24 dicembre 2023

Myung-Whun Chung dirige Beethoven e Stravinskij

   Negli ultimi anni Myung-Whun Chung si è autoesiliato in un repertorio sempre più ristretto, riconducibile grossomodo a una manciata di compositori tra i quali Beethoven occupa una posizione di predominio. Sembrava essere invece sparito dai suoi radar Igor Stravinskij, che pure negli anni francesi alla Bastille prima e all’Orchestre Philharmonique de Radio France poi aveva rivestito un ruolo tutt'altro che marginale nella sua attività, sia dal vivo che in sala di registrazione. Almeno fino ad oggi.

Myung-Whun Chung dirige Beethoven e Stravinskij
foto Teatro La Fenice

   L’occasione di riascoltare Chung alle prese con il compositore russo l’ha offerta il Teatro La Fenice con il secondo concerto della stagione sinfonica 2023-24, primo passo di un riavvicinamento che nei prossimi mesi coinvolgerà anche altre orchestre, tra cui quella di Santa Cecilia, dove a gennaio il direttore coreano riproporrà il medesimo programma: Sinfonia n. 6 in fa maggiore op.68 seguita da Le Sacre du printemps.

   La Pastorale già sulla carta pareva un lavoro che ben si sposa con le caratteristiche del direttore, con la sua delicatezza di trama e il clima arcadico, ideali per un musicista il cui approccio è più versato a legare e ammorbidire che enfatizzare i grandi slanci drammatici. Alla prova dei fatti è proprio così. Chung asseconda lo sviluppo costruttivo della pagina senza sviscerarne con puntiglio didascalico il processo costruttivo tema per tema, ma dando agio ai rivoli orchestrali di distendersi come giocassero a rincorrersi e intrecciarsi. Qualcosa che emerge in particolar modo nel secondo movimento con una naturalezza commovente.

   È un Beethoven sorgivo e crepitante, animato da una equa distribuzione di plasticità nel modellare le voci orchestrali e tensione ritmica, ma altresì privo di gesti teatrali forti o di marcature, come lo pervadesse una serenità di fondo, in cui la natura “evocata” non appare mai come minacciosa o imbronciata nemmeno nei suoi sfoghi più tempestosi, ma conciliante e benigna.

   L’approccio a Le Sacre du printemps non è dissimile. Chung non ne estremizza la dimensione barbarico-tribale, né calca la mano sui tratti animaleschi - quelli che Bernstein riconduceva all’istinto riproduttivo - e grotteschi, ma la sveste delle stratificazioni di significati che vi sono stati accostati nel tempo, limitandosi, si fa per dire, a svelare la pagina. Ne esce una prova di virtuosismo strumentale e pilotaggio ad alta velocità in cui l'impulso ritmico prevale sul colore. Non è insomma un Sacre caricaturale o acuminato, ma più versato alla scorrevolezza e all'equilibrio.

   E qui l'Orchestra della Fenice, già protagonista di una prova maiuscola per nitidezza nella sinfonia di Beethoven, sorprende. Sorprende perché quel velo di cautela e di incertezza che ci si potrebbe aspettare da una formazione disabituata a questo repertorio semplicemente non si avverte. Tutt’altro, l'orchestra non si limita a restituirne un'esecuzione dignitosa e corretta, ma azzanna la pagina con coraggio affidandosi e assecondando il podio in ogni sua sferzata e palesando una qualità dei singoli mai disgiunta dalla brillantezza di fondo dell’amalgama.

   Successo molto caloroso sia dopo la prima parte che a fine concerto.

16 dicembre 2023

Dall'Ararat alle Alpi

    Da vent’anni, l’11 dicembre si celebra la Giornata Internazionale della Montagna, una ricorrenza che il Teatro Verdi di Pordenone ha deciso di includere nella programmazione artistica vera e propria. Ormai da qualche tempo infatti il teatro ha iniziato a proiettare delle ramificazioni della sua attività sul territorio, in particolare verso alcuni centri montani della provincia, nell’ambito del “Progetto montagna” coordinato insieme al CAI con “l’obiettivo è di stimolare la riflessione sulla salvaguardia della natura, sulla valorizzazione dell’ambiente, sulle conseguenze del cambiamento climatico in atto a livello globale e sul fenomeno dello spopolamento e abbandono della montagna”. Un progetto che oggi pare sul punto di espandersi ulteriormente con il Festival del Teatro di Montagna, che secondo i piani dovrebbe esordire nel 2025.

Armenian National Philharmonic Orchestra Teatro Verdi Pordenone


   La serata di cui si racconta, con protagonista la Armenian National Philharmonic Orchestra, scavalla decisamente dai confini locali, come suggerisce il titolo “Dall’Ararat alle Alpi”.

   Benché la quasi centenaria orchestra armena non goda della fama che meriterebbe - alla prova del palcoscenico dimostra di essere una compagine dall’identità timbrica ben definita e preziosa - scorrendo la sua storia ci si imbatte persino nel nome di Valery Gergiev, che ne fu direttore principale tra il 1981 e l’85. Ha ben altre dimensioni la reggenza di Eduard Topchjan, che guida la formazione sin dal 2000.

   A vedere il suo gesto squadrato, quasi da maestro di banda, difficilmente si potrebbe immaginare che quello sbracciare didascalico si traduca in una flessuosità musicale tutt'altro che imbalsamata e in una delicatezza di tratto da vero artista del podio. Non lo si apprezza granché nel brano di apertura, un lavoro del 1917 di Gian Francesco Malipiero non particolarmente ispirato (Armenia, canti armeni tradotti sinfonicamente), mentre pare già evidente nel Concerto per violino e orchestra di Aram Khachaturian. Composto negli anni Quaranta del Novecento per David Oistrakh, il concerto sollecita il virtuosismo strumentale in tutte le sue declinazioni, dalla destrezza in velocità alla palette timbrica. Anush Nikogosyan ha qualità tecnico-espressive di prim’ordine, sia per la capacità di sbalzare colori e dinamica (anche verso pianissimi assai suggestivi), sia per la spontaneità nel porgere la frase musicale, e che dimostra altresì una solida intesa con il direttore di cui è stata allieva e con cui pare condividere una visione antiedonistica del racconto musicale, anche in una pagina così pirotecnica.

   La Sinfonia delle Alpi che segue mette in mostra un’orchestra dalle qualità sorprendenti e, per certi versi, fuori dal tempo. A fronte dell’ormai diffuso conformismo di identità di orchestre più o meno blasonate, la Filarmonica armena ha un bel suono denso e tornito che ricorda, con le dovute cautele, le grandi orchestre russe, ma è altresì una pienezza d’impasto tutt’altro che greve, ma estremamente mobile e vellutata. In corso d’opera si apprezza inoltre un lavoro di concertazione attentissimo da parte del direttore, che ben bilancia equilibri interni e compattezza, ma anche una qualità strumentale delle sezioni stesse eccellente, che tradisce qualche piccola incrinatura solo verso la fine del concerto, probabilmente più per stanchezza che per veri e propri limiti intrinseci.

   A fine concerto un bis inatteso: il Lied Beim Schlafengehen dai Vier letzte Lieder dello stesso Strauss affidato al soprano Hrachuhi Bassénz accompagnato, ancora una volta, da Anush Nikogosyan negli interventi del violino solo.

   Successo molto caloroso e prolungato a fine concerto.

14 dicembre 2023

Robert Trevino dirige la Terza Sinfonia di Mahler

   Pare consolidarsi sempre più il rapporto tra il Teatro La Fenice e Robert Trevino, che dopo un paio di ospitate negli anni scorsi, evidentemente andate a segno, è stato invitato per l’inaugurazione della stagione sinfonica. Occasione doppiamente gustosa dato che il menù proponeva quel mastodonte inafferrabile e piuttosto raro che è la Sinfonia n. 3 in re minore di Gustav Mahler, un’opera ideale, nella sua maestosità, per dare lustro ai complessi di casa.



Robert Trevino Terza Sinfonia di Mahler
foto Teatro La Fenice

   Di fronte alla creatività mahleriana, soprattutto quando è frastagliata e pervasa da un afflato universalistico come nella Terza, l'interprete si trova di fronte a due estremi, che possono essere conciliati con diversi gradi di coerenza. Da un lato può cercare di addolcire i tratti, mirando a una lettura organica che, a fronte di un minor rischio di frammentarietà, richiede un'ampiezza di respiro e spalle forti per scongiurare cali di tensione e certa monotonia. Dall'altro lato c'è l'opzione di sbalzare i contrasti, enucleando e cesellando cellula per cellula il materiale musicale adoperato dal compositore, con il pericolo tuttavia di incartarsi nella fluidità d’assemblamento.

   Il Mahler di Trevino sta a metà strada tra i due poli opposti. È inquieto e incalzante, pervaso da un’irruenza tempestosa, ma non eccessivamente lambiccato. È un Mahler che si infiamma nei passaggi più estroversi e si ripiega - va detto, con un po’ di maniera - allorché la dinamica si fa più soffusa e i tempi si dilatano. Insomma Trevino non è il genere di direttore che asseconda placidamente lo sviluppo orizzontale della sinfonia, modulandone le piccole ondulazioni di percorso per definire un’ampia parabola, ma piuttosto lo spinge in costanti impennate verticali, secondo un andamento quasi sinusoidale. Scelta che si rivela tutt’altro che sprovveduta, dal momento che esige un minore sostegno narrativo e un più limitato lavoro “di fino”, a fronte di un’elevata sollecitazione del virtuosismo “svelto” nei passaggi più accesi, che per altro la bacchetta tiene sempre in saldo controllo.

   Trevino non dà spiegoni, non ha pruriti iperanalitici, ma racconta la sinfonia come fosse un testo teatrale, senza scansare gli spigoli ma nemmeno avvitandosi su sé stesso nella ricerca maniacale del particolare a scapito della visione d'insieme. È per altro un direttore molto “gestuale”, la cui mimica e il cui movimento determinano fortemente la risposta dell’orchestra, ma che dimostra altresì di saper ben concertare, con equilibri interni sempre ben soppesati a dispetto dell’affollamento del palcoscenico, persino sovradimensionato per le dimensioni della sala.

   L’Orchestra della Fenice nell'occasione dà prova di una resistenza da maratoneta e di qualità rimarchevole soprattutto negli archi, che si dimostrano straordinariamente duttili e morbidi nonché capaci di esprimere un legato di sezione d’alta scuola, mentre inciampa in qualche pasticcio disseminato tra i tantissimi fiati. Peccati veniali nei quasi cento minuti lungo cui si espande la Sinfonia.

