28 maggio 2015

Francesca Dego e Daniele Rustioni in concerto

Il Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone festeggia i suoi primi dieci anni di attività e lo fa nel migliore dei modi, con un bel concerto di Francesca Dego accompagnata da Daniele Rustioni, compagno nella vita e, per l'occasione, nell'arte.



Il 28 maggio del 2005 toccò a Lorin Maazel inaugurare il neonato Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, oggi, per celebrare un anniversario simbolicamente assai significativo, è la volta di Francesca Dego e Daniele Rustioni, alla guida dell'Orchestra da Camera di Mantova: sono infatti loro i protagonisti del concerto conclusivo della stagione, evento nato innanzitutto per celebrare i dieci anni di attività del teatro.

Concerto dall'esito assolutamente sorprendente, a dispetto di ogni pregiudizio. Francesca Dego si rivela musicista dalle grandi qualità, capace di risolvere con irridente facilità ogni scoglio tecnico del Concerto in Re maggiore op. 35 per violino e orchestra di Pëtr Il’ič Čajkovskij, senza però inciampare nella freddezza e nella meccanicità che non è raro riscontrare nei giovani interpreti. Il suono del suo violino è caldo e rotondo, la pulizia e l'intonazione sono inappuntabili, la cantabilità ed il lirismo dei temi nell'Allegro moderato trovano la giusta esaltazione. Nonostante la tecnica strumentale sia di prim'ordine, la Dego resiste ad ogni tentazione di esteriorità, sia nell'asciuttezza del fraseggio, per nulla ammiccante o svenevole, sia nella naturalezza con cui risolve i passaggi di maggiore virtuosismo che non danno mai l'impressione di ricercare l'effetto plateale. Daniele Rustioni riesce a sostenere la solista con devozione, assecondando ogni inflessione ritmica e ogni dinamica suggerita dal violino; sarebbe tuttavia ingeneroso liquidare la prova dell'orchestra, che per altro suona in modo eccellente, come mero accompagnamento: il direttore riesce a creare un rapporto simbiotico tra gli strumentisti e la Dego, basterebbe citare la spontaneità e la delicatezza che caratterizzano il dialogo tra legni e solista nella canzonetta.

Convincente l'esecuzione della Sinfonia in do maggiore, lavoro che, com'è noto, fu licenziato da un giovanissimo Georges Bizet. Rustioni sceglie forse la via più facile, quella dell'esaltazione della musica in quanto tale, offrendo una lettura epidermica e bruciante che non si preoccupa di ricercare in partitura significati reconditi (e non è affatto detto che sia un torto, nel caso specifico) ma che rende giustizia alla scrittura travolgente ed immediata dell'opera. La sinfonia esce tesissima e brillante, ritmicamente molto elastica, elegante anche laddove il direttore tenda a calcare la mano sull'accentazione (in particolare nello scherzo: minuetto). La gestualità plateale ed istrionica del maestro non si risolve, fortunatamente, in forzature ma in sonorità vivaci e sempre controllate; impeccabile sotto il profilo tecnico l'esecuzione per quanto riguarda intonazione, pulizia degli attacchi ed omogeneità di suono. L'orchestra evidenzia notevole trasparenza ed assoluta precisione; sugli scudi i legni. Non sarebbe spiaciuta forse, nel complesso, una maggiore varietà di colori.

Ottima l'accoglienza del foltissimo pubblico, fin troppo incline all'applauso anche dove sarebbe il caso di contenere l'entusiasmo (come nelle pause tra movimenti di una stessa composizione).

Norma di Bellini secondo Kara Walker alla Fenice

In arte un’idea, per brillante che sia, da sola serve a poco se non c’è, accanto al pensiero, la capacità di dargli forma e concretezza. La Norma in scena al Teatro La Fenice esemplifica il concetto alla perfezione. D’altronde, per quanto spiaccia ravvisarlo, è molto probabile che finisca così quando regia, scene e costumi vengono affidati ad una brillante artista, nel caso specifico Kara Walker, pittrice e scultrice, completamente digiuna di teatro musicale. 

