31 ottobre 2019

L'altra via per Brahms

Daniel Harding trascina le Danze slave di Dvořák tra gli stucchi dorati del Musikverein. Le manovra kleibereggiando a più non posso, tratteggiandole con un pennino sottile anche quando ci si aspetterebbe un bel pennellone imbevuto a tinte accese, in sostanza pare ripulirle della loro anima popolana e smargiassa. Nessuna sottolineatura del carattere un po’ triviale e scapestrato da violini da strada, Harding è tutto indugi e ammiccamenti, gesti piccoli piccoli, sorrisetti e ombreggiature. Certo trattata con tanta cortesia la materia musicale di Dvořák, accostata a Brahms, finisce per fare la figura dell’imbucato alla cena di gala e palesa quelli che, se non sono limiti, sono peculiarità di un linguaggio eccentrico rispetto alla tradizione della musica europea canonizzata.

Tradizione in cui si inserisce senza dubbio alcuno la Sinfonia n. 2 op. 73 che riempie la seconda parte del concerto con cui il maestro di Oxford è tornato al Teatro Nuovo Giovanni da Udine per la terza volta.



Brahms viene avvicinato con medesima impostazione minuziosa ed analitica, ma si rivela terreno assai più fertile per dare soddisfazione alle idee del podio. Che fa una Seconda incantevole sia per controllo di sonorità e orchestra, sia per raffinatezza dell'idea musicale. Forse non ruberà i cuori dei cultori delle emozioni forti, delle inversioni a U o delle accelerazioni a fari spenti, ma chi ami perdersi nell'infinità di mezzetinte e dettagli di articolazione – quell'attacco del quarto movimento che diventa un dialogo tra spiccatissimi degli archi! – di equilibri millimetrici, di fluidità di fraseggi e agogica, difficilmente potrà uscirne men che entusiasta. Non è un Brahms che mette al tappeto insomma, ma che incanta, che si rimane ad ammirare (e ascoltare!) assorti. È leggero e delicato, un acquerello.

Dal punto di vista tecnico poi, siamo in zona perfezione. Daniel Harding ha un gesto elegantissimo e plastico che non si compiace mai di sé, ma sublima in suono e musica. La Chamber Orchestra of Europe infatti lo segue in ogni minima intenzione, senza sbavature e con una qualità di amalgama e di equilibrismo cui sarebbe impossibile, e anche un po’ perverso, fare le pulci.

Ottimo successo a fine concerto.

29 ottobre 2019

Da Padova a Pechino passando per Maribor

Certo modo di intendere l’opera, in cui il teatro viene parzialmente sacrificato sull’altare del colpo d’occhio, corre in bilico sul filo sottile che separa la spettacolarità dall’effettismo, laddove per effettismo si intende l’indugiare in effetti su effetti, tanti effetti, troppi, cui spesso non corrisponde una causa ben identificabile. Ci casca talvolta anche Filippo Tonon, omni-firmatario della Turandot in scena al Verdi di Padova, quando la voglia di sorprendere lo porta a eccedere in ori, teschi, veli e coriandoli dal cielo, o a sovraccaricare la recitazione. C’è qualche piccola ingenuità insomma in uno spettacolo per il resto più che apprezzabile, chiaramente inquadrandolo nel filone di quegli allestimenti lì, di tradizione dura e pura, da cui Tonon non finge nemmeno di discostarsi. Spettacoli arredativi o grandi affreschi corali, a seconda degli esiti e della malizia negli occhi di chi guarda, in cui si racconta una storia in modo lineare, condendola con qualche escamotage o accessorio che non ribalta nulla e spesso nulla aggiunge a quanto già si conosce dell’opera in questione, ma che se ben realizzati possono garantire una serata a teatro piacevole. E nel caso specifico la realizzazione è convincente.

foto: Francesco Pertini

C’è una Pechino evocata – potrebbe essere una città esotica qualunque – in tutta la sua favolistica astrazione, sbalzata tra l’opulenza della stirpe divina, unica fonte di luce in una narrazione notturna e tetra, e la miseria del popolo bue. Le scene sono semplici ma ben realizzate e hanno il pregio di scorrere agilmente, ma soprattutto c’è un buon lavoro di concertazione registica su masse e solisti, ancorché molto “classica” nell’impostazione.

