, l’Italiana appunto, forse troppo lontano dalla sensibilità del maestro, forse dalla mia. È sì suonato divinamente, e ci mancherebbe, pennellato a colori accesi che vanno ora addensandosi, ora sfumando, ma anche per certi versi rapsodico, quasi mancasse la reductio ad unum dei frammenti o la volontà di allontanare l’obiettivo dai tanti dettagli timbrici per catturarli in una visione allargata. Certo non difetta l’energia, anzi, il Saltarello pare una cavalcata a perdifiato nelle steppe, ma quale sia l’identità di questo Mendelssohn, oltre alla pregevolissima fattura, non saprei dirlo.

Meritano una menzione i due bis. Il primo concerto si chiude con un’Ouverture dal Pipistrello di Strauss tra le più folli che si siano mai ascoltate, una corsa danzante che va stringendosi con tale forsennatezza da suscitare l’ilarità stupita dei violinisti stessi e l’esplosione, si potrebbe dire programmata, del pubblico. A Mendelssohn invece fa seguito un finale dell’Uccello di fuoco da togliere il fiato. Basti questo dettaglio: nel passaggio dalla Berceuse alla chiusa vera e propria il suono orchestrale si fa talmente piccolo e immobile che sembra arrivare da qualche angolo remoto del teatro, come l’orchestra lo stesse mimando in playback sopra un’omologa nascosta dietro le quinte. Prodigioso.