L’idea su cui nasce lo spettacolo sarebbe anche apprezzabile: contestualizzare la vicenda belliniana nell’Africa coloniale del XIX secolo, ricalcando le linee del romanzo Heart of Darkness. Ci aveva pensato anche Francis Ford Coppola quando, per raccontare il tragico Vietnam americano, rimasticò il lavoro di Conrad, giungendo, a onor del vero, a ben altri traguardi. Perché non dovrebbe funzionare allora con l’opera di Bellini? Al di là delle inevitabili forzature, che qualsiasi ribaltamento di contesto ingenera, lo spettacolo veneziano non funziona perché l’idea di partenza resta un abbozzo non svolto, un presupposto che non evolve. Se in un processo di ricontestualizzazione si limita lo sforzo registico al solo cambio di fondali e costumi, lasciando da parte ogni approfondimento sui caratteri e ripescando la solita frusta recitazione delle Norme-peplum, a che giova il ribaltamento di ambientazione? Purtroppo di Conrad, dell’Africa brutalizzata dagli invasori, in questo spettacolo non resta che qualche traccia, nei cenni delle note di regia e nei costumi; ed in fin dei conti, considerando le incongruenze con il libretto, probabilmente il gioco non vale la candela.



Fortunatamente l’esecuzione musicale si attesta su ben più soddisfacenti livelli. Carmela Remigio è una Norma più che convincente, capace di dar vita ad un personaggio profondamente umano in cui la madre prevale nettamente sulla sacerdotessa. Il canto patisce qualcosa nella linea delle lunghe arcate melodiche belliniane ma vince nei tantissimi recitativi, cesellati con dovizia, nel finale, nel toccante duetto con Adalgisa del secondo atto. Lo scavo della frase e la ricchezza di colori ed inflessioni sono la forza della sua interpretazione, sicuramente distante dai modelli (gloriosi e non) e da molti vizi della tradizione.

Ottima la scelta di affidare la parte di Polline a un cantante dalla formazione belcantistica come Gregory Kunde, sia perché il bagaglio tecnico, consolidato su questo repertorio, gli consente di divorarsi con irridente facilità ogni insidia, sia perché la maturità del personaggio si adatta all’anagrafe del tenore americano. Il registro acuto ritrova, nella scrittura belliniana, lo smalto e la brillantezza che non sempre riesce a mantenere nel repertorio più tardo, i centri sono corposi e sonori; la pregnanza stilistica è poi straordinaria.

Davvero eccellente sotto ogni aspetto l’Adalgisa di Veronica Simeoni, nell’intensità del fraseggio, nella limpidezza del canto: la voce è di timbro brunito, omogenea in ogni registro, musicalità ed intonazione sono impeccabili.

Dmitry Beloselskiy è un Oroveso vocalmente autorevole ma con qualche limite stilistico. Buone le prove di Anna Bordignon (Clotilde) ed Emanuele Giannino (Flavio).

Non è facile comprendere le ragioni delle isolate contestazioni rivolte, nel successo generale, al direttore Gaetano d’Espinosa. Il maestro cura attentamente sia la qualità del suono, sia il sostegno al canto, indovina momenti di grande bellezza strumentale (meravigliosi gli archi in apertura di secondo atto) ma soprattutto sa sostenere la narrazione senza cali di tensione. Orchestra in grande forma così come il coro.

Trionfo per tutti i protagonisti a fine recita.

Paolo Locatelli
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13 maggio 2015

Bignamini porta la sua Butterfly alla Fenice

Il teatro musicale impone delle regole formali vincolanti, in questo si differenzia da altre esperienze creative che lasciano all'artista una totale, o quasi, libertà di manovra. Nell'opera c'è innanzitutto un testo che va rispettato, sia nel libretto sia nella musica, ci sono necessità inderogabili del canto e, non ultimo, c'è uno strettissimo disegno di tempi e ritmi entro i quali l'azione prende luogo; la fantasia e le idee di un regista devono necessariamente scendere a compromessi con tutto ciò, anzi, dovrebbero uscire valorizzate dal confronto.


