29 marzo 2018

Sentieri selvaggi

Probabilmente non è mai esistita una civiltà modernista, positivista, vorace di presente e avida di futuro come la nostra. Viviamo ad alta velocità, ciò che oggi è vivo e desiderabile già domani sarà obsoleto, veneriamo il progresso, l'evoluzione, la modernità sempre rinnovata, pensiamo al nuovo come sinonimo di meglio. Eppure, quando si parla di musica – per lo meno di musica colta – le cose cambiano. La produzione contemporanea è percepita con diffidenza, quasi fosse necessariamente ostica e respingente, o comunque un affare per pochi. Il che talvolta è vero, perché la complessità di certi linguaggi musicali è tale da rendere il messaggio veicolato pressoché indecifrabile per un pubblico che non sia estremamente specializzato, ma non sempre. Poi, come per tutte le cose, è sempre la conoscenza a fare la differenza, e purtroppo la divulgazione della materia è tragicamente scarsa.



È cosa buona e giusta quindi che un teatro dia spazio alla musica di oggi, anzi, dovrebbe essere una consuetudine. Anche perché la musica contemporanea, rispetto al repertorio storicizzato, ha un grande vantaggio: se ne può scrivere continuamente di nuova. Così a Pordenone, prima di chiamare Carlo Boccadoro (con i suoi Sentieri Selvaggi) hanno pensato di commissionargli anche una nuova opera. Ne è nato Un guanciale di nuvole azzurre, melologo per voce (quella della brava Chiara Osella) e sei strumenti, su testi che Cecilia Ligorio ha tratto da antiche liriche cinesi, rielaborandole e aggiungendovi qualcosa di proprio. Un lavoro molto intenso, sviluppato in nove movimenti, che racconta della perdita e dell’assenza, filtrate secondo una sensibilità orientale. Boccadoro evoca un’atmosfera intimistica e rarefatta, sia per il delicato sestetto strumentale, sia per la voce, che è chiamata alla doppia sfida di alternare un canto dalla scrittura liederistica a parti recitate.

Nella prima parte di concerto si ascolta invece un potpourri di contemporaneità che pesca un po’ dappertutto, dal minimalismo europeo di Michael Nyman (Love Always Counts) a quello americano delle Facades di Philip Glass, dall’Insieme II di Luca Francesconi – brano che mette alla prova tutto il virtuosismo dei Sentieri Selvaggi – alla Voce tra le voci di Mauro Montalbetti.

E poi c’è la Musica per pezzi di legno, che nasce dagli studi sulle poliritmie africane di Steve Reich, ad accendere l’entusiasmo del pubblico.

Meritano di essere citati uno a uno gli strumentisti dei Sentieri Selvaggi perché quella che eseguono è musica impervia, che scava fino in fondo alle risorse espressive, tecniche e ritmiche dell’artista: Lorenzo D'Erasmo (vibrafono e percussioni), Paola Fre al flauto, Mirco Ghirardini al clarinetto, Andrea Rebaudengo al pianoforte, Piercarlo Sacco (violino e viola) e Aya Shimura, violoncello.

Nota a margine: proprio perché il repertorio proposto da Boccadoro è tutt’altro che facile, va lodata l’abitudine di introdurre ogni singolo brano in programma con una breve spiegazione atta a fornire al pubblico le coordinate basilari per orientarsi tra i sentieri, forse non selvaggi ma sicuramente poco battuti, della musica di oggi.

26 marzo 2018

Lucia di Lammermoor al Teatro Verdi di Trieste

Punto primo, fondamentale: la Lucia di Lammermoor al Verdi di Trieste è finalmente integrale, o quasi, forse per la prima volta nella storia del teatro. C’è quindi il cantabile del basso, c’è la scena della torre, ci sono i “da capo” nelle cabalette. Punto secondo, lo spettacolo di Ciabatti/Bisleri, che rivive a sette anni dal debutto, ha ancora molto da dire e da dare, anche perché è stato rimontato come si deve, senza dimenticare pezzi per strada, anzi, guadagnandone persino qualcuno. Punto terzo: canto e direzione non sono affatto spregevoli, tutt’altro, a partire dal podio.


