13 giugno 2017

La Gustav Mahler Jugendorchester prende casa a Pordenone

Quando si tratta di muovere qualche critica alle dirigenze sonnacchiose dei teatri italiani e alle oscure logiche secondo cui vengono pensate le stagioni, sono sempre in prima fila. Oggi però mi schiero dall’altro lato della barricata e salgo su questo piccolo pulpito virtuale per lodare senza riserva alcuna, anzi, traboccando di entusiasmo, quello che i vertici del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone sono riusciti a mettere in piedi - il presidente Giovanni Lessio e il direttore artistico Maurizio Baglini su tutti, ma non solo loro, quando si arriva in alto il merito va sempre condiviso con una squadra formidabile e il Verdi questa squadra ce l’ha.

La faccio breve. Due anni fa Herbert Blomstedt porta per la prima volta nel teatro pordenonese la Gustav Mahler Jugendorchester (con una bellissima Ottava di Bruckner). Dodici mesi più tardi tocca a Philippe Jordan: stessa orchestra, voce di Christian Gerhaher e musiche di Mahler. Chi c’era quella sera, non se lo scorderà facilmente.

© Cosimo Filippini

Oggi questo percorso giunge a una tappa fondamentale: la GMJO ottiene la residenza a Pordenone. Cosa significa? Che ad agosto 130 giovani (e straordinari!) musicisti si ritroveranno nella città friulana per preparare, in quello che assomiglia vagamente a un ritiro pre-campionato, il tour estivo che toccherà mete quali Salisburgo, Amsterdam, Praga, Dresda, ecc., insomma le capitali della musica europea. Due settimane, prove aperte al pubblico e iniziative musicali varie, un paio di concerti diretti da Lorenzo Viotti (18 agosto ad Aquileia, 19 a Tolmezzo, ingresso gratuito) e doppia inaugurazione con Ingo Metzmacher il 6 e 7 settembre nella sala grande del teatro.

I cuori puri come il sottoscritto sono autorizzati a sperare in un successivo appuntamento in stagione, magari più avanti, chissà, la GMJO fa sempre un Easter tour.

Ci sarà tempo per parlare dei programmi e degli artisti in ballo, ciò che mi preme sottolineare ed applaudire oggi è altro: è la qualità e l’intelligenza di una programmazione a lungo termine, pensata, studiata, ricercata e voluta. Questo è un progetto! Grazie alla lungimiranza e alla perseveranza dei suoi dirigenti ora il teatro di Pordenone diventa la casa di quella che è forse la migliore orchestra giovanile al mondo, in grado di reggere il confronto con compagini professionali di primissima fascia. 

C'è modo e modo di essere "provincia", difficile immaginarne uno migliore.

Speriamo non finisca qui, credo di no.


Tosca al Verdi di Trieste

Un successone. Ormai l’abbiamo capito, al pubblico triestino piace l’opera “tradizionale”, quella che non riserva mai troppe sorprese ma nemmeno delusioni, l’opera in cui le cose vanno come ci si aspetta che vadano, e la Tosca firmata da Hugo de Ana in scena al Verdi rientra pienamente nella categoria.

Foto Fabio Parenzan

Insomma si parla del classico spettacolo in cui tutto ciò che chiede il libretto (o quasi) è al suo posto, discretamente curato nella recitazione e nella realizzazione ma anche – anzi, proprio per questo – tremendamente prevedibile.

Certo una volta accettata l’idea che ogni cosa sia già scritta sin dall’alzata di sipario, la Tosca di de Ana funziona. Le scene sono ben fatte, piacevoli nonostante le evitabili proiezioni, gli artisti sono mossi con mestiere, pur nel solco di una concezione molto agée del teatro operistico. Però i personaggi sono quanto di più convenzionale si possa immaginare e ricalcano modelli già noti e frequentati sin dall’alba dei tempi e il “teatro”, che dovrebbe essere il fine ultimo di ogni produzione, latita. Poco male, il pubblico apprezza come non mai quindi ben venga, almeno di tanto in tanto, la cosiddetta “tradizione”.

A scanso di equivoci, sotto l’ampio tetto della tradizione ci sta davvero di tutto. Da un certo punto di vista anche la direzione di Fabrizio Maria Carminati potrebbe entrarci, utilizzando però il termine nella sua accezione più nobile; il riferimento è alla grande scuola dei direttori operistici italiani, di cui il maestro par essere un degno epigono.

Diamo a Cesare quel che è di Cesare: ho ascoltato Carminati molte volte ormai e non mi ha mai deluso, qualunque repertorio affronti – in ambito operistico – riesce sempre a centrare lo stile più adatto, le sonorità, la tinta richieste, garantendo qualità musicale e ottimo svolgimento tecnico del melodramma (il che significa: palco sostenuto al meglio, buon passo teatrale, suoni levigati ed equilibrati). La sua Tosca è in tal senso emblematica: felpata, limpida, calda. Merito suo ma anche dell'orchestra di casa che, al netto di qualche minima sbavatura in apertura, suona benissimo.

Foto Fabio Parenzan

Un passo indietro i cantanti. Svetla Vassileva è una Tosca di temperamento e bella presenza, vocalmente solida e rifinita ma anche troppo arruffata nella dizione e con qualche suono fuori controllo in zona acuta.

Ben calato sulla scena ma alterno nel canto il Mario Cavaradossi di Massimo Giordano.

Angelo Veccia è uno Scarpia convincente sia per quanto riguarda la vocalità, sia perché capace di dominare la scena con una recitazione misurata ed essenziale ma molto efficace.

Dario Giorgelè si rivela un sagrestano affidabile ma eccessivamente sopra le righe, Zoltán Nagy è un buon Cesare Angelotti. Bene tutti gli altri: Motoharu Takei (Spoletta), Fumiyuki Kato (Sciarrone), Giovanni Palumbo (Un carceriere) ed Emma Orsini che, nel breve intervento del Pastorello, fa ascoltare ottime cose. 

Molto positiva la prova del Coro del Verdi preparato da Francesca Tosi così come si comportano benissimo I piccoli cantori della città di Trieste diretti Cristina Semeraro.

Teatro praticamente esaurito, trionfo per tutti con punte di entusiasmo per soprano e tenore.

12 giugno 2017

Cronache berlinesi

Non scriverò nulla sulla bellissima Damnation de Faust di Terry Gilliam che ho visto alla Staatsoper di Berlino, purtroppo non ne ho il tempo (però segnalo un grande Rattle, in una delle sue non frequentissime apparizioni operistiche). 

Di Simon Rattle parlo in ogni caso in questa recensione dove provo a raccontare il memorabile concerto che ha tenuto alla Philharmonie con i "suoi" Berliner e la pianista Imogen Cooper.

Qui invece racconto un concerto di Denis Kozhukhin e Daniel Barenboim alla Konzerthaus, in questo caso però si vola nettamente più in