Rebecca Nash è la classica Turandot con tanto volume e poche finezze, o meglio, con poca voglia di approfondire. La voce non è di timbro baciato dalla natura né, a onor del vero, viene sfruttata nel migliore dei modi possibili, perché la Nash avrebbe la tecnica per osare qualche sfumatura in più, visto che il controllo dello strumento è solidissimo e le note ci sono tutte. Sfumature che forse le uscirebbero più naturali se il tappeto orchestrale di Alvise Casellati le sollecitasse con maggiore convinzione. Invece Casellati non riesce proprio ad andare oltre un solido turgore di suono, ben concertato ma imbalsamato in un costante mezzoforte metronomicamente scandito. Purtroppo tutto il resto, cioè i cambi di tempo, i colori, gli sbalzi dinamici, non è che accennato o completamente negletto. Il secondo problema, che probabilmente è una conseguenza diretta del primo, è che manca una regia musicale. Un esempio banalissimo: nella scena degli enigmi il direttore ha un ruolo fondamentale nel narrare le esitazioni, i dubbi (finti o simulati), in definitiva nel gestire il ritmo teatrale e montare la suspense. Casellati va diritto, senza respiro, accompagnando senza raccontare.

L'Orchestra del Teatro Nazionale di Maribor viceversa si dimostra affidabilissima e probabilmente avrebbe le potenzialità per esprimere una varietà musicale superiore. Sbava qualcosa, ma sono piccolezze, per il resto il suono è sempre bello rotondo e ben amalgamato. Onestissima anche la prova del coro che, fatta la tara di qualche punta d’acidità laddove prevalgono le voci acute, è pregevolissimo.

 foto: Francesco Pertini

Di buon livello anche il resto del cast. L'emissione tendenzialmente di gola toglie a Gaston Rivero qualcosa in termini di squillo nel registro acuto ma gli conferisce un timbro dalla brunitura accattivante. Per il resto il suo Calaf è molto convenzionale sotto ogni punto di vista.

Erika Grimaldi è una Liù molto dolce e dall’emissione morbida cui si potrebbe chiedere solamente un briciolo di attenzione in più alla dizione, la cui chiarezza viene sacrificata alla rotondità del suono.

Al solito granitico il vocione di Abramo Rosalen, Timur. Ottime le tre maschere di Leonardo Galeazzi, Emanuele Giannino e Carlos Natale, che sono rispettivamente Ping, Pang e Pong, che Tonon risolve senza rinunciare né ai tratti marcatamente grotteschi, né a quelli più sadici.

Antonello Ceron non è certo una sorpresa e garantisce all’Imperatore Altoum tutto ciò di cui  necessita, Cristian Saitta è un Mandarino di lusso. All’altezza della situazione gli altri.

Buon successo di pubblico a fine recita.

24 ottobre 2019

Se con stille frequenti

Se con stille frequenti è un affresco d’epoca, di quelli che nascondono particolari piccoli, grandi o minuscoli, attraverso i quali ci si addentra in un mondo perduto. Il mondo ivi ritratto è quello del Seicento, degli Steffani, dei Lotti, dei Bononcini, il mondo in cui la musica “moderna” – si perdoni la semplificazione barbara – iniziava a prendere forma e diffondersi nelle corti europee. L’introduzione del basso continuo, come spiega bene Michael Talbot nelle note che accompagnano il disco, permise l’evoluzione della musica vocale in direzione solistica, alienando la necessità di intrecciare diverse linee armoniche alla parte strumentale. Dalla produzione corale, che necessitava di almeno tre linee sovrapposte in armonia, germinarono via via delle alternative per voci sole o in duetto, in cui la funzione strutturale era appunto affidata all’accompagnamento del continuo.
Questo mutamento consentì la nascita di nuove forme e stili musicali che sfociarono, tra gli altri, nel duetto da camera, una delle molte strategie diversive, di intrattenimento o celebrazione adottate da chi queste opere le commissionava.