Fabrizio Maria Carminati non è un direttore mediaticamente “sexy”, non muove le folle e non scatena le fantasie operomanicali, però è bravo. E poi il belcanto pare essere davvero la sua isola felice, già ne aveva dato prova nella Norma di due anni fa. Carminati conosce il repertorio, conosce il canto e ha un’idea concreta e personale di teatro. Ciò significa che sa dare significato alla musica in rapporto all’azione e sa sostenere il palco con mano leggera ma non servile. Inoltre, con il passare degli anni, ha di molto affinato le sue abilità di concertatore, lo si apprezza inequivocabilmente dalla pulizia esecutiva e dal balancing degli equilibri interni, ma anche dalla qualità intrinseca del suono orchestrale. Certo nella Lucia è già tutto scritto in partitura, ma il salto dal pentagramma alla pratica non è affatto facile, soprattutto se si tratta di restituire a pieno quel colore e quell’atmosfera peculiari dell’opera. Con Carminati c’è tutto.

E va così anche per merito dell’Orchestra del Verdi, che è in forma smagliante.



Tra i cantanti si impone l’Edgardo di Piero Pretti. Voce sana e squillante da autentico tenore romantico, controllo e intonazione impeccabili e, cosa tutt’altro che scontata, la brillantezza necessaria per arrivare in fondo fresco come una rosa. A voler spaccare il capello in quattro, proprio perché Pretti ha le qualità per essere un interprete di rilievo della parte, si potrebbe chiedere qualche sfumatura in più, soprattutto nelle dinamiche, che sono tendenzialmente bloccate sul mezzo forte. 

Aleksandra Kubas-Kruk è la classica Lucia in scia alla tradizione dei lirico-leggeri. Voce penetrante e flessibile, buone agilità e un approfondimento del personaggio, musicale e attoriale, convenzionale ma efficace. Insomma la  Kubas-Kruk c’è e porta a casa la serata in modo convincente, non fosse che cicca malamente i due mi bemolli sopracuti della pazzia. Peccato.

Bene Devid Cecconi, Enrico esuberante nel fisico e nella vocalità, per altro di bella pasta schiettamente baritonale, che mantiene la sua brunitura lungo tutta l’estensione. 

Deve invece maturare ancora Carlo Malinverno (Raimondo), il quale, pur avendo mezzi ragguardevoli, soffre di qualche défaillance nel sostegno e, conseguentemente, nell’intonazione.
Sono all’altezza le parti minori. L’Arturo di Giuseppe Tommaso forza un po’ ma ha volume e tiene bene il palco, Giovanna Lanza (Alisa) ha voce e mestiere, come sappiamo bene. Il Normanno di Andrea Schifaudo parte in sordina ma si riscatta in corso d’opera. 

Il Coro di Francesca Tosi non delude mai e, anche in questa occasione, firma un’eccellente prova.



Sullo spettacolo si potrebbe dire, in estrema sintesi, che è ben fatto. C’è un regista che fa il regista (Giulio Ciabatti) e un impianto scenico (Pier Paolo Bisleri) pensato per raccontare una storia e non per remarle contro. Il taglio che Ciabatti dà allo spettacolo è tendenzialmente classico, sia nella risoluzione della drammaturgia – la vicenda è posposta di qualche secolo, per il resto non ci si discosta dal libretto – sia nella recitazione. Una Lucia dark in cui si respira molta angoscia e poca speranza, e che, nonostante le riaperture dei tagli, ha buon ritmo e non soffre di momenti buttati via o risolti sbrigativamente.

Insomma dopo un avvio di stagione con più ombre che luci, questa Lucia raddrizza il timone del Verdi.

Alla fine è successo pieno, e meritato, per tutti.

Paolo Locatelli
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20 marzo 2018

Antonii Baryshevskyi alla Fazioli Concert Hall

Chi non conosce i pianoforti Fazioli? Nessuno, però forse non tutti sanno che a Sacile, accanto alla "factory", c'è una sala da concerto: la Fazioli Concert Hall. Ci è appena passato Antonii Baryshevskyi, un pianista ucraino che farà parlare di sé. 