   Nel complesso di un’esecuzione pregevole le poche riserve riguardano alcuni particolari stridenti, come la marcatura jazzistica di certi portamenti nell’accompagnamento al Lied, per altro meravigliosamente colorato dalla grande Sara Mingardo. Non è una questione stilistica, quanto pragmatica: se determinate idee una volta messe in pratica “suonano male”, nel senso che proprio non vengono, sarebbe saggio accomodarle verso soluzioni più caute.

   È molto positivo il contributo delle voci femminili del Coro della Fenice e dei Piccoli Cantori Veneziani, preparati rispettivamente da Alfonso Caiani e Diana D’Alessio, nel quinto tempo.

Successo caldo ma frettoloso a fine performance.

11 dicembre 2023

Note su note: lo Strauss di Andris Nelsons

   In casa Deutsche Grammophon Andris Nelsons è tenuto in grande considerazione. Alle integrali delle sinfonie di Beethoven, Shostakovich e Bruckner, che si è da poco conclusa con l’ultimo capitolo, si aggiunge un nome nuovo, quello di Richard Strauss. È lui il protagonista del box inciso dal direttore lettone con le sue due grandi orchestre, la Boston Symphony e quella del Gewandhaus di Lipsia, accanto a un paio di guest star d’eccezione come Yuja Wang, impegnata nella Burleske in re minore, e Yo-Yo Ma, nel Don Quixote. Una raccolta di sette dischi in cui compaiono praticamente tutti i capisaldi della grande produzione sinfonica del compositore tedesco, ma anche qualche pagina meno frequentata. Quanto allo stile, il prodotto non si discosta dalle caratteristiche delle precedenti uscite discografiche di Nelsons. C’è molta esuberanza e una chiarezza espositiva di alta scuola. Insomma, è il più tipico dei prodotti da grande mercato internazionale dei giorni nostri: un eccellente “primo ascolto” buono per farsi un’idea di massima sulle tendenze esecutive mainstream di un determinato autore al più alto livello tecnico immaginabile.

   

Richard Strauss by Andris Nelsons Deutsche Grammophon

   

   Quel che davvero vale l’acquisto del cofanetto è la sontuosa qualità del suono delle due orchestre e la fluidità con cui Nelsons sviluppa il materiale. È uno Strauss bilanciato tra un gusto per così dire mitteleuropeo, di stampo tradizionale, e un’estroversione più americana, in cui ottoni percussivi e taglienti si appoggiano su un tappeto degli archi estremamente soffice. Certo, Nelsons non è il genere di musicista che ribalta le certezze con una proposta dalla forte originalità, ma è piuttosto un rebooter della tradizione. Un rassicurante e dotatissimo affabulatore di talento, che rinfresca la lezione dei classici con sonorità più moderne in termini di asciuttezza. Uno Strauss simile non può non piacere, perché è limpido, virtuosistico, levigato e superbamente suonato. Certo, ci si può chiedere cosa aggiunga alle sterminate librerie del genere. Forse in valore relativo non molto, se inquadrato nel contesto della discografia straussiana, ma in assoluto c’è poco da discutere: è un gran bel prodotto.


6 dicembre 2023

Intervista ad Angela Denoke

Intervista inedita al soprano tedesco Angela Denoke realizzata nell'estate del 2020, in occasione della tournée estiva con la Gustav Mahler Jugendorchester accanto al giovane direttore Tobias Wögerer

   La sua storia è atipica. Arrivata al canto relativamente tardi, dopo un brevissimo tirocinio nella provincia tedesca venne catapultata dal duo Abbado-Mortier nell’Olimpo di Salisburgo, da cui non si sarebbe più schiodata. Quell’azzardo non solo le spalancò le porte del successo, ma anche di un repertorio che avrebbe egemonizzato nei decenni a seguire. Da allora certo Wagner, le eroine maledette di Janáček, molto Strauss, le “Marie” di Berg e Korngold, ma anche le tragiche outsider del repertorio russo novecentesco divennero affar suo, almeno nei teatri che contano. 

   Oggi Angela Denoke si divide tra palcoscenico, qualche allievo e una carriera allo stato embrionale da regista. Nell’estate appena trascorsa è tornata in Italia accanto a una delle figlie più nobili del suo mentore Claudio Abbado, la Gustav Mahler Jugendorchester, in residenza tra Bolzano e il Teatro Verdi di Pordenone, dove la incontro, impegnata in un programma riadattato a misura delle  restrizioni di organico imposte dai tempi. 

Ha scelto lei questo programma? 

   In un certo senso sì. Originariamente era prevista una tournée con grande orchestra, poi ovviamente abbiamo dovuto cambiare i piani in corsa. Erwartung era già in programma nella sua versione a pieno organico, io però conoscevo questo riadattamento per piccola orchestra che avevo cantato tempo fa e ho pensato che fosse una buona soluzione. I Lieder eines fahrenden Gesellen, in questo arrangiamento cameristico di Arnold Schönberg, invece sono proprio andata a cercarli.

Intervista al soprano Angela Denoke


È diverso cantare con un ensemble da camera rispetto a una grande orchestra? 

   Sì, ma non perché cambi il mio modo di interpretare o esprimermi, la differenza è che con un’orchestra piccola spesso non riesco a sentire gli strumenti alle mie spalle e quindi devo contare per non perdermi. 

La Gustav Mahler Jugendorchester è una delle orchestre fondate da Claudio Abbado, che diede inizio alla sua carriera internazionale. Che ricordo ha di lui?

   Lo adoravo. Dopo qualche produzione in un contesto decisamente minore, nel piccolo teatro di Ulm, lui e Gerard Mortier mi scritturarono come Marie nel Wozzeck al Festival di Salisburgo. Per me fu la prima esperienza in un teatro importante e di fatto la mia carriera inizio lì. Ho avuto a che fare con la musica per tutta la vita, ho iniziato a studiare pianoforte da bambina ma non avrei pensato di fare la cantante, infatti la mia carriera è iniziata tardi, intorno ai trent’anni, fino ad allora pensavo che avrei fatto l'insegnante.

Però è partita subito dal livello più alto. 

   Sì. Claudio era un grande sia nelle prove che in recita, aveva questa capacità unica di infondere fiducia, mi incoraggiava sempre a esprimere la mia personalità, la mia musicalità, ad alzare il livello e a tirare fuori quel che avevo dentro senza timori. È un approccio che da allora ho sempre cercato di mantenere e amo molto i musicisti che si fidano del cantante e lo stimolano alla ricerca.

È una qualità comune tra i grandi direttori?

   In realtà no. Qualcuno apprezza questo approccio, ma in genere ti consentono di farlo in modo passivo, con le tue sole forze, senza che siano loro a incoraggiarti come faceva Claudio. Claudio mi diceva: hai qualcosa da raccontare, mostramelo. Anche se ero molto giovane, da lui ho imparato ad avere fiducia in quello che stavo facendo, a osare, ed è una cosa che mi sono portata dietro. 

In seguito ha lavorato con molti dei più importanti direttori dei giorni nostri, c'è qualcuno che è stato altrettanto importante per lei?

   Posso dire che ci sono delle fasi, dei cicli, magari capita di lavorare per un certo periodo frequentemente con un direttore e poi succede qualcosa e improvvisamente si interrompono i contatti. Mi è capitato ad esempio con Barenboim, con cui collaboravo spesso: saltò una produzione e da allora ci perdemmo di vista per qualche anno. Il bello di queste relazioni altalenanti è che danno modo di rinnovare continuamente le esperienze e quando finisce un percorso ce n'è subito un altro pronto a iniziare e così via.

Lei ha un repertorio inusuale che non è proprio quello tipico del soprano. 

   Sì, diciamo che sono una via di mezzo tra soprano e mezzosoprano. 

Non intendevo in questo senso, parlo proprio del suo repertorio: lei ha costruito la sua carriera fondamentalmente sulla musica tedesca, su Janáček e sull'opera russa, mentre ha tralasciato il grande repertorio italiano o francese. È stata una sua scelta?

   Non sono stata io a scegliere il mio repertorio, è lui che ha scelto me. Dopo questo Wozzeck a Salisburgo le proposte sono andate in una determinata direzione che ha funzionato e quindi da lì mi sono incanalata verso un un repertorio di questo tipo. Mi piaceva, mi ci trovavo bene e riscuoteva successo, quindi ho continuato su quella strada. Dopo Wozzeck, Mortier mi offrì subito la Káťa Kabanová nel ‘98 e da allora è partito un processo di inerzia incoraggiato dal consenso del pubblico. Mi ci sono trovata dentro quasi per caso ma ho scoperto che funzionava, forse anche perché questo repertorio è una perfetta combinazione di canto e recitazione.

A Salisburgo poi ha fatto molto altro.

   Sì, Makropulos, la Contessa, Marietta di Die tote Stadt...

È vero che Marietta di Korngold è molto pesante per la cantante?

   Lo è davvero, perché passa da una scrittura quasi mezzosopranile vicina al parlato a un finale in cui la tessitura si fa sempre più più alta. Poi ci sono molti sbalzi, è davvero una parte ostica da cantare, più pesante di Salome, anche se non sembra. Me l'hanno proposta ancora cinque anni fa ma ho rifiutato, credo che quel tempo sia finito.

Un cantante dovrebbe avere l'intelligenza di capire quando è il momento di dare una svolta al repertorio. 

   Sì, ma non è affatto semplice, anche perché la tua reputazione nell'ambiente è legata a un certo tipo di opere e personaggi e i teatri continuano a chiamarti per quelli. Bisogna avere la forza per proporsi anche sotto nuove vesti. Ad esempio io ho cantato Salome per tantissimi anni ma a un certo punto ho deciso che non era più opportuno che la facessi e sono passata a Erodiade. Poi ci sono altri personaggi come Kundry che posso cantare ancora senza problemi, ma non vale per tutti.

Lei è stata anche un’apprezzata Crisotemide, mentre non ha mai affrontato Elektra.

   No, ma ci sono andata molto vicina, poi per una serie di contingenze saltò la produzione in cui avrei dovuto cantarla. Tenere in repertorio questi ruoli impone anche dei problemi di abbinamento: bisogna scegliere con attenzione le opere da avvicendare, perché mettere in serie due personaggi con caratteristiche di scrittura vocale molto diverse può creare delle difficoltà. Ad esempio passare da Kundry a Marietta è disagevole, perché la prima ha una scrittura centrale che induce ad aprire e allargare la voce, mentre la seconda richiede una vocalità più sottile e una maggiore estensione. 