Il disco di cui si tratta, inciso tra il 2014 e l’anno successivo dal Cenacolo Musicale, pesca in quell’epoca, cercando di offrirne una panoramica ben centrata ancorché lontana dal quello che oggi si chiamerebbe mainstream, così accanto al più noto Agostino Steffani trovano diritto di residenza Antonio Lotti, Giovanni Bononcini e Francesco Lucio, qui rappresentato da un’aria di struggente bellezza cui Sara Mingardo sa rendere piena giustizia (Fuggi pur, o crudele).
Si tratta evidentemente di un’antologia di brani disomogenei per mano e caratteristiche, che pur assolvendo a una missione prevalentemente divulgativa, non rinuncia affatto a esaltare quanto di prezioso ci sia in queste pagine dimenticate.
Se del repertorio s’è brevemente detto, resta da rendere il giusto merito agli artisti ingaggiati per il progetto, che spaziano tra l’eccellente e il sopraffino. Tale è senza dubbio alcuno la già citata Sara Mingardo, che padroneggia fiato, espressione e parola come pochi altri, ma non sfigurano affatto al suo cospetto tutte le cantanti impegnate, che all’appropriatezza stilistica aggiungono gusto e la necessaria consapevolezza tecnica (Francesca Biliotti, Lea Desandre, Silvia Frigato, Loriana Castellano, Giorgia Cinciripi, Lisa Castrignanò, Lucia Napoli).
È felicissimo anche l’accompagnamento del Cenacolo Musicale, che non sacrifica nulla alle ragioni della prassi storicamente informata, evitando certe secchezze da “friggitoria” assai comuni tra gli ensamble d’epoca. Il suono invece è sì trasparente e asciutto, ma senza mai perdere di corpo e piacevolezza.
Impeccabile la qualità della registrazione.

23 ottobre 2019

Il canto della Terra

L’ombra della morte evocata più o meno indirettamente unisce la Trauer-Symphonie di Haydn, che a onor del vero non porta questo fardello per responsabilità del compositore, e il Lied von der Erde con cui Mahler tentò invano di gabbare la maledizione della nona sinfonia. Non servì, poco tempo più tardi il cuore l’avrebbe tradito.

È tuttavia ben diverso l’umore dei due lavori, o meglio, pur essendoci un’aura malinconica e assorta nella sinfonia haydniana, non vi si ravvisa quel proposito di congedo estremo che permea la composizione di Mahler, che forse non è tetra e rassegnata, ma proiettata “oltre” lo è per certo.

La distanza la mette ulteriormente in luce il giovin direttore Nicholas Carter, che di idee e qualità ne ha da vendere. Gli bastano un paio di battute della Sinfonia n.44 in mi minore per mettere subito in chiaro che lui è il genere di musicista che va in profondità se si parla di articolare e cesellare, che guarda a ogni linea e battuta con puntiglio. L’esito infatti, al netto delle sbavature della Kärntner Sinfonieorchester, è avvincente. Un Haydn vitalissimo e mobile che si beve tutto d’un fiato.



Nel Canto della Terra, Carter riesce a concedersi qualche guizzo in meno, perché tenere a bada il macchinario mahleriano è più complicato. C’è dunque un filo di prudenza, soprattutto all’inizio, dettata anche dalla necessità di scendere a patto con le voci.

Certo la Kärntner Sinfonieorchester è una buona orchestra regionale, ma regionale rimane. È discretamente precisa e pulita, capace di bel suono, ancorché un po’ secco, ma non raggiunge il virtuosismo e la limpidezza delle formazioni di prima fascia.

Tra i soli impegnati nella seconda parte spicca nettamente Annika Schlicht, mezzo dallo strumento rotondo e caldo con una punta nasale appena accennata, che canta con espressività, gusto e un’ampiezza di cavata niente male.  Più problematica la prova di Samuel Sakker, la cui voce, tutta in gola, mostra la corda ogni qual volta la tessitura si acuisce.

22 ottobre 2019

L'altro Petrenko: from Oslo with love

Se dopo Luis Nazario da Lima vuoi fare il calciatore e ti chiami Ronaldo, per diventare quello che la gente identifica come “Ronaldo” devi vincere almeno cinque Palloni d’oro e altrettante Champions, insomma devi essere Cristiano Ronaldo. E nonostante tutto per qualcuno resterai sempre il secondo, quello finto. Vasily Petrenko ha la sfortuna di portare lo stesso cognome del direttore d’orchestra più ricercato, discusso, amato e blandito dei nostri giorni, Kirill, il reggente designato della Filarmonica di Berlino, in sostanza quello a cui si pensa se si dice Petrenko. Ed è un grande peccato perché il più giovane Vasily è un musicista di prima classe. A Udine lo sanno bene visto che lui sul palco del Teatro Nuovo c’è già stato due volte, l’ultima delle quali pochi mesi fa con i ragazzi della EUYO in un’entusiasmante Decima di Šostakóvič.