Foto Claudio Truccolo

A Sacile – una manciata di chilometri ad ovest di Pordenone – Fazioli costruisce i suoi pianoforti, ma non solo. Accanto alla produzione c’è una piccola sala da concerto, duecento posti scarsi, che da tredic’anni ospita una stagione di musica da camera in cui sono passati alcuni degli artisti più importanti in circolazione, la Fazioli Concert Hall.

Antonii Baryshevskyi non appartiene ancora a questa eletta schiera ma, dopo averlo ascoltato al pianoforte, non è imprudente prevederne un prossimo ingresso. Ucraino, trent’anni ancora da compiere e un carattere schivo da nerd, Baryshevskyi pare avere poco in comune con certo pianismo “biondino” e patinato imperversante. Non è di quelli che sgomitano per guadagnarsi i riflettori o che affrontano la ribalta del palcoscenico con pose da divastro, non ha niente di glamour né di intrinsecamente accattivante. Eppure si resta di stucco nello scoprire che quel sorriso mite da vicino di casa nasconde un musicista sopraffino in cui si reincarna uno spessore, di suono e di pensiero, d’altri tempi. Non è insomma un pianismo leggerino il suo, né all’insegna di un virtuosismo isterico a mitraglietta, ma di peso e sostanza, e innervato da una musicalità che si mantiene fluente anche nelle pagine più frastagliate. Baryshevskyi è una prodigiosa sintesi di suono, tanto e bello, e di controllo, che il gran coda Fazioli 278 esalta al massimo grado.

Perché, se è vero che la tecnica mostruosa non fa il grande musicista, è da lì che si parte per arrivare ai massimi livelli e lui questo dominio assoluto dello strumento ce l’ha. È tale bagaglio a consentirgli un funambolismo imprudente e sfrenato, nell’accezione più lusinghiera del termine, con cui scava nel pianoforte senza paura, lo sfida, lo blandisce, soffre e gode (e fa godere!) con lui.

Nei tratti ricorda quelle grandi orchestre dell’Europa orientale che uniscono alla pasta calda del suono flessibilità e trasparenza. E le ricorda anche nel gusto musicale, per la libertà di fraseggio e la cantabilità, ma anche per ampiezza di risorse espressive, perché Baryshevskyi nella sua valigia ha tutto: ha il pianissimo (ascoltare l’attacco di Arc-en-ciel per credere), ha l’agilità morbida e di forza, ha pure certa rabbia violenta, quando serve (l'Allegro drammatico dei 5 Préludes op. 74 è a dir poco tellurico). E poi sa mettere tutto insieme, con la capacità di penetrare nello stile di ogni brano senza ricondurlo esclusivamente a sé, o alla propria cifra, ma senza nemmeno annullarsi. Il che sorprende due volte se si guarda al repertorio in programma, che è da artista onnivoro ai limiti della sfacciataggine. Dal classicissimo Beethoven al russissimo Scriabin, passando attraverso le varie declinazioni di Novecento incarnate da Bartók, Ligeti, Stravinskij e dal Debussy del bis (dei Feux d'artifice da mastro fuochista) cambia la prospettiva ma resta intatta la vertigine della veduta.

Un pianismo completo, si diceva, per la ricchezza di lessico e di sfumature, che è sì di pensiero ma anche di istinto. Lo si capisce da come “swinga” leggermente il tema del Primo movimento della Sonata n. 32 in do minore op. 111, sul suo finire, o dalla libertà ritmica con cui la destra sviluppa la melodia del Tango di Stravinskij sopra la scansione metronomica della sinistra.

I tre movimenti da Pétrouchka – che Baryshevskyi ha già inciso, ventenne, nel 2009 per Naxos – sono ormai interiorizzati e dominati a tal punto da trascendere il mero virtuosismo, che già di per sé sarebbe un gran bel cimento, e mirare dritto alla sostanza. Il pubblico se ne rende conto ed esplode di entusiasmo.

8 marzo 2018

Yuri Temirkanov torna alla Fenice

Grossomodo esistono due tipi di direttori d'orchestra: gli sbobinatori più o meno accurati della partitura, i quali puntano innanzitutto a tradurre la pagina in suono mettendo tutti i puntini sulle “i”, e quelli che fanno musica. Yuri Temirkanov appartiene alla seconda categoria, anzi, ne è uno dei più gloriosi vessilliferi. Il grande maestro russo non è un apostolo della perfezione strumentale, non venera il dettato né la trasparenza, non regala esecuzioni ma vertigini.