E a Clitennestra ci ha pensato?

   Mi piacerebbe molto farla, me l'hanno offerta in passato ma sfortunatamente alla fine è saltato tutto.

Ci sono altre opere che vorrebbe cantare nei prossimi anni? 

   Vorrei allargare il mio repertorio in direzioni diverse. Come detto ho debuttato in Erodiade, poi dovrei affrontare Miss Grose nel Giro di vite di Britten. Cerco di capire quali sono i personaggi in cui posso entrare comodamente e quali invece mi sono preclusi, ma non è facile diventare improvvisamente la vecchia della situazione (ride).

Invece non ha mai affrontato repertorio italiano. Come mai?

Semplicemente perché c'è chi può fare quel repertorio meglio di me. Una volta Mortier mi propose di fare Elisabetta di Valois, così ho provato a studiarla ma ho capito presto che non si confaceva alle mie caratteristiche, quindi ho lasciato perdere. Certo mi sarebbe piaciuto molto cantarla, ma non credo che sarei stata brava quanto avrei voluto.

E tra i grandi registi c’è qualcuno che è stato più importante degli altri nel suo percorso.

Ho imparato molto da Christoph Marthaler. Lui ti incoraggia a trovare un tuo modo personale di interpretare un determinato personaggio, guardando ai dettagli e non al grande gesto. Nella scena finale dell’affare Makropulos dovevo stare ferma in piedi davanti al pubblico, quasi a raccontare la storia senza muovermi, il che non è per niente facile: bisogna essere molto concentrati per trovare la giusta intensità, visto che in un momento così drammatico la tentazione è inevitabilmente quella di sovraccaricare per esprimere di più. Lui mi insegnò a raggiungere questa intensità lavorando di sottrazione.

Ci sono cantanti del passato che ammira o che hanno influenzato la sua carriera? 

Sì, ce ne sono. Mortier diceva che gli ricordavo molto Hildegard Behrens e anch’io amavo molto la sua intelligenza nel lavorare il materiale musicale, poi adoro Janet Baker, anche per l'eclettismo del repertorio, e Anja Silja, quando stava sul palco non si poteva guardare da nessun'altra parte.

Nel farle la domanda precedente pensavo proprio alla Silja, lei la ricorda molto anche come approccio all’evoluzione del repertorio.

Ci ho anche cantato insieme e posso dire che è una “matta”, nel senso buono della parola, è una persona meravigliosa. È magnetica, ha questa capacità di stare sul palco e catturare l’attenzione della sala, è impossibile staccarle gli occhi di dosso.

Lei insegna?

Sì, ho degli allievi che vengono da me e faccio delle masterclass. Cerco di esplorare le diverse sfumature di questo mestiere, ad esempio il prossimo anno debutterò anche come regista.

Ah questo non lo sapevo.

Sì, la prima produzione sarà una Káťa Kabanová a Ulm e poi dovrebbe arrivarne anche una seconda, che però al momento non è ancora definitivamente stabilita.

A questo punto le manca solo la direzione d’orchestra.

Ci ho pensato e ho anche studiato per farlo, ma credo sia troppo tardi per iniziare in modo serio una carriera di questo tipo.

5 dicembre 2023

Note su note: Karl Böhm, The Complete Decca Recordings

   La porzione più consistente del lascito discografico di Karl Böhm è in quota Deutsche Grammophon, l’etichetta per cui registrò praticamente tutto il registrabile tra gli anni Sessanta e la morte. C’è una parentesi Decca, che si colloca grossomodo negli anni ‘50, con qualche sporadica fiammata nel decennio successivo, raccolta e distribuita in un box da 38 CD più un bluray dall’etichetta londinese. Si tratta di un collaborazione che portò all’approdo in sala di registrazione di alcune delle opere “maggiori” di Mozart (Nozze di Figaro, Così fan tutte e Zauberflöte) con i classici cast viennesi dell’epoca e, purtroppo, molti tagli. Quest’ultima peculiarità, unita all’italiano approssimativo di molti degli interpreti, rende l’ascolto di tali testimonianze per l’appassionato odierno una piacevole esperienza di archeologia operistica, ma ne tradisce inesorabilmente l’età. 

Karl Böhm The Complete Decca Recordings

   Il sodalizio con la Decca di fatto si concluse con il famosissimo e ancor oggi esaltante Ring registrato dal vivo a Bayreuth tra il 1966 e il 1967 che, oltre a contare su un cast da brividi (Nilsson, Adam, King, Rysanek, ecc), continua a vantare una qualità audio stupefacente, tant’è che la registrazione completa, oltre al classico CD, è doppiamente proposta nel cofanetto anche in super audio bluray. L'unica produzione operistica successiva è un Pipistrello fascinoso perché svincolato, nel suo tetragono pessimismo, dalle atmosfere gioiose e incipriate della tradizione di genere. 

   In una dozzina di dischi sono radunati invece i prodotti sinfonici, che ovviamente pescano nell’alveo del repertorio mitteleuropeo più consolidato. Parecchio Mozart dunque, i concerti per pianoforte e la Terza sinfonia di Brahms, le ultime due di Beethoven, Terza e Quarta di Bruckner (anni '70), Quinta e Incompiuta di Schubert, oltre a un paio di registrazioni liederistiche con i grossi calibri dell’epoca come Della Casa e Dermota.

   Gli amanti di Strauss potranno finalmente ritrovare la prima e splendida (benché tagliatissima) Frau ohne Schatten registrata al Musikvewrein nell’inverno del 1955, che era divenuta ormai irreperibile sul mercato, se non in qualche ristampa di scarsa qualità. Disponibile su Amazon e sul sito Decca.

3 dicembre 2023

Beatrice Rana e Antonio Pappano in tournée

   Qualche mese fa Bachtrack ha redatto una delle tante classifiche che cercano di stabilire quali siano i direttori e le orchestre migliori su piazza. Un divertissement ozioso, è ovvio, ma che dà una misura della tendenza generale, se non dei gusti del pubblico, dello showbiz. La curiosità è rilevare che ben tre dei nomi che occupano le prime sei posizioni figurano nella programmazione del Teatro Verdi di Pordenone, cui bisognerebbe aggiungere ad honorem il quarto, Herbert Blomstedt, che da queste parti ci passa spesso. Ci sono Ivan Fischer, che ha inaugurato la stagione, e Kirill Petrenko che la chiuderà a giugno, ma anche Antonio Pappano, protagonista accanto a Beatrice Rana e alla Chamber Orchestra of Europe dell’ultimo appuntamento in ordine di tempo.

Antonio Pappano e Beatrice Rana

   Evidentemente i grandi nomi non assicurano la qualità, anche se riducono di molto i rischi di una delusione, ma qualificano l’ambizione della proposta artistica, che nella serata di cui si racconta ha entusiasmato il pubblico.

   Sin dall’attacco dell’Introduzione e Allegro per archi di Edward Elgar Pappano si immerge nella musica infondendovi tutto lo slancio e la passione autentica che sono da sempre la sua cifra caratterizzante, come riuscisse a tramutare ogni partitura in un lavoro teatrale da raccontare al pubblico. Un approccio che qui non solo funziona meravigliosamente, ma riesce anche ad animare un brano di per sé non particolarmente interessante.

   Se il suo approccio narrativo alla pagina resta il medesimo anche nel Concerto per pianoforte e orchestra di Schumann, quel che cambia, oltre all' organico dell'ottima Chamber Orchestra of Europe, è che qui a dialogare con lui c'è Beatrice Rana, la quale sembra condividerne l’ardore, anche se con un’attenzione alla qualità intrinseca del suono superiore. Rana è un concentrato umano di qualsiasi qualità si possa desiderare in una pianista: forza, pulizia, eleganza, fluidità, equilibrio tra le mani e inventiva. Non è il genere di musicista eccentrica che cerca il colpo di scena ma vivifica la frase con un controllo millimetrico della dinamica e del rubato, lavorando sia sulle minuscole sfumature di colore che sul grande gesto. Quel che tuttavia colpisce maggiormente è il dominio assoluto, si direbbe robotico se non fosse così “vivo”, della tastiera e del suono, che non è solo da grande virtuosa dello strumento, ma da musicista di classe assoluta.

  Pappano ha poi il merito di cavare il meglio possibile, almeno in termini di tensione drammatica, dalla Sinfonia n. 6 in re maggiore di Dvořák, che spreme come un limone con tutta l’esuberanza di cui è capace, estremizzando il carattere emozionale di ogni tema e inciso ma ben cucendo tutto l’insieme e scaldandolo a viva fiamma. Nessuna frammentarietà dunque, ma un’esposizione avvincente e compatta della costruzione compositiva, come compatto è l’amalgama dell’ottima Chamber Orchestra of Europe, cui Pappano chiede più densità che nitidezza, più trasporto che analiticità, nella grande pagina sinfonica come nel bis elgariano proposto in coda.

   Successo trionfale sia dopo la prima parte che a fine concerto.

29 novembre 2023

Les Contes d'Hoffmann di Michieletto alla Fenice

   La produzione de Les Contes d'Hoffmann che ha inaugurato la stagione del Teatro La Fenice è una summa dell’arte varia di Damiano Michieletto. Varia perché in questo spettacolo c’è dentro veramente di tutto, dal melodramma alla danza passando per il trasformismo e l’illusionismo, ma c’è soprattutto quell’abilità artigianale imprescindibile per dare ordine e ritmo a una partitura registica che è fantasiosa e poetica quanto la pagina di Offenbach stesso. D’altronde pochi libretti possono offrire una simile carica visionaria, che scioglie quasi completamente l’interprete dal vincolo di realtà, anzi, ne incoraggia le fantasie più sfrenate, fino a sfidare i limiti e la decenza.

Les Contes d'Hoffmann Teatro La Fenice

   È altresì vero che è proprio in questo territorio di mezzo carattere, in cui il comico addolcisce la malinconia senza disinnescarla, che Michieletto ha sempre dimostrato di saper trovare un codice personale, abbastanza scanzonato da non soffocare la leggerezza ma anche cangiante quanto necessario per blandire le ombre crepuscolari o tragiche. Tanto più che nell'occasione riesce a farlo senza spruzzarci dentro quel tocco di ruffianeria furbetta che in passato non ha lesinato e di cui, nello spettacolo veneziano, restano solo le briciole, o per meglio dire i coriandoli sbrilluccicanti.