La Oslo Philharmonic le è persino superiore, d’altronde si tratta di un’orchestra stabile che ha una sua identità e soprattutto una storia gloriosa alle spalle che in questo 2019 abbatte il muro dei cent’anni. A chi avesse poca confidenza con le orchestre norvegesi basti sapere che gli ultimi direttori musicali, prima del “Petrenko minor” appunto, sono stati Saraste, Previn e un certo Mariss Jansons, che ne ha retto le sorti per oltre vent’anni.



Giocando un po’ alla cabala, è curioso notare come il brano che ha aperto la stagione che porterà il Teatrone a celebrare il suo ventiquattresimo compleanno sia stato scritto da  Richard Strauss quando aveva la stessa età. Trattasi del poema sinfonico Don Juan. Gli abbonati fedeli ne ricorderanno un’entusiasmante lettura di qualche anno fa firmata da Daniele Gatti, che pure non s’è fatta rimpiangere affatto. Tutt’altro, Petrenko è un mago del cesello, che sa curare ogni linea strumentale in relazione alle altre, sa darle colore e intenzione (basti citare il dialogo tra i legni nella sezione centrale), sa far cantare gli archi. Fa lo stesso nel Concerto op. 16 per pianoforte e orchestra di Edvard Grieg, in cui l’orchestra non gioca da comprimaria nemmeno per una battuta.

Leif Ove Andsnes è un bel ragazzo un po' invecchiato dal look trendy e dai modi composti. Ha tutta l'aria del gentleman, ma soprattutto ne ha le mani. Il suo pianismo è perfettamente allineato alla figura: virile, elegante, d'un atletismo mai forzoso. C'è suono, deciso ma sempre perfettamente controllato, una gestione impeccabile del ritmo – come sono cristalline e precise quelle semibiscrome che aprono l’Adagio – e un’espressività schietta ma misurata. Non è forse il pianista-alchimista da sfumature e colori, eppure ha una personalità interpretativa e soprattutto timbrica decisamente forte che, in un panorama ricco di virtuosi ma forse povero di caratteri, lo distingue dalla massa.

La Sinfonia n. 2 op. 27 nelle mani di Vasily Petrenko è una lezione di concertazione e, soprattutto negli ultimi due movimenti, di direzione vera e propria. La prima, che attiene fondamentalmente alla preparazione dell’orchestra, è liquidabile in una sola parola: impeccabile. Un centinaio di musicisti che respirano come un unico organismo, che sanno sostenersi e lasciarsi lo spazio necessario l’uno con l’altro e che, in tutto ciò, esprimono una qualità di suono sensazionale.

Quanto alla direzione vera e propria, va detto che Petrenko ha un gesto eccentrico. Nei passaggi che richiedono maggiore accortezza batte, secondo la prassi, con la destra, altrove lo fa con la sinistra, quasi a voler concedere, in quegli spazi, una maggiore libertà di navigazione all’orchestra. Quando però la prende in pugno sa spremerla, tirandosela dietro in scarti agogici elettrizzanti, come quelli che imbastisce nel Quarto movimento, con una furia seconda solamente al controllo tecnico.

Come abbia nella pratica diretto l’Adagio non saprei dirlo, perché l’ho seguito a occhi chiusi. Posso però dire che quelle sfumature dinamiche, quelle esitazioni minuscole nello sviluppo melodico, i rimpalli dialogici tra sezioni o tra singole frasi, sono dettagli da artista di razza che vuole e sa andare oltre il facile effettismo che questa pagina rischia di sollecitare. E ci riesce.

Alla fine è trionfo, suggellato definitivamente da un gigionissimo In the Hall of the Mountain King fatto per strappare l’ovazione, che puntuale arriva.