La Madama Butterfly in scena alla Fenice di Venezia, già recensita su queste pagine, esemplifica alla perfezione quanto insidioso possa essere questo compito: Alex Rigolà ha una lunga esperienza nel teatro di prosa mentre nell'opera è poco più che un debuttante; similmente Mariko Mori, artista e scultrice di fama internazionale che firma scene e costumi, affronta il melodramma come fosse un'installazione per la Biennale. Ne esce uno spettacolo laccatissimo ed elegante ma teatralmente zoppicante: la recitazione, oltre ad essere stereotipata al pari delle Butterfly più oleografiche, risulta prosaica e completamente avulsa dalla musica. Il contesto in cui viene calata la vicenda, una sorta di non-luogo asettico e impersonale dominato dal bianco, nulla aggiunge in termini di approfondimento alle centinaia di allestimenti tradizionali che i teatri propongono da oltre un secolo. Rimane, oltre alla gradevolezza estetica del tutto, qualche idea apprezzabile: il progressivo processo di perdita di cui è vittima Cio-Cio-San, con il distacco dalla società e dagli affetti è reso con efficacia così come convince il lavoro sul piccolo Dolore nel secondo atto, portato a cercare in Sharpless quella figura paterna che gli è mancata.

La ripresa di questo spettacolo, nato due anni fa, proponeva più d'una ragione di interesse in un cast composto da giovanissimi e promettenti cantanti, guidati da un direttore tra i più interessanti della sua generazione. Sappiamo quanto sia difficile credere ai quindici anni di Butterfly, dal momento che la scrittura della parte richiede una vocalità ampia e svettante, dote che raramente appartiene ad una cantante dall'aspetto adolescenziale; Svetlana Kasyan è una sorprendente eccezione alla regola, unendo alla freschezza della figura, mezzi vocali fuori dal comune. La Cio-Cio-San del soprano - assolutamente credibile innanzitutto nella fisicità, minuta e giovanile - è quanto di più infantile e capriccioso si possa immaginare; la Kasyan si tiene alla larga da introspezioni freudiane o rotture psicotiche, la sua Butterfly è una bambina, coinvolta in un meccanismo incontrollabile, che capisce troppo tardi di aver perso tutto. La vocalità è senz'altro impressionante per volume del registro acuto e bellezza del timbro, tuttavia risulta, ad oggi, ancora perfettibile sotto il profilo tecnico: il controllo del fiato è tutt'altro che impeccabile, sia nel legato, sia nell'emissione dei suoni che tendono spesso a perdere l'appoggio, soprattutto nei pianissimi; l'intonazione non è sempre a fuoco.

Per il Pinkerton di Vincenzo Costanzo, giovane tenore di belle speranze, le considerazioni sono di poco diverse: la voce è naturalmente dotatissima per volume e facilità di emissione ma difetta ancora di squillo e proiezione, l'interprete è naif ma appassionato ed impetuoso. Risulta assai credibile questo Pinkerton immaturo che, in preda alle passioni al pari della geisha, non riesce a ponderare le conseguenze delle proprie scelte.

Ottima la prova di Marcello Rosiello, Sharpless dalla voce ampia e timbrata, capace di risolvere con sensibilità e varietà d'accenti ed inflessioni l'insidioso canto di conversazione richiesto dalla parte.

Commovente, intensa e molto ben cantata la Suzuki di Manuela Custer.

Tra le moltissime parti minori si impone per precisione William Corrò (Yamadori) mentre il Goro di Nicola Pamio, vocalmente impeccabile, si concede alcune libertà musicali poco condivisibili. All'altezza della situazione tutti gli altri.

La direzione di Jader Bignamini è ricchissima di idee che, quando trovano realizzazione, aprono prospettive inedite sulla musica pucciniana: certi dettagli ritmici, enfatizzati senza alcuna pedanteria, o la secchezza espressionista degli impasti in taluni passaggi, evidenziano la modernità della partitura, che nella lettura di Bignamini pare quasi presagire alcune conquiste cui giungerà Stravinskij nei suoi balletti. Purtroppo i momenti più lirici e distesi risultano deboli sia nell'esecuzione musicale (non c'è mai il giusto sostegno al palcoscenico in termini di amalgama tra strumenti e voci), sia nella tenuta della narrazione: la lentezza esasperata del finale primo o di ampi tratti del secondo atto (compresa l'aria di Butterly Un bel dì vedremo), oltre a mettere alle corde i cantanti, annacqua la tenuta drammatica della vicenda.

L'impressione generale è che la compagnia necessiti ancora di qualche recita di rodaggio per rifinire i dettagli e trovare il giusto affiatamento. Alterna la prova del coro, sicuramente sfavorito dalla sciagurata idea registica di disporre i cantanti in platea durante il finale secondo, così da comprometterne irrimediabilmente l'esito.

Il pubblico, generoso ed entusiasta, ha salutato trionfalmente la protagonista e i principali interpreti della recita.