   È uno spettacolo, questo, di cui è difficile raccontare, se non inquadrandolo per sommi capi dalla distanza come il trionfo del virtuosismo di un prestigiatore della regia capace di dare corpo e forma alle mirabolanti follie dell’opéra fantastique di Offenbach. Ci riesce plasmando immagini in cui musica e libretto trovano una realizzazione visuale che sì, in gran parte devia dai binari del testo in senso stretto, ma così facendo ne preserva la forza eversiva e, di conseguenza, la pregnanza.

   L’Hoffmann di questo spettacolo è un vecchio outsider con la debolezza dell’alcol, o forse con la necessità di anestetizzare una sfilza di cicatrici che non si sono mai rimarginate, che si trova a ripercorrere i ricordi, in parte verosimili e in parte deliranti, delle tante sconfitte che l’hanno portato a diventare quel che è. Gli episodi procedono, atto dopo atto, come in una cavalcata onirica tra le memorie degli amori passati, sempre inesorabilmente naufragati, dalla cotta tra i banchi di scuola per la prima della classe Olympia allo straziante incontro con il dolore e con la morte attraverso Antonia, qui non una cantante ma ballerina costretta a letto dalla malattia. Infine il colpo di grazia, inferto senza pietà alcuna da Giulietta, accompagnata da un carnevale di maschere mostruose in un tripudio orgiastico e, questo sì, demoniaco come solo un certo tipo di alta società sa essere. Scene da un romanzo non di formazione, ma di autodistruzione, catalizzata dai demoni radicati nell’animo stesso di Hoffmann, che l’hanno sabotato e distaccato dalla realtà un poco alla volta.

Les Contes d'Hoffmann Teatro La Fenice

   Così è a grandi linee uno spettacolo che Michieletto innaffia con un’inesauribile cascata di idee, guizzi, artifici, dettagli e fuochi d’artificio, veri e metaforici, calibrati nei tempi ad assicurare una fluidità tanto semplice all’apparenza quanto sofisticata, dimostrando una consapevolezza nella concertazione di solisti e masse che ormai ha raggiunto la piena maturità.

   Quando si nomina Damiano Michieletto, si parla tuttavia per sineddoche, perché se c’è un artista che ha fatto del lavoro di squadra una certezza granitica, questo è il regista veneziano. Al successo di una produzione di un tal livello tecnico servono delle scene come quelle di Paolo Fantin, che non sono solo “belle” di per sé, che poi non vuol dir molto, ma strategiche per garantire agilità a uno spettacolo in cui basterebbe un piccolo collo di bottiglia per grippare l’intero meccanismo, o le luci di Alessandro Carletti, determinanti nell’economia della drammaturgia stessa esattamente come i costumi di Carla Teti. O ancora le coreografie di Chiara Vecchi, che sanno assecondare il carattere più fatuo della scrittura quanto scavare nei suoi anfratti più torbidi laddove esplicitano un erotismo che è quasi sempre colto nel suo lato più grottesco.

Les Contes d'Hoffmann Teatro La Fenice

   È un peccato che una tal girandola di creatività e acrobatismo scenico, che potrebbe dettare in prima battuta i tempi e le intenzioni alla buca stessa, non entri in risonanza con la sensibilità di Frédéric Chaslin, che dal podio cosparge un velo di grigiore su tutto. Non è un cappotto plumbeo esiziale per il buon esito della performance, anche perché di fronte a Chaslin c’è l’Orchestra della Fenice che suona davvero molto bene, ma una narrazione musicale che anziché mettere “under steroids” la partitura, infiammandola in tutta la sua ricchezza di sbalzi e colori, marcia routinariamente verso la meta, preoccupandosi solo che i pezzi stiano insieme. C’è poi la questione spinosa dell’edizione adottata, su cui a onor del vero il povero Chaslin ha ben poche responsabilità, essendo subentrato al previsto Antonello Manacorda appena prima che iniziassero le prove, con tutto il materiale già aperto sui leggii. Qui lo scheletro lo fornisce la vecchia Guiraud/Choudens - con (quasi) tutte le ben note apocrifie e manomissioni del caso come la Barcarolle, il Settimino e la stretta finale dopo l'apoteosi - aggiustata qua e là con qualche pezzo pescato dalla prima edizione critica del canone, curata da Oeser negli anni Settanta, e la abolizione totale di parlati.

   Quanto al cast, c’è un Ivan Ayon Rivas nella parte del titolo che ha doti scenico-vocali ideali soprattutto per cogliere gli episodi giovanili della vita del protagonista, forte di un timbro luminoso e di un registro acuto insolente che atto dopo atto non mostra il minimo segno di fatica. Il suo inseparabile Nicklausse, che nello spettacolo diventa un bellissimo Ara ararauna che svolazza in scena, è Giuseppina Bridelli, la quale ha uno strumento delicato ma prezioso e una sensibilità espressiva che ben si sposa con il taglio cherubinesco in cui la incastona la regia.

   Alex Esposito conferma di essere semplicemente perfetto nei ruoli da satanasso, in cui il suo istrionismo può deflagrare senza inibizioni. È poi vero che l’Esposito-cantante ha ormai maturato una prodigiosa capacità di coniugare al controllo dell’emissione una chiarezza di articolazione di parola e suono, in ogni loro sfumatura e intenzione, che non si scompone neanche nelle sferzate più audaci.

   Rocío Pérez è una Olympia con tutte le giravolte vocali e i sovracuti al posto giusto, oltre che meravigliosa in scena, così come è perfettamente in parte Carmela Remigio, che sembra catapultata in una seconda giovinezza vocale tale è l’identificazione con il personaggio di Antonia e il livello di intensità drammatica che raggiunge. È invece un peccato che l’edizione scelta riduca l’atto di Giulietta a un moncherino, ridimensionando il contributo di un’artista della classe di Veronique Gens a poco più di un cameo.

   Didier Pieri è molto bravo sia nel risolvere vocalmente tutti i suoi interventi (Andrès, Cochenille, Frantz, Pitichinaccio) - in particolare il momento solistico di Frantz, qui ritratto come un maestro di danza che sprizza una gaiezza abbastanza macchiettistica, gli è valso un applauso a scena aperta - sia a connotare ognuno dei suoi personaggi, diversi nei caratteri ma accomunati da una certa propensione alla remissività.

   È solidissimo il contributo delle tante parti di fianco, dalla Musa di Paola Gardina, una Signora-Fata che dispensando l’ispirazione al protagonista cuce insieme i diversi capitoli, fino allo Spalanzani "einsteiniano" di François Piolino. Francesco Milanese è molto più che affidabile nella doppia caratterizzazione di Luther, che sembra davvero uscito da un'osteria della campagna tedesca, e Crespel, così come è impeccabile il lavoro di Yoann Dubruque (Hermann/Schlemill). Chiudono degnamente il cast Christian Collia, Nathanaël, e Federica Giansanti, la voce della madre di Antonia. Al netto di qualche piccolo scollamento, anche il Coro della Fenice preparato da Alfonso Caiani è in ottima serata.

   A fine spettacolo accoglienza trionfale per tutta la compagnia e un tributo toccante alle vittime di violenza di genere, ricordate da un paio di scarpe rosse portato sul palco.

26 novembre 2023

Note su note: Klaus Mäkelä e Stravinskij

   Se l’integrale delle Sinfonie di Sibelius con cui si era aperto il rapporto tra Decca e Klaus Mäkelä - primo direttore a firmare un contratto in esclusiva per l’etichetta britannica dai tempi di Riccardo Chailly - aveva parzialmente deluso le aspettative, probabilmente anche per via delle condizioni di distanziamento imposte durante la registrazione, il secondo tentativo va a bersaglio. Questa volta la ripresa avviene a margine di una serie di concerti e di fronte al maestro finlandese, anziché la Filarmonica di Oslo, c’è l’Orchestre de Paris, di cui Mäkelä è “directeur musical” dal 2021. È proprio l’orchestra con il suo virtuosismo la protagonista di questo Stravinskij, affrontato con una ricchezza di dizionario che rende interessante l’ennesima incisione di due brani che certo non mancano dagli scaffali dei negozi di musica, pur con uno sbilanciamento a vantaggio de Le Sacre sulla versione integrale e originale dell’Uccello di Fuoco del 1911. 

   Un’orchestra capace dunque di esprimersi estremizzando ogni risorsa espressiva sollecitata dalla strumentazione, dalla delicatezza al vigore, dalla flessibilità alla trasparenza, e altresì di esibire una brillantezza accecante, qualità che il giovanissimo Mäkelä dà prova di saper incanalare in una narrazione discorsiva, che non mira all’incisività o a marcare i contrasti, ma piuttosto alla fluidità, per certi versi alla neutralità. Il progetto inaugurato da questo primo capitolo proseguirà nella primavera del prossimo anno con la registrazione di Petrushka, cui saranno abbinati Jeux e il Prélude à l'après-midi d'un faune di Claude Debussy.


Klaus Mäkelä dirige Stravinskij DECCA


23 novembre 2023

Wiener Philharmoniker week in Japan 2023

  Nella “week in Japan 2023” che si è conclusa pochi giorni fa, i Wiener Philharmoniker non si sono certo risparmiati, tra concerti, masterclass e iniziative collaterali di formazione per giovani musicisti. Programmi diversi sui leggii a seconda delle date, sparpagliate tra Tokyo e dintorni, e la costante Tugan Sokhiev sul podio, accompagnato a giorni alterni dal jolly Lang Lang. Tuttavia chi pensasse a un evento eccezionale si sbaglierebbe di grosso. Per dare un'idea di quale sia la vivacità della proposta della Suntory Hall, che ospitava la gran parte dei concerti in calendario, basta dire che nel solo mese di novembre vi si sono avvicendate la Czech Philharmonic, l’orchestra del Concertgebouw, la Mahler Chamber e appunto i Wiener, mentre nei prossimi giorni arriveranno i Berliner Philharmoniker con Kirill Petrenko e infine la Gewandhausorchester con Andris Nelsons.

I Wiener Philharmoniker Tugan Sokhiev, Lang Lang
© Naoya Ikegami | SUNTORY HALL

  Il menù della serata di cui si racconta era affascinante per almeno due ragioni. La prima la apparecchiava proprio Lang Lang, il quale ultimamente pare abbia deciso di tuffarsi a capofitto nell’universo di Camille Saint-Saëns, cui ha dedicato il nuovo album in uscita nel 2024. Vi sarà incluso anche il Concerto per pianoforte No 2 in Sol minore, proposto proprio nella tournée giapponese, un’opera che già sulla carta rappresentava una bella scommessa da cui il pianista sarebbe potuto uscire in gloria o clamorosamente sconfitto. Il responso trionfale del pubblico non lascia dubbi sulla bontà della prova, anche se qualche distinguo è opportuno farlo.