9 ottobre 2019

Da Berlino a Porto Cervo

Cosa differenzia un quintetto per così dire canonico da uno che è emanazione di una grande orchestra come i Berliner Philharmoniker? Semplice, il respiro sinfonico. Prendiamo ad esempio i Virtuosi dei Berliner, ospiti della serata conclusiva del Classical Music Festival della Costa Smeralda: hanno il lindore cristallino dei quintetti di battesimo, è ovvio che sia così, d'altronde pescando cinque professori in quella che forse è ancora l'orchestra più prestigiosa al mondo non potrebbe essere altrimenti, ma non solo. Lo smalto timbrico, la pasta e l'arte nello sbalzare le dinamiche dal piano al fortissimo più veemente sono quelli della grande orchestra. Riescono insomma a ingigantire il suono, ad inspessirne la consistenza fino a moltiplicare se stessi.

Resta da dire cosa sia il Classical Music Festival della Costa Smeralda, il cui nome probabilmente suona ancora sconosciuto anche agli appassionati più attenti. Ebbene è una giovane rassegna che cavalca l’onda lunga dell'estate di Porto Cervo, con il doppio proposito di dilatare oltre l'ingresso dell'autunno l’attrattiva del mare sardo per i turisti, che ad oggi sono ancora, va detto, i più classici turisti smeraldini, e di farlo innestando in un terreno vergine la grande musica.
D'altronde al 29 settembre, data conclusiva della rassegna, Porto Cervo registra ancora temperature agostane, sole garbatamente avvolgente e una foresteria sgravata dal carico di vacanzieri e vippame assortito. C’è più tempo per viversi la Sardegna con il giusto relax e, magari, anche il desiderio di concedersi un lusso diverso dai soliti: un concerto.
Basti citare alcuni dei nomi che nel cartellone della terza edizione del festival hanno preceduto I Virtuosi dei Berliner: Ivo Pogorelich, Roman Kim, Enrico Dindo, Ivan Krpan, Pietro De Maria, Massimo Quarta e molti altri.

Il Classical Music Festival nasce quasi per celia nel 2017, o quantomeno per vedere l'effetto che fa: "Il primo anno è stato un esperimento, una scommessa" spiega il direttore artistico Guglielmo De Stasio "ma è andata bene. Così un po' alla volta siano cresciuti: l'anno scorso abbiamo avuto tra gli ospiti Martha Argerich, quest'anno il panel è stato ancora più ampio".
Certo il pubblico è ancora tutto da fidelizzare, anzi, da creare, andandolo a scovare in giro per il continente, perché il turista smeraldino medio non è esattamente quello che si muove per ascoltare un quintetto di Dvořák. Eppure ne varrebbe la pena, perché i Virtuosi berlinesi sanno rendergli giustizia, sostanziandone il carattere lirico e la cantabilità tzigana, la compattezza della scrittura e, manco a dirlo, assecondandone ogni esigenza tecnica, nonostante il calore e l'umidità della sala siano nemici agguerriti dell'intonazione anche degli archi più nobili, che ogni tanto scivola via.

Tuttavia se la cavano benissimo anche in altri angoli del repertorio. Il Mozart del Divertimento No.3 KV 138 è il giusto bilanciato tra libertà delle linee e tensione nella pulsazione ritmica, l’omaggio a Ellington di Paul Chihara ben swingato senza troppi ammiccamenti.
La selezione dalle Danze ungheresi di Brahms (6, 4 e 5) non nasconde insidie per chi, oltre che in formazione da camera, le avrà suonate più e più volte anche sotto al tetto della Philharmonie.

Intanto si fanno i nomi di alcuni degli ospiti della quarta edizione: Ivo Pogorelich, Enrico Dindo, Pietro De Maria, Pinchas Zukerman e Amanda Forsyth. Date ancora da definire ma si orbiterà sempre intorno alla seconda metà di settembre.

Un modo migliore per illudersi che l'estate duri in po' di più.

2 ottobre 2019

Written on skin

L'adagio canonizzato da Bernard Shaw secondo cui l'opera lirica sarebbe quella rappresentazione in cui il tenore cerca di portarsi a letto il soprano, ma c'è sempre un baritono che glielo vuole impedire, è vecchio come il mondo ma regge ancora. Che poi ci sia un libro nel mezzo a fare da casus belli è un topos altrettanto frusto, che da Ginevra e Lancillotto va avanti in un vero e proprio filone di letteratura (operistica) sulla letteratura galeotta.