Se ne ha esperienza nella sezione centrale dell’Allegro moderato dell’Incompiuta di Schubert, un progressivo montare di poesia e furore, un abisso che si spalanca verso l’alto, contro gravità. Come ci riesce? Temirkanov tratta la musica come fosse una gomma plastica nelle sue mani, la strizza e la allenta con un cenno, la addensa pennellando l’aria con le dita della sinistra. Ci si chiede cosa passi per la testa ai primi violini quando si vedono richiamati da quel gesto enigmatico che sollecita al contempo densità e flessibilità. Eppure il risultato è tangibile, così come sono tangibili il colore delle viole, quello degli archi gravi, e la libertà ritmica con cui si sviluppa la musica. Certo l’approccio è quello del “grande vecchio”, perché la sua orchestra è estremamente compatta e drammatica, totalmente disinteressata alle conquiste recenti della prassi storicamente informata – e in certi momenti è anche un po’ pesante – ma sempre in controllo, senza che la mole del suono offuschi mai i piccoli dettagli, non solo strumentali, che sono poi quelli che fanno la differenza tra l’esecuzione normale e quella straordinaria.

La magia riesce perché l’Orchestra della Fenice lo segue al millimetro e sa camuffarsi, almeno nel colore, da Filarmonica di San Pietroburgo (benissimo gli archi!).

È meno entusiasmante la Sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore di Sergej Prokof’ev perché qui l’orchestra ci va con i piedi di piombo e qualcosa scappa via, nonostante Temirkanov riesca a raccontare l'ambiguità malata che serpeggia in fondo all'opera, l’apparente trionfalismo ottimistico dietro cui si cela una meccanicità alienante. Il finale di Primo movimento, così cupo e sinistro, è un pugno nello stomaco, una frattura che incrina quel clima di festosità forzosa sempre lì lì per realizzarsi. Però ci sono anche tanti passaggi affrontati con troppa cautela, peccato.

Il pubblico saluta con un entusiasmo inspiegabilmente sbrigativo.

Paolo Locatelli
© Riproduzione riservata

7 marzo 2018

Lo Schumann che fu e che sarà

In fin dei conti ogni palcoscenico non è che un enorme specchio dinnanzi al quale dobbiamo cercare di guardarci in faccia, è un moltiplicatore di domande, non una fabbrica di risposte. Qualunque sia la natura di ciò che cela, sia esso uno spettacolo di prosa o teatro musicale, un balletto o un concerto, il fine ultimo di ogni alzata di sipario è svelare allo spettatore un dettaglio di se stesso, attraverso quella contrapposizione dialettica che stimola il dibattito e, quindi, la riflessione.


Tale processo, per quanto possa apparire meno immediato, vale anche per la musica, anzi, per il suono. Perché se è vero che nel repertorio musicale il testo rimane più o meno immutato nei secoli, quello che evolve continuamente è la relazione che con esso hanno pubblico e artisti, quello che vi cercano e che hanno bisogno di trovarci.

Lo Schumann che Philippe Herreweghe e la sua Orchestre des Champs-Élysées suonano su strumenti d’epoca, e secondo una prassi esecutiva storicamente informata, è in tal senso illuminante, perché ci pone di fronte a noi stessi, alle nostre contraddizioni e sofisticazioni, e ci costringe ad interrogarci su quali siano gli stimoli che sollecitano la nostra sensibilità e da dove nasca il nostro sentire. Il rapporto con la musica e con il suono non è mai assoluto, non è avulso dal contesto storico e culturale, ma strettamente relazionato a dinamiche mutevoli e abitudini d’ascolto. L’interpretazione musicale non ha a che fare solo con la musica in sé dunque, o con lo spartito, ma anche con le stratificazioni che il tempo vi ha sedimentato.