  La scrittura si adatta perfettamente alla meccanica del Lang Lang virtuoso, che è un profluvio di morbidezza e possanza, di fluidità e controllo. Però, per non sfuggire all’infallibile adagio secondo cui ciascun musicista suona come si mostra, nel suo approccio alla pagina c'è una iperespressività onnipresente, per l’appunto la stessa che erompe dalla sua prossemica. Il fare musica di Lang Lang pare mosso dal bisogno incoercibile di rimarcare leziosamente il carattere di ogni inciso, esasperandolo senza mezze misure né pudore.

  Ci si trova così nella strana sensazione di chi è combattuto tra l’ammirazione per lo straordinario equilibrismo delle mani sulla tastiera, per la sinuosità del tocco e la sua brillantezza, per il bilanciamento dei pesi e delle dinamiche e l'irritazione per la stucchevole celebrazione estatica di ogni boccone musicale come se fosse il più gustoso che si possa mai assaporare. Per Lang Lang è tutto grandioso. Lo struggimento è grandioso, lo è la passione, il gesto, i sentimenti suscitati dalla musica sono grandiosi, mentre non sembra tenere in minima considerazione tutte quelle sfumature di partecipazione e di articolazione che concorrono a determinare il sottotesto di un'interpretazione, il non detto rimesso alla sensibilità dell'ascoltatore.

© Naoya Ikegami | SUNTORY HALL

  Due ragioni per segnare il concerto in agenda, si diceva. Va da sé che la seconda fosse Tugan Sokhiev, sia per la curiosità di ascoltarlo in una pagina che frequenta da tanto tempo come la Quinta di Prokof'ev, e che ha anche inciso ai tempi in cui guidava la Deutsches Symphonie Orchester di Berlino, sia per testare i risultati del suo incontro con i Wiener Philharmoniker, i quali notoriamente non sono sempre ben disposti ad assecondare le bacchette estrose, quasi si beassero di cannibalizzare i maestri che si trovano davanti. E Sokhiev non scampa al destino di tanti.

  Certo Sokhiev è uno straordinario virtuoso della direzione, capace di tenere in controllo ogni dettaglio della partitura, almeno se si parla di pilotaggio musicale, e questo traspare nettamente anche con certo compiacimento dello stesso direttore. La sua tempra di interprete deve però scontrarsi con l'irriducibile identità dei viennesi. Riesce a domarla e imporre la propria cifra nei momenti più esuberanti, che carica di una violenza barbarica da cavalcata nelle steppe, con ottoni ruggenti e archi gravi inquieti, ma più spesso il suo gesto musicale esplosivo viene come assorbito e disinnescato dal velluto orchestrale. C'è ben poco da eccepire sulla qualità dei Wiener, che sono la meravigliosa orchestra che tutti conoscono, tuttavia la loro propensione alla rotondità e alla morbidezza costante è come se mediasse la carica ora vitalistica, ora drammatica, del direttore, addolcendone la traduzione in suono. I Wiener Philharmoniker, prima di fare Saint-Saëns, Prokof'ev, Beethoven o Strauss, fanno se stessi, applicando a tappeto il proprio codice estetico.

  Il loro Prokof'ev è talmente denso e felpato che pare smussato, soprattutto nei passaggi che si vorrebbero articolati con maggior irruenza ma che in fondo si stemperano nell’amalgama per certi versi “antico”, in un'epoca in cui va più di moda la trasparenza, dell'orchestra. Ne esce dunque una Quinta straordinariamente compatta e impastata nelle sonorità, e quindi poco incline all’analiticità, ma altresì levigata a tal punto da avere un'impronta molto più viennese che sokhieviana.

  Quel che è certo è che il pubblico di Tokyo ha gradito e accolto trionfalmente i musicisti, i quali si sono congedati solo dopo due bis mentre per Sokhiev le chiamate alla ribalta sono proseguite anche quando i professori d'orchestra avevano ormai abbandonato il palcoscenico.

© Naoya Ikegami | SUNTORY HALL


8 novembre 2023

Il Pelléas et Mélisande di Iván Fischer all'Olimpico

  C'è un'impronta naturalistica nel fare musica di Iván Fischer, una neutralità descrittiva che non tradisce anaffettività né freddezza, ma la rinuncia a caricare l'esecuzione di qualsiasi sovrastruttura. Nessuna affiliazione a scuole esegetiche immediatamente riconoscibili, men che meno pose da intellettuale del podio alla ricerca della rivelazione epocale. Il suo affetto genuino per l'arte traspare sin dal gesto, così essenziale e anti-barocco, un gesto che accompagna, guida e suggerisce senza cavillare inutilmente né rimarcare gli afflati espressivi, senza calcare le tinte o spiattellare gli snodi emotivamente più carichi.

Il Pelléas et Mélisande di Iván Fischer all'Olimpico di Vicenza
Pelléas et Mélisande, Vicenza Colorfoto

  Ormai il Vicenza Opera Festival inizia ad avere qualche anno, abbastanza per validarne la resistenza anche allo stress test di periodi complicati, cosa non scontata per una rassegna realizzata intorno a gruppo di musicisti in trasferta con ambizioni tutt'altro che dimesse. Dopo un paio di cartelloni in tono minore, il Pelléas et Mélisande di questo autunno rialza l'asticella, sia per lo sforzo dimensionale di un titolo del genere, sia perché l'approdo del direttore e della sua Budapest Festival Orchestra all’opera è per molti versi illuminante. Non è il classico Pelléas "francesino", diafano e ventoso, ma la traduzione del testo di Debussy nell'idioma di un’orchestra con una forte connotazione timbrico-espressiva che non snatura se stessa per modellarsi sulla tradizione interpretativa.

  C'è dunque un'identità di base che parte dal suono intrinseco dell’orchestra, Fischer tuttavia non cerca di trascinare Debussy da nessuna parte. Non lo scaraventa nelle temperie novecentesche, vivisezionandolo e aguzzandone gli spigoli, e nemmeno lo liricizza come a potabilizzare una scrittura a favore del suo lato più sentimentale, ma lo svela, financo nelle insospettabili accensioni brutali che sì, ci sono e sono scritte nero su bianco, anche se quasi sempre si stemperano nell’atmosfera rarefatta delle concertazioni ipertrasparenti e “garbate” di prassi. E che questo lato lato sanguigno sia lì, in attesa di prorompere, lo dimostra la naturalezza con cui sgorga della partitura appena sollecitato, sia pure con una piccola marcatura di un accento dei contrabbassi.

  Co-firmando anche la regia dello spettacolo in comunione con Marco Gandini, si può dire che almeno nelle intenzioni l'approccio di Fischer alla parte extra-musicale non sia dissimile: inizia dal testo e al testo rimane, senza sofisticarlo. Quel che cambia è il mestiere. Se il Fischer musicista è un ipervirtuoso, anzi, un genio, il Fischer regista è poco più che un dilettante. Certo, deve fare i conti con la scenotecnica di un teatro che non ha praticamente niente di quel che serve per mettere in scena una produzione operistica moderna; il problema è che il team registico non pensa uno spettacolo a misura dell'Olimpico, sfruttandone le peculiarità uniche, ma adatta qualcosa che assomiglia a uno spettacolo canonico ai limiti dell’Olimpico.

  L'orchestra se ne sta sul palco, sparpagliata e camuffata in buffe toghe verdi in mezzo a un groviglio di tronchi e rami che lo ricoprono per intero a riprodurre gli intrecci di una foresta mentre un paio di piccole pedane recintate accolgono le scene al chiuso. Quel che ne esita è uno spettacolo didascalico e quasi ingenuo, che però ha almeno due pregi. Innanzitutto riallaccia il filo con un modo di fare teatro antico che, se perseguito con maggior consapevolezza, avrebbe anche potuto avere cittadinanza in uno spazio simile. Il secondo è che questa regia un po’ naïf lascia trasparire - il come è un mistero - i tratti più disturbanti della pièce. Tutti quei sottili e meno sottili abusi psicologici reciproci, talvolta fisici, le ombre umorali dei personaggi, il clima profondamente malato e tossico di Allemonde in qualche modo escono fuori, a momenti persino con una forza sorprendente. Questi personaggi sbozzati sommariamente riescono a instaurare una connessione con il pubblico, magari non stimolandone l’empatia ma il suo esatto contrario, talvolta il riso involontario, insomma una reazione autentica che diviene palpabile nel lungo silenzio che segue l'ultimo accordo dell'opera.

  È affascinante sotto questo punto di vista la resa di Patricia Petibon, una Mélisande ben cantata ancorché leziosa all’inverosimile, ma epidermicamente odiosa nella sua violenza passivo-aggressiva. Bernhard Richter è un Pelléas un po’ bamboccione e dunque non particolarmente interessante, con i pregi e i difetti dei tenori (nel caso specifico un buon tenore, non un fenomeno) che affrontano la parte: facilità in alto e qualche patimento nell’ottava grave. È invece colossale il Golaud di Tassis Christoyannis, che canta da dio e soprattutto racconta un personaggio che muta continuamente, attraversato e perturbato da qualsiasi emozione dello spettro umano. Franz-Josef Selig è un Arkël dallo strumento maestoso e ben sbalzato tra tenerezza, paternalismo e spregevoli istinti da vecchio bavoso. Prezioso il cameo di Yvonne Naef come Geneviève. Yniold è il dodicenne Oliver Michaele, molto bravo, mentre Peter Harvey si disimpegna negli interventi del medico.

Resta da dire della Budapest Festival Orchestra che è al solito prodigiosa per esattezza esecutiva, pulizia, equilibri interni, “sincronismo”, morbidezza e colore sia d’insieme sia negli interventi dei soli, anche nella curiosa disposizione imposta dalle contingenze, con ottoni e percussioni nascosti in fondo alla scena dietro a una fitta boscaglia.

  Successo molto convinto ma frettoloso a fine recita.