Written on skin di George Benjamin, lavoro che sulla scala dei tempi operistici sta più o meno all'altro ieri (la prima assoluta è ad Aix-en-Provence nel 2012), parte da lì, ma c'è molto di più. Benjamin e il suo ottimo librettista Martin Crimp raccontano di Guillem de Cabestany, trovatore spagnolo le cui vicissitudini sono avvolte nella leggenda.

Convocato da un ricco Protettore, "uomo ossessionato dalla purezza e dalla violenza", per redigere un libro agiografico atto a celebrare le imprese proprie e della propria stirpe, il trovatore (the Boy, nell'opera), finisce per trescare con la di lui moglie Agnès. Quando il Protettore lo scopre ammazza il ragazzo e costringe la moglie a mangiarne il cuore, cosa che a lei non dispiacerà nemmeno troppo: "niente che io mangi o beva potrà togliere il sapore del ragazzo da questo corpo", gli dice, e lui le si scaglia addosso per ammazzarla. Lei lo anticipa lanciandosi dal balcone.

Tutto ciò raccontato nei versi meravigliosi di Crimp appunto, che mescolano alla presa diretta alcuni commenti narrativi di un trio d'angeli contemporanei che, per portarci nel cuore della storia, vanno indietro di otto secoli, facendoci scoprire appunto ciò che è Written on skin, scritto sulla pelle. Sì perché scrivere sulla pelle, cioè miniare la pergamena, è il mestiere del Ragazzo, ma è quello che finisce per fare anche con Agnès, entrandole nell'epidermide come la scabbia. Lei con lui scopre l'amore negatole da un marito forse impotente, forse omosessuale, di certo brutale e maschilista che la considera una proprietà da amministrare al capriccio.

L'occasione per riascoltare l'opera di George Benjamin in Italia, purtroppo senza vederla in scena, la offre la biennale di Venezia, che celebra il compositore con il Leone d'oro alla carriera. La si accoglie in forma di conceto dunque, sull'angusto palco del Goldoni - forse troppo angusto per l'opera in generale, transeat - con l'Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI e i cinque solisti schierati in uno stralcio di proscenio.



Alle loro spalle Clemens Schuldt concerta nel migliore dei modi, cioè raccontando senza farsi notare. In realtà l'orchestra si nota solo quando sul finale si ribalta un leggio, aggiungendo un curioso effetto alla linea delle percussioni, ma non certo perché non renda giustizia alla scrittura di Benjamin che anzi, erompe in tutta la sua vena teatrale. Certo non suona straniante o nuova come altra musica d'oggi, anzi, sembra guardare indietro. Ma è un occhio restrospettivo da musicista sapiente e grande affabulatore. E Schuldt appunto, tiene tutto in pugno senza perdersi niente, ad eccezione della bacchetta che a un certo punto gli vola via. Poteva starci un briciolo di coraggio in più nelle dinamiche? Forse sì, inezie.

Della compagnia originale rimane Christopher Purves, che è letteralmente un diavolo. Non basta un leggio ad arginare la sua dirompenza teatrale, che sguscia fuori da ogni sillaba, da ogni occhiata. Il canto è talmente brado e violento da entrare davvero sotto la pelle, è sporco e spesso si spezza nelle mezzevoci o scivola un po' in basso nell'intonazione, eppure ogni sfumatura che nasce da questa brutalità d'emissione arricchisce un'interpretazione che è una vera e propria personificazione.

James Hall è un ragazzo da oratorio, molto perbene e pulito sia nel canto che nella figura, ma con carisma ancora in fase di costruzione. Arriverà anche quello ed avremo un eccellente controtenore in più.

Brava Georgia Jarman, Agnès, primo perché canta bene tutto quello che c'è da cantare, con voce un po' acidula in alto ma complessivamente gradevole, secondo perché ci crede fino in fondo e tiene testa a quell'animale da palcoscenico che le sta accanto.

Gli altri due angeli, che si prendono anche le parti dei cognati, sono Victoria Simmonds e Robert Murray. Lei occhio svelto e voce morbida, lui canta magnificamente e ancora meglio sa rendere la patetica debolezza da uomo omega del suo personaggio.