8 luglio 2023

Der fliegende Holländer alla Fenice

  Scorrendo le note di Franco Rossi nel programma di sala, sorprende scoprire che Der fliegende Holländer abbia debuttato al Teatro La Fenice solo nel 1961, ma è soprattutto la locandina di allora a catturare l'attenzione. La regia era di Wieland Wagner, il geniale nipotino che in quegli anni stava rivoluzionando la storia esecutiva del canone e probabilmente dell’opera in senso lato con la sua “neue Bayreuth”, e il cast infilava una serie di stelle da strabuzzare gli occhi: George London nei panni del protagonista, Gré Brouwenstijn in quelli di Senta, Josef Greindl e Fritz Uhl. Sul podio saliva nientemeno che André Cluytens. Lo spettacolo di Wieland sarebbe tornato nelle uniche due occasioni in cui l’opera è stata riproposta a Venezia: nel 1972, quando a riprendere la regia fu chiamato l’Heldentenor più glorioso della sua generazione, Wolfgang Windgassen, e nel 1995.


  Difficile immaginare che la nuova produzione del Olandese Volante lasci un segno altrettanto profondo nella storia del teatro, anche se qualcosa di interessante da dire ce l’ha. Marcin Lakomicki, polacco di nascita ma attivo prevalentemente in Germania, firma uno spettacolo in odore di Regietheater, anche se di Regietheater all’acqua di rose si tratta, il che implica due cose. La prima è che va messo in preventivo che una fetta del pubblico non gradisca, infatti a fine recita sono arrivati puntuali come le tasse i fischi del loggione. La seconda è che uno spettacolo impostato in questo modo richiede uno sforzo di decifrazione che non necessariamente tutti hanno voglia di fare e che soprattutto andrebbe “guidato” con maggiore argutezza.

  Andando con ordine, il primo atto è interlocutorio poiché dà la sensazione di essere l'ennesima rimasticazione in salsa moderna-ma-non-troppo della tradizione. Dietro a una scena tetra e spoglia dominata dallo scheletro di un vascello, in cui i personaggi si muovono con rivedibile fluidità, si staglia una scogliera nemmeno troppo ben realizzata. Il tutto è condito da tinte cupe, luci soffuse (di Irene Selka) a ombreggiare coro e comparse per farne delle sagome spettrali nella burrasca, oltre al solito vecchio gioco dei doppi affidati a dei figuranti. Perché l'Olandese si sdoppi in cloni è francamente difficile da comprendere, almeno finché in scena compare Senta, anche lei duplicata da una “replicante” mentre sciorina le strofe della ballata.

  Il senso dei doppi lo si inizia a comprendere quando lei e lui si incontrano e cantano uno dei duetti più appassionati della produzione wagneriana e lo fanno non solo senza sfiorarsi, ma nemmeno guardarsi. Da qui in avanti il regista costruisce una sorta di ménage a quattro in cui ciascuno si innamora non dell'altro in sé ma in quanto proiezione dei propri desideri. Lo straniero che crede di amare la donna capace di liberarlo dal tormento eterno, lei quella figura leggendaria su cui ha fantasticato sin da bambina ascoltandone i racconti.

  Però qui arrivano i problemi. Nel terzo atto, pur continuando a sviluppare coerentemente la relazione illusoria tra Senta e l'Olandese, Lakomicki perde la bussola del pragmatismo e affolla il palco di personaggi, originali e sdoppiati, creando disorientamento negli occhi di chiunque cerchi di seguire le tante diramazioni relazionali della scena per capirci qualcosa. 

  Se c'è una cosa che un regista che sceglie di "giocare" con il teatro in questo modo deve saper fare bene, è veicolare un messaggio chiaro e potente in one shot. Il che non significa semplificare o banalizzare, ma rendere fruibili i diversi livelli a cui si intende comunicare, o almeno quelli più significativi. Mentre lo spettatore si scervella per comprendere perché un personaggio interagisca con quell’altro, o con il suo doppio, o quale sia il ruolo del manipolo di spose-prigioniere che l’Olandese si porta appresso e che tessono in qualche modo i fili della vicenda, l’opera scorre senza un tasto rewind che permetta di richiamare uno dei tanti dettagli scorsi contemporaneamente, accumulando smarrimento su smarrimento.

  Le scene stilizzate e fortemente anti-naturalistiche di Leonie Wolf non sono esteticamente indimenticabili ma assolvono al proposito di realizzare un ambiente che si fa via via, atto dopo atto, sempre più astratto.

  Quanto alla musica, l’impressione è quella della classica produzione che andrà migliorando di recita in recita. All'orchestra manca ancora un po' di rodaggio sia in termini di bilanciamento della concertazione, che è sempre difficile da centrare quando sui leggii c'è Wagner col suo modo così peculiare di orchestrare, sia per quanto riguarda la precisione vera e propria, che non è quella dei giorni migliori. Per il resto Markus Stenz adotta tempi tendenzialmente svelti, non sbalza dinamiche e colori con troppa convinzione ma tiene insieme tutto il castello senza che crolli. In due parole, buona routine.

  Samuel Youn è un protagonista che in “melomanese” si potrebbe definire vociferante. Ha sì una canna robusta e tanto volume ma tende e declamare (e anche a recitare) con un'enfasi eccessiva che lo porta spesso a forzare e a sporcare l’intonazione. Anja Kampe è una wagneriana di lungo corso e si sente, nel bene e nel meno bene. Ha una padronanza di fraseggio e dinamica da artista di razza, oltre a un peso e un’omogeneità timbrica ancora invidiabili, d’altro canto si sentono gli effetti del chilometraggio sulla freschezza della voce, sia nelle entrate del fiato, che a strumento freddo non sono pulitissime, sia negli estremi acuti, che escono eufemisticamente arrembanti. Il vero limite di questa Senta tuttavia non sono le note stiracchiate ma la mancanza di tutto il côté adolescenziale che il personaggio, per riuscire davvero credibile, dovrebbe avere.

  Franz-Josef Selig è un eccellente Daland sia per cavata di strumento che per eloquenza, che poi significa evitare di dare un taglio monodimensionale al personaggio, Toby Spence un Erik che alterna buoni momenti a qualche stimbratura di troppo nell’aria che prelude al finale. Molto positivo il contributo di Annely Peebo, Mary, e del Timoniere di Leonardo Cortellazzi, che si disimpegna in modo eccellente nella sua canzone.

  Buona anche la prova, soprattutto per quanto riguarda le voci femminili, del coro, o per meglio dire dei cori, visto che quello di casa (diretto da Alfonso Caiani) è rimpinguato dal Coro Taras Shevchenko della National Academic Opera and Ballet Theatre of Ukraine preparato da Bogdan Plish. Non è felicissima invece l’idea di smezzare l’opera con un intervallo dopo il primo atto.

  Buon successo per tutta la compagnia a fine recita, con punte di entusiasmo per Anja Kampe e Markus Stenz e qualche contestazione per il regista e il suo team.