La Bohème al Teatro Del Monaco di Treviso

  A fine recita si ha la sensazione che La Bohème coprodotta tra Stabile del Veneto e Sociale di Rovigo, che dopo aver debuttato a Padova è arrivata al Teatro Mario Del Monaco di Treviso per l'inaugurazione della stagione operistica, avrebbe potuto regalare soddisfazioni ben maggiori. Non che si parli di uno spettacolo spiacevole, ma diseguale e azzoppato da un problema capitale alla radice: la mancanza diffusa di pragmatismo. Il che sorprende quando riguarda un uomo di teatro esperto come Bepi Morassi, che pure monta uno spettacolo dalla regia tradizionalmente solida, molto “sua” anche nelle trovate, talvolta simpatiche, talvolta non freschissime, e nell’uso della platea per allargare il campo di gioco. Però è uno spettacolo vincolato a un impianto scenico che fa di tutto per complicare la vita ai cantanti, poiché si svolge quasi interamente su uno scheletro metallico (disegnato da Fabio Carpene e ben illuminato dalla giovane Jenny Cappelloni, al suo debutto).

La Bohème al Teatro Del Monaco di Treviso
foto Marino Bilato

  L'impalcatura rimanda a una sorta di polifunzionale metropolitano dove alloggi di fortuna si mescolano con attività varie e in cui ci si arrabatta alla meglio. In un contesto più omogeneo, e magari completamente “moderno”, l'ambientazione potrebbe anche avere una sua pregnanza e rendere quel senso di precarietà e di vita alla giornata dei bohémien, ci sono però due problemi. Il primo è che il ponteggio tiene i cantanti lontani dal boccascena e dalla buca stessa, che infatti spesso parte per la tangente, e che complica sia i movimenti dei solisti sia l’espansione delle voci in sala. C’è poi uno strano strabismo estetico-temporale per cui costumi e scene danno l’impressione di essere accostati senza una gran coerenza, con i primi che rimandano al passato più o meno remoto e lo sfondo da ambiente urbano contemporaneo, con qualche spruzzata retrò soprattutto nel quadro di Momus. Al netto degli impacci, Morassi fa la sua Bohème che è sì d’impronta tradizionale ma non statica, con dovizia di controscene a riempire i vuoti e non senza dettagli, aiutato da un cast ideale, se non altro per questioni anagrafiche, per la sospensione dell’incredulità.

  Nell'occasione un po' di sana praticaccia del mestiere sembra mancare anche a Alvise Casellati, che non fa molto per aiutare il palco, né adeguando il fraseggio strumentale al respiro melodico, né dimensionando i volumi in modo che l'orchestra non soverchi le voci, cosa che succede grossomodo per tre quarti del tempo. Peccato perché l’Orchestra di Padova e del Veneto è in buona serata ed esprime una compattezza e una omogeneità che avrebbero potuto essere più variamente modellate.

  L’indolenza della direzione ovviamente si ripercuote sui solisti, che vivono sulle spine, senza sapere mai con certezza quando attaccare o se il fiato sarà accomodato, sostenuto o spezzato a metà. La situazione è abbastanza problematica nel primo quadro, con voci e buca che marciano su rette parallele, ma va migliorando in corso d'opera. Quanto ai protagonisti, Claudia Pavone ha il timbro, la sicurezza tecnica e la dolcezza necessari per tratteggiare una Mimì che ha nella spontaneità il suo punto forte, oltre a uno strumento ormai abbastanza maturo per reggere la scrittura a ogni altezza e affrontare i marosi orchestrali. Subentrato al previsto Stephen Costello, che ha dovuto abbandonare la produzione prima del debutto, firma una buona prova Davide Tuscano, giovane tenore che può vantare un bel colore solare e volume notevole, cui resta ancora da limare qualche dettaglio nel passaggio e negli acuti per compiere il definitivo salto di qualità.

  È una bellissima sorpresa la Musetta di Giulia Mazzola, che ha verve, tecnica, temperamento e squillo in tutta l'estensione. Il Marcello di Jorge Nelson Martínez si segnala soprattutto per la baldanza del materiale vocale mentre Alejandro López, Colline, dà l'impressione di cantare ancora troppo di natura - una natura generosa, va detto - anziché di tecnica e arriva stanco alla Zimarra. Eccellente sia sul piano scenico che vocale lo Schaunard di William Hernandez, che sarebbe interessante riascoltare in una parte più impegnativa. Positivo il contributo delle tante parti di fianco, a partire da Enrico Di Geronimo che ben si sforza di non calcare la mano sul lato più macchiettistico di Benoît e Alcindoro. È al pari convincente la prova del Coro di Voci Bianche A.LI.VE. preparato da Paolo Facincani e del Coro Lirico Veneto guidato da Giuliano Fracasso, che per altro cantano buona parte dei rispettivi interventi dalla platea, dimostrando totale affidabilità.


   A fine recita successo caloroso e prolungato per tutta la compagnia.

2 novembre 2023

Alla Fenice tornano i due Foscari

  La più veneziana delle opere di Verdi non entrava nel cartellone del Teatro La Fenice dal 1977. È dunque un peccato che un lavoro geniale ma ancora un po’ acerbo come I due Foscari, in cui, al netto di una costruzione drammaturgica disorganica, basterebbe sforzarsi di scavare un po’ per trovare risvolti intriganti, vada in scena senza una regia vera e propria. Sì perché quel che Grischa Asagaroff realizza concretamente è poco più di una distribuzione scolastica del traffico di palcoscenico. Le arie, che sono tante e distribuite in modo tale da rendere la vita assai complicata anche a un regista ben più motivato, danno la sensazione del classico concerto in costume e anche le scene corali si risolvono nell’occupazione immobile degli spazi vuoti di coro e solisti, al cui buon cuore è demandato quel poco di autentica recitazione che si può apprezzare in mezzo al solito gesticolare più o meno stereotipato.

i due Foscari al Teatro La Fenice

  Inutile dire che il dramma pubblico e umano dei Foscari esca anestetizzato da tanta inedia e che ne patisca Verdi stesso, che in quest'opera per molti versi sperimentale introduce quel motivo che diventerà ricorrente (Aida, Don Carlos) di un potere superiore che sovrasta e domina il Re, la cui intangibilità dovrebbe incutere terrore e invece scivola via come fosse un giochetto da House of Cards.

  Non riscattano la pochezza di idee né i costumi d'epoca di Luigi Perego (in alcuni numeri molto belli, in altri no), che assolvono alla funzione di identificare i caratteri, né una scenografia non all'altezza per modestia realizzativa e farraginosità. La “ricostruzione” della Venezia storica si riduce a un parallelepipedo centrale dalle facce laterali diversamente decorate che ruotando (a fatica) cambia di volta in volta lo sfondo, talora con il contributo di proiezioni di rara bruttezza del Leone di San Marco. Poco, pochissimo anche per uno spettacolo incardinato nella tradizione più sonnacchiosa.

  Chi invece conosce e capisce a fondo Verdi è Sebastiano Rolli, il quale accompagna e concerta con sapienza, cosa che in questo repertorio specifico ancor più che altrove significa valorizzare le soluzioni espressive e timbriche in modo che la musica guidi la narrazione e ne magnifichi gli sviluppi drammatici (e che ci riesca appare evidente già dal bilanciamento così centrato del dialogo tra clarinetto e archi e nell’introduzione alla prima aria del tenore), perfettamente assecondato dall’orchestra di casa, che è in ottima serata sotto ogni punto di vista. 

  Quanto ai cantanti, il trionfatore della serata è Luca Salsi, che ormai domina ogni sillaba della parte di Francesco Foscari e la rifinisce con il colore e l'accento dosati al punto giusto per esaltarne la pregnanza teatrale, in un canto che è sempre (o quasi) morbido e timbrato ma soprattutto incisivo, dalla sortita a un terzo atto maiuscolo.

  Anastasia Bartoli trova in Lucrezia Contarini una parte che, battendo principalmente sull'ottava acuta, si sposa bene con le sue qualità. Ne regge la scrittura massacrante sia dal punto di vista muscolare che musicale, che è già dir molto, al netto di qualche forzatura incidentale negli estremi acuti; quel che ancora manca è uno scavo più approfondito della parola e una maggior varietà di dinamica, che tende quasi sempre a scivolare verso diverse declinazioni di forte.

  Francesco Meli non è invece nella migliore delle sue serate. Dopo un primo atto faticoso, in cui la voce dà l'impressione di non essere ancora a temperatura, va migliorando, ma incespica in qualche incidente di percorso che riesce a dribblare dando fondo ai trucchi di un mestiere consumato, ma senza mai dare la sensazione di essere in pieno controllo. Ottimo l'apporto delle parti di contorno, dal bieco Loredano di Riccardo Fassi, che si conferma tra i bassi più dotati della nuova generazione, al Barbarigo di Marcello Nardis, l’unico del Consiglio - un formicaio di togati disumanizzati - che sembra porsi scrupoli morali. Completano il cast Carlotta Vichi (Pisana), Alessandro Vannucci (un fante del Consiglio dei Dieci) e Antonio Casagrande (un servo del doge). In buona serata anche il coro preparato da Alfonso Caiani.

  A fine recita successo calorosissimo per tutta la compagnia con punte di entusiasmo per  Anastasia Bartoli e Luca Salsi.


1 novembre 2023

Musica degenerata a Pordenone

  Nel guestbook del Teatro Verdi di Pordenone, che nel corso delle ultime stagioni si è fatto sempre più polposo, mancava ancora il nome di Iván Fischer. Quale migliore occasione del soggiorno prolungato in Italia del direttore, che dopo una manciata di concerti romani da giovedì sarà impegnato nel Vicenza Opera Festival, per proporre uno dei musicisti più apprezzati e influenti della scena a un pubblico che ormai ha affinato il palato, tanto più per un’occasione speciale come l’inaugurazione della stagione musicale, la prima firmata dal nuovo “consulente artistico” Roberto Prosseda, che ha da poco raccolto la pesante eredità di Maurizio Baglini.

  Difficile immaginare un musicista eclettico e onnivoro come Iván Fischer, capace di passare, magari non sempre mantenendo non lo stesso livello di pregnanza ma uguale magistero, da Monteverdi alla musica contemporanea con tutto quello che c’è nel mezzo. È altresì frequente che Fischer spesso proponga, accanto ai classici canonizzati del repertorio, programmi antologici che scardinano la comune accezione del concerto, non di rado infondendovi un personalissimo tocco di ironia.

  Se non è un programma scanzonato - e non lo è - sicuramente il viaggio nella musica proibita del Terzo Reich sfugge agli schemi del cartellone togato, allargando lo sguardo anche verso una produzione dai tratti forse più disimpegnati e leggeri, sicuramente sperimentali. Certo non è una frivolezza inconsapevole né ingenua, ma sapientemente orchestrata e per molti versi talmente innovativa e tellurica, se rapportata all’epoca di composizione, da far tremare i custodi della heil’ge deutsche Kunst che su quel modello speravano di impostare e propagandare l’identità di un popolo intero.