10 maggio 2015

La Bohème di Bignamini alla Fenice

In un’ottica programmatica ispirata ai teatri di repertorio d’oltralpe, la Fenice di Venezia ha ormai scelto di inserire alcuni spettacoli in cartellone con cadenza praticamente annuale, puntando, con lungimiranza e intelligenza, ad un pubblico turistico che finora si è sempre dimostrato molto ricettivo. L’idea è quella di investire, parallelamente alla stagione di produzione, su opere di richiamo declinate secondo diverse sfumature: si va dal Carsen dell’ormai storica Traviata ai più innocui allestimenti di Morassi, passando per il geniale Mozart di Michieletto fino appunto alla Bohème di Francesco Micheli, spettacolo per cui ci sentiamo di ribadire le impressioni ricavate nel corso delle scorse stagioni: 

“Lo spettacolo è fresco, giovanile, coinvolgente nella sua bozzettistica semplicità. Non una Bohème sconvolgente o che si proponga chissà quali orizzonti interpretativi ma, cosa forse ancor più difficile, originale senza sconvolgere drammaturgia ed ambientazione. Le scene firmate da Edoardo Sanchi propongono una Parigi da vendere ai turisti, immaginata piuttosto che veritiera, uno sfondo fumettistico che accompagna e racconta da vicino le sfortunate storie dei Bohémiens pucciniani. La vicenda è incastonata in una cornice di simboli che rimandano alla Ville Lumière, dalla Tour Eiffel alle Folies Bergère, il tutto a costellare i luoghi che prescrive il libretto e che si è abituati ad associare all’opera. Insomma c è tutto quello che ci si aspetterebbe di trovare in una Bohème, dalla soffitta alla neve del terzo atto, ma non solo. Anche il secondo quadro è magnificamente risolto senza scadere nei zeffirellismi in sedicesimo di facile effetto che si vedono un po’ dappertutto. La Parigi da cartolina, stereotipata, che viene proposta tende necessariamente a mitigare la pulsione naturalista dell’opera, spostandola su un livello favolistico o quantomeno romanzesco. La regia di Micheli, in perfetta sintonia con l’ambientazione, è scorrevole, spontanea ed immediata, coinvolgente e simpatica pur concedendosi alcuni siparietti di forzata comicità di cui non si sarebbe sentita la mancanza.” 



Giunto alla sua quarta ripresa in pochi anni, lo spettacolo di Micheli, dopo aver goduto della lettura sinfonica di Valchua e di quella più tradizionale di Callegari, prima di passare sotto la bacchetta alterna di Matheuz, trovava in Jader Bignamini un interprete notevole. Bignamini dimostrava di privilegiare il teatro al calligrafismo sinfonico, restituendo una Boheme asciutta ma intensa, in cui la violenza quasi toscaniniana di alcuni passaggi (i momenti di “convivialità” dei quattro amici in soffitta e il finale secondo) cedeva il passo ad abbandoni lirici nel racconto dell’intimità dei protagonisti. L’orchestra suonava con buona precisione, una certa genericità timbrica – in un’ottica che tendeva a posporre la cura dell’orchestrazione al senso narrativo della musica – giungendo a risultati di grande sinergia con il palcoscenico. 

In un cast omogeneo e convincente Carmen Giannattasio era una Mimì sicura nel canto e sulla scena. Il soprano, con l’evidente complicità del podio, costruiva la propria interpretazione lavorando sulla dinamica piuttosto che sul fraseggio; in particolar modo il finale d’opera, giocato tra pianissimi e sussurri, risultava particolarmente efficace. Il Rodolfo di Matteo Lippi, nonostante alcune aperture in acuto, convinceva per spontaneità e freschezza. 

Ottima la prova del baritono Julian Kim, cantante dallo strumento privilegiato per volume e colore cui si potrebbe chiedere soltanto un maggiore approfondimento del fraseggio. Francesca Dotto era una Musetta corretta, ben cantata e disinvolta sulla scena. 

Eccellente il Colline di Andrea Mastroni, basso di bellissima voce ed ottima tecnica, capace di cesellare l’aria del quarto quadro con una mezzavoce timbratissima e di grande morbezza. Armando Gabba confermava le buone impressioni fornite nelle scorse stagioni cantando senza sbavature la parte di Schaunard. All’altezza della situazione tutte le parti minori e il sempre impeccabile coro del teatro La Fenice. 

Paolo Locatelli
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