Sarebbe quindi sbagliato e fuorviante pensare all’approccio “storicamente informato” come puro esercizio di filologia o curiosità intellettualistica, perché è molto di più, è innanzitutto un invito a meditare su quanto sia mutevole e influenzabile la nostra concezione dell’arte e, conseguentemente, gli effetti che essa genera in noi. Si pensi ad esempio a un certo modo di intendere il romanticismo – chi è più romantico di Schumann? – talmente segnato nell’immaginario collettivo dai decenni che l’hanno seguito da corrispondere solo parzialmente alla sua identità originale. Questo repertorio è stato via via trascinato verso una prassi esecutiva tardo-ottocentesca, che si è sì stemperata negli ultimi decenni, ma comunque senza (quasi) mai rinunciare agli strumenti moderni e a un approccio posteriore al colore orchestrale, fatte salve le ben note eccezioni. Il che, beninteso, non significa che ci sia uno Schumann autentico ed uno falsificato, o che esistano due modi, giusto o sbagliato in assoluto, di eseguirlo ma che, appunto, ogni epoca ha letto il compositore tedesco secondo la propria sensibilità.

L’esperienza filologica chiarisce altresì quanto la modernizzazione degli strumenti musicali abbia ampliato il “dizionario” del musicista, arricchendo la tavolozza timbrica, le possibilità dinamiche e molto altro. Chiaramente un ascoltatore d’oggi non può fingere di dimenticare tutto ciò e l’esperienza di ascolto, che non è quella di un uomo del 1850, condiziona la fruizione della musica, attenuando quell’effetto dirompente e rivoluzionario che il romanticismo doveva avere su chi lo stava vivendo in prima persona. Si tratta infatti di anni segnati da grandissime rivoluzioni, sia formali, sia tecniche (intorno alla metà del XIX secolo il fortepiano lascia progressivamente posto al pianoforte, i corni acquisiscono i cilindri, nascono i fiati come li conosciamo oggi, ecc.). Tutto questo fermento tecnologico, oltre ad arricchire le possibilità di scrittura per i compositori, faceva scoprire alle orecchie del pubblico sonorità sconvolgenti, esperienza cui si può oggi ambire paradossalmente proprio ritrovando quel linguaggio originale. Che sia questa una delle vie per salvaguardare la novità sostanziale del romanticismo?

Evidentemente quanto detto finora implica una serie di problemi interpretativi per il direttore d’orchestra, o comunque di traduzione del testo in musica, diversi da quelli che solleverebbe un'orchestra moderna: diverse sono le proporzioni dei volumi interni, diverse (e assai più povere) le possibilità timbriche, minori quelle dinamiche (il forte di un'orchestra antica è completamente diverso da quello delle formazioni d'oggi), diversa la “malleabilità” del suono. Pertanto il lavoro del maestro deve concentrarsi su un ventaglio di opzioni più ristretto: linee strumentali, fraseggio, articolazione, ed Herreweghe lo sa benissimo. La sua Sinfonia n. 3 op. 97 “Renana” è frutto di un lavoro di bulino sul dettaglio, sull’inciso, e di un’affinità profonda con la sua orchestra, che gli risponde al minimo cenno. Non c’è la polpa del suono, è vero, né una varietà caleidoscopica di sfumature – sono gli strumenti stessi a non consentirlo – ma vi si può apprezzare di contro una chiarezza contrappuntistica a tratti sorprendente e, appunto, una cura meticolosa per lo sviluppo di ogni singola frase.

Vale su per giù lo stesso discorso per il Concerto op. 54 che Alexander Lonquich suona su un Blüthner del 1856, a rigore di qualche lustro successivo alla stesura dell'opera. Lo strumento non consente virtuosismi coloristici, ha un suono assai più secco e piccolo rispetto a un pianoforte moderno e non mostra clemenza per la minima sbavatura. Altresì sollecita un pianismo nudo, di pura sostanza, in cui la classe e lo spessore intellettuale di Lonquich hanno modo di emergere a pieno. Ogni frammento melodico – e sappiamo quanto sia musicalmente e affettivamente frastagliata la scrittura di Schumann – ha il suo tono, il suo peso specifico e carattere all'interno del discorso musicale, e Lonquich non arriva a tanta espressione attraverso il grande gesto o l'effetto marcato, ma con il fraseggio, con le mille sfumature di morbidezza, d'impeto o di melanconia. E se qualche nota scappa via, qua e là, è poca cosa.

Schumanniani anche i due bis, che salutano un pubblico entusiasta.

Recensione pubblicata su OperaClick