  La lente di Fischer si è soffermata su quattro dei tanti nomi banditi con l’accusa di creare Entartete Musik, definizione cappelllo sotto cui si raccoglie la produzione di autori invisi al regime nazista per una serie di motivi che vanno da una presunta dissolutezza estetico-formale, etichetta buona per bollare tutto ciò che era ritenuto non conforme alla tradizione postromantica germanica, fino a squallide questioni politico-razziali. Il programma dà giustamente spazio a diverse declinazioni di “degenerazione”, dalla Suite Nr. 2 op. 24 di Hanns Eisler (dalla colonna sonora del film Niemandsland del 1931), con il suo carattere leggero e cabarettistico, al più serioso Der Schwanendreher, concerto per viola e orchestra che probabilmente non è il lavoro più ispirato di Paul Hindemith e pecca di disomogeneità, ma trova in Maxim Rysanov un interprete capace di esaltarne i momenti più intimi e distesi, producendosi in sonorità dalla morbidezza prodigiosa, quanto i passaggi più tesi e scorbutici.

  Ci sono profumi jazzistici e di ragtime anche nella Suite per orchestra da camera op. 37 di Erwin Schulhoff quanto nella selezione di brani di Kurt Weill che hanno chiuso la serata, alcuni dei quali affidati alla cantante Nora Fischer, figlia d’arte, la quale non ha qualità vocali da strapparsi i capelli ma si destreggia in una scrittura che mescola canto, recitazione e sbalzi d’estensione scomodissimi con un notevole impegno espressivo e buon carisma scenico.

  Sul palco, accanto al direttore, c’è la solita Budapest Festival Orchestra, che in organico ridotto non perde di “peso” né consistenza ma guadagna ulteriormente di virtuosismo e, forse sorprendentemente, dimostra un’idiomaticità insospettabile per il repertorio specifico. Lo swing, il senso ballante del ritmo, i colori ora graffianti ora notturni sono sempre quelli giusti, con un comparto di fiati sensazionale.

  Successo caloroso per tutti a fine serata. Il concerto sarà replicato sabato 28 al Teatro Olimpico di Vicenza nell’ambito del Vicenza Opera Festival.

8 ottobre 2023

Ukiyo, al Festival Cristofori arriva Mao Fujita

  Come suggerisce il claim “Ukiyo – Il pianoforte del Sol Levante”, c'è molto Giappone quest'anno al Festival Pianistico Internazionale Bartolomeo Cristofori, rassegna padovana di fine estate dedicata al pianoforte e al suo inventore, che per la sua sesta edizione ha concentrato il focus sulle connessioni tra strumento e tradizione musicale nipponica. Accanto all’artista in residenza e nome forte del cartellone Mao Fujita, ventiquattrenne medaglia d’argento al concorso Cajkovskij nel 2019 e da allora in grande ascesa internazionale, dall’apertura all’appuntamento conclusivo del 26 settembre il Cristofori ospita la fortepianista Keiko Shichijo, la pianista Chisato Taniguchi, Kyohei Sorita con la Japan National Orchestra e il violinista Seiji Okamoto, accanto a una serie di appuntamenti eterogenei che vanno dalla divulgazione all'approfondimento oltre, ovviamente, a tanta musica dal vivo.

  Ed è stato proprio Mao Fujita ad aprire, nel primo dei suoi tre appuntamenti in calendario, il programma del festival nel concerto inaugurale al Teatro Verdi. Il quale Fujita è quel che si può definire un artista sorprendente, nel vero senso del termine. Al di là della pulizia, della brillantezza del tocco e del garbo con cui solletica la tastiera, che sono qualità condivise seppur con diversi di gradi purezza da qualsiasi buon solista al mondo, il pianista giapponese ha il dono di stupire, anche in una pagina stranota come il Concerto in la minore di Schumann. Non perché si inventi cose strambe o per un’eccentricità forzata, ma per la capacità di sbalzare di quel poco l’articolazione come a inventare un’espressione musicale che è del tutto personale e spontanea. Non sempre, va detto. Fujita non è ancora inappuntabile né in grado di mantenere la tensione massima per tutto lo sviluppo del brano e lo stesso livello di originalità e profondità in ogni battuta, ma di scovare intuizioni fulminanti, dettagli rivelatori, momenti stranianti, questo sì. Ci riesce ad esempio quando alla seconda ripresa del tema di Florestano nel primo movimento lo porge squisitamente al clarinetto, che recepisce al meglio, o quando nell’Allegro vivace ripercorre le medesime cellule cambiando di quel poco la tensione di legato e staccato in modo da vivificare in un istante la musica, come dandole tridimensionalità.

  Fujita è inoltre un solista che sa ascoltare e appoggiarsi all’orchestra che lo accompagna, nel caso specifico l’Orchestra di Padova e del Veneto ben condotta da Wolfram Christ, storica viola dei Berliner Philharmoniker e solidissima bacchetta, cui è totalmente affidata la seconda parte di concerto che prevede il Trittico per archi di Yasushi Akutagawa - tanto per restare in Giappone - e l’Italiana di Felix Mendelssohn-Bartholdy. Non si differenzia granché l’approccio del direttore ai due lavori, sempre quadrato e pragmatico, un po’ come il suo gesto. Narrazione serrata, pochi fronzoli e tanta attenzione alla concertazione, che è ben equilibrata a dispetto dell’acustica scomoda della sala e di una precisione che, se è pressoché inappuntabile nei fiati, talvolta scivola via agli archi.

  Biglietti pressoché esauriti e gran successo di pubblico.

20 settembre 2023

Cavalleria veneziana al Teatro La Fenice

  Quale fosse l’indirizzo della nuova Cavalleria rusticana proposta dal Teatro Fenice lo si poteva indovinare con buona approssimazione ben prima che uscissero le foto di scena, semplicemente scorrendo la locandina. Un regista esperto capace di spremere a fondo le risorse a disposizione come Italo Nunziata e un direttore che rientra nel club degli epigoni della scuola italiana a coordinare un progetto “fatto in casa” che coinvolge, oltre alle maestranze del teatro, anche i giovani dell’Accademia di Belle Arti.

Cavalleria veneziana al Teatro La Fenice

  Che ne uscisse una produzione più conservativa che sperimentale era nell'ordine delle cose. Eppure la tradizione rispolverata da Italo Nunziata - e dagli allievi della Scuola di Scenografia e Costume per lo Spettacolo dell’Accademia di Belle Arti che realizzano scene e costumi - non puzza di stantio e, nella linearità di una narrazione sobria ma ben condotta, si sviluppa con semplicità ma non senza raffinatezza. La Sicilia “tornatoriana” ricostruita dalle scene incastona il racconto in un ambiente rurale che pare imbalsamato in un passato remoto che si ripete ciclicamente, soffocante nella sua ritualità rigidamente codificata. In tal senso rende un ottimo servizio all’impostazione la versatilità dell'impianto scenotecnico che riproduce un piccolo borgo logorato dal tempo. Un disegno semplice sì, con tre pannelli che ruotano cambiando i contorni dello spazio in pochi secondi, ma abbastanza dinamico e vario da assicurare la giusta scorrevolezza al racconto.

  Si incanala nella tradizione anche la direzione di Donato Renzetti, una tradizione in questo caso più compassata e sbrigativa. Renzetti concerta con mestiere e ottiene un bel suono equilibrato e compatto dall'Orchestra della Fenice, ma senza sfruttarne a fondo l'ampiezza delle dinamiche e il potenziale espressivo e patendo qualche scollamento col palcoscenico. Problema che emerge soprattutto nella comunicazione con il coro preparato da Alfonso Caiani, in buona serata, che non è sempre al passo della buca.

  Molto buona la prova di Jean-François Borras, un Turiddu dal timbro e dal peso sostanzialmente lirici ma completamente risolto nel canto, senza forzature, effettacci né segni di cedimento. Silvia Beltrami in certi punti patisce il peso della scrittura di Santuzza, parte breve ma infida come poche, ma non affonda, anzi, firma una prova in crescendo dal punto di vista musicale e convincente nella caratterizzazione del suo personaggio che, in fin dei conti, tra impulsi vili e sensi di colpa è il più interessante dell’opera.

  Dalibor Jenis fa un Alfio senza particolari sfumature, ostentando a pieni polmoni la sua bella voce sana e di buon volume. Chiudono il cast Anna Malavasi, che si destreggia con onore nella parte di Mamma Lucia, e l’ottima Martina Belli, il genere di Lola che nessuna Santuzza vorrebbe mai avere come rivale.

  Successo caloroso per tutta la compagnia.

8 settembre 2023

Jakub Hrůša Gustav Mahler (Jugendorchester)

  La residenza della Gustav Mahler Jugendorchester al Teatro Verdi di Pordenone si arricchisce di un nuovo capitolo, anzi due. Il primo è d’attualità e segue di poche settimane il concerto diretto da Daniele Gatti che ha aperto la tournée primaverile, proseguendo sul filone mahleriano con la Nona Sinfonia in re maggiore. Il secondo è ancora sulla carta ma fresco di annuncio e promette meraviglie: nella primavera del 2024 a preparare l’orchestra nella cittadina friulana in vista dei concerti di giugno ci sarà nientemeno che Kirill Petrenko. In programma la Quinta di Bruckner, sei repliche tra Italia e Spagna.

  Il presente ha invece un altro protagonista, Jakub Hrůša, quarantaduenne direttore ceco impegnato in un tour (de force) di fine estate che dopo un paio di tappe italiane proseguirà a Salisburgo, Dresda, Berlino, Amburgo e al Rheingau Musik Festival, prima di concludersi al Concertgebouw di Amsterdam. Programma unico e stremante che per altro torna ciclicamente nei leggii dell’orchestra, che proprio pochi anni fa offrì a Philippe Jordan tutta la sua energia per una lettura dall’urgenza urticante della stessa sinfonia.

  Il punto di vista di Jakub Hrůša è forse più estremo e disomogeneo, non di meno affascinante, e sicuramente coraggioso. Perché coraggioso? Perché enunciare ogni elemento strutturale enfatizzandone i contrasti, le deformità o la delicatezza, da un lato esalta alla massima potenza la fantasia compositiva ma dall’altro pone dei problemi di fluidità e continuità che gli approcci a Mahler più smussati scansano astutamente.

  D’altronde se c’è una ragione per la quale continuiamo a suonare e ascoltare pagine scritte secoli addietro è proprio la speranza di andarci ogni volta più a fondo, di fare quel passo in più verso l’ignoto, a costo - e non è questo il caso - di prendere delle cantonate clamorose. Hrůša non deraglia ma osa, prova a sfidare il limite con i rischi che ne conseguono. Scomponendo la cattedrale mahleriana pezzo per pezzo pecca talora di astrazione, laddove l’interesse per il particolare dà la sensazione di prevalere sulla visione globale, ma rende altresì lampante la totale appartenenza della sinfonia al Novecento.

  È un approccio, se non disorganico, iper-analitico, che si stempera solo nell’Adagio finale, anzi, che nell’Adagio pare riconciliarsi con una civiltà musicale antica e morente, quasi in un gesto di resa dopo un percorso di ricerca tortuoso e tormentato che si infrange contro il muro del terzo movimento. Ne esalta la compattezza strutturale la qualità del suono prodotto da una GMJO capace di rimodellarsi continuamente in infinite sfumature di fortissimo e di pianissimo, ma anche di colori, dall’attacco brunito, carico di pathos, fino alle battute finali appena alitate. Tutto preservando un unico, infrangibile arco di legato. Serve ancora un po’ di rodaggio invece per il primo movimento e, a decrescere, per quelli centrali, che a tratti danno l’impressione di essere un meraviglioso cantiere aperto. Se i passaggi più accesi riescono fulminanti nella loro spigolosità, quando l’orchestra deve distendersi per mettersi a nudo emergono delle piccole incrinature nella struttura del suono e soprattutto una certa qual mancanza di “consequenzialità” nelle transizioni. Dettagli che una simile direzione può ottenere solo tramite una responsività estrema dell’orchestra e quindi con tanta pratica e reciproca conoscenza. Le qualità viceversa emergono in modo straripante nei passaggi in cui il virtuosismo è più manifesto (su tutti la chiusa del Rondo-Burleske), che la GMJO non solo regge, ma si beve con una facilità irridente

  Insomma non è ancora una Nona perfetta, ma potrebbe diventarlo nelle prossime repliche. Quel che è certo è che Jakub Hrůša si sforza di comprendere Mahler nel profondo, di addentrarsi nei suoi crucci compositivi seguendone i mille rivoli e di portare l’ascoltatore con sé. Non sempre ma in molti casi ci riesce, soprattutto allorché svela impasti e dettagli inauditi, talvolta anche scorbutici, o dà rilievo alle asperità e agli eccessi grotteschi, come a farne delle caricature sardoniche che pur non vanno mai a sbavare la pulizia della concertazione.

  E qui si parla dell'orchestra, sempre nuova ma sempre uguale a se stessa anno dopo anno nella densità e nel calore del suono, sempre generosa e vitalistica, sempre immersa nella musica e nel presente. Se c’è un’orchestra da cui, tra tanti alti e qualche serata meno luminosa, non ho mai ascoltato una sola battuta in odore di routine, questa è la Gustav Mahler Jugendorchester. Non stupisce poi che dalla selezione minuziosa dei membri escano prime parti di tale valore. Sarebbe scontato citare l’ottimo violino di spalla (Kurt Mitterfellner, vent’anni ancora da compiere) o il primo violoncello Lucia Molinari, così “giusta” nel centrare il carattere di ogni suo inciso scoperto, ma ci sono anche legni eccellenti e un primo corno capace di cavare dall’ottone colori ora notturni, ora abbaglianti, Antonn Descamps.

  A fine concerto successo trionfale per tutti.

8 luglio 2023

Der fliegende Holländer alla Fenice

  Scorrendo le note di Franco Rossi nel programma di sala, sorprende scoprire che Der fliegende Holländer abbia debuttato al Teatro La Fenice solo nel 1961, ma è soprattutto la locandina di allora a catturare l'attenzione. La regia era di Wieland Wagner, il geniale nipotino che in quegli anni stava rivoluzionando la storia esecutiva del canone e probabilmente dell’opera in senso lato con la sua “neue Bayreuth”, e il cast infilava una serie di stelle da strabuzzare gli occhi: George London nei panni del protagonista, Gré Brouwenstijn in quelli di Senta, Josef Greindl e Fritz Uhl. Sul podio saliva nientemeno che André Cluytens. Lo spettacolo di Wieland sarebbe tornato nelle uniche due occasioni in cui l’opera è stata riproposta a Venezia: nel 1972, quando a riprendere la regia fu chiamato l’Heldentenor più glorioso della sua generazione, Wolfgang Windgassen, e nel 1995.


  Difficile immaginare che la nuova produzione del Olandese Volante lasci un segno altrettanto profondo nella storia del teatro, anche se qualcosa di interessante da dire ce l’ha. Marcin Lakomicki, polacco di nascita ma attivo prevalentemente in Germania, firma uno spettacolo in odore di Regietheater, anche se di Regietheater all’acqua di rose si tratta, il che implica due cose. La prima è che va messo in preventivo che una fetta del pubblico non gradisca, infatti a fine recita sono arrivati puntuali come le tasse i fischi del loggione. La seconda è che uno spettacolo impostato in questo modo richiede uno sforzo di decifrazione che non necessariamente tutti hanno voglia di fare e che soprattutto andrebbe “guidato” con maggiore argutezza.

  Andando con ordine, il primo atto è interlocutorio poiché dà la sensazione di essere l'ennesima rimasticazione in salsa moderna-ma-non-troppo della tradizione. Dietro a una scena tetra e spoglia dominata dallo scheletro di un vascello, in cui i personaggi si muovono con rivedibile fluidità, si staglia una scogliera nemmeno troppo ben realizzata. Il tutto è condito da tinte cupe, luci soffuse (di Irene Selka) a ombreggiare coro e comparse per farne delle sagome spettrali nella burrasca, oltre al solito vecchio gioco dei doppi affidati a dei figuranti. Perché l'Olandese si sdoppi in cloni è francamente difficile da comprendere, almeno finché in scena compare Senta, anche lei duplicata da una “replicante” mentre sciorina le strofe della ballata.

  Il senso dei doppi lo si inizia a comprendere quando lei e lui si incontrano e cantano uno dei duetti più appassionati della produzione wagneriana e lo fanno non solo senza sfiorarsi, ma nemmeno guardarsi. Da qui in avanti il regista costruisce una sorta di ménage a quattro in cui ciascuno si innamora non dell'altro in sé ma in quanto proiezione dei propri desideri. Lo straniero che crede di amare la donna capace di liberarlo dal tormento eterno, lei quella figura leggendaria su cui ha fantasticato sin da bambina ascoltandone i racconti.

  Però qui arrivano i problemi. Nel terzo atto, pur continuando a sviluppare coerentemente la relazione illusoria tra Senta e l'Olandese, Lakomicki perde la bussola del pragmatismo e affolla il palco di personaggi, originali e sdoppiati, creando disorientamento negli occhi di chiunque cerchi di seguire le tante diramazioni relazionali della scena per capirci qualcosa. 

  Se c'è una cosa che un regista che sceglie di "giocare" con il teatro in questo modo deve saper fare bene, è veicolare un messaggio chiaro e potente in one shot. Il che non significa semplificare o banalizzare, ma rendere fruibili i diversi livelli a cui si intende comunicare, o almeno quelli più significativi. Mentre lo spettatore si scervella per comprendere perché un personaggio interagisca con quell’altro, o con il suo doppio, o quale sia il ruolo del manipolo di spose-prigioniere che l’Olandese si porta appresso e che tessono in qualche modo i fili della vicenda, l’opera scorre senza un tasto rewind che permetta di richiamare uno dei tanti dettagli scorsi contemporaneamente, accumulando smarrimento su smarrimento.

  Le scene stilizzate e fortemente anti-naturalistiche di Leonie Wolf non sono esteticamente indimenticabili ma assolvono al proposito di realizzare un ambiente che si fa via via, atto dopo atto, sempre più astratto.

  Quanto alla musica, l’impressione è quella della classica produzione che andrà migliorando di recita in recita. All'orchestra manca ancora un po' di rodaggio sia in termini di bilanciamento della concertazione, che è sempre difficile da centrare quando sui leggii c'è Wagner col suo modo così peculiare di orchestrare, sia per quanto riguarda la precisione vera e propria, che non è quella dei giorni migliori. Per il resto Markus Stenz adotta tempi tendenzialmente svelti, non sbalza dinamiche e colori con troppa convinzione ma tiene insieme tutto il castello senza che crolli. In due parole, buona routine.

  Samuel Youn è un protagonista che in “melomanese” si potrebbe definire vociferante. Ha sì una canna robusta e tanto volume ma tende e declamare (e anche a recitare) con un'enfasi eccessiva che lo porta spesso a forzare e a sporcare l’intonazione. Anja Kampe è una wagneriana di lungo corso e si sente, nel bene e nel meno bene. Ha una padronanza di fraseggio e dinamica da artista di razza, oltre a un peso e un’omogeneità timbrica ancora invidiabili, d’altro canto si sentono gli effetti del chilometraggio sulla freschezza della voce, sia nelle entrate del fiato, che a strumento freddo non sono pulitissime, sia negli estremi acuti, che escono eufemisticamente arrembanti. Il vero limite di questa Senta tuttavia non sono le note stiracchiate ma la mancanza di tutto il côté adolescenziale che il personaggio, per riuscire davvero credibile, dovrebbe avere.

  Franz-Josef Selig è un eccellente Daland sia per cavata di strumento che per eloquenza, che poi significa evitare di dare un taglio monodimensionale al personaggio, Toby Spence un Erik che alterna buoni momenti a qualche stimbratura di troppo nell’aria che prelude al finale. Molto positivo il contributo di Annely Peebo, Mary, e del Timoniere di Leonardo Cortellazzi, che si disimpegna in modo eccellente nella sua canzone.

  Buona anche la prova, soprattutto per quanto riguarda le voci femminili, del coro, o per meglio dire dei cori, visto che quello di casa (diretto da Alfonso Caiani) è rimpinguato dal Coro Taras Shevchenko della National Academic Opera and Ballet Theatre of Ukraine preparato da Bogdan Plish. Non è felicissima invece l’idea di smezzare l’opera con un intervallo dopo il primo atto.

  Buon successo per tutta la compagnia a fine recita, con punte di entusiasmo per Anja Kampe e Markus Stenz e qualche contestazione per il regista e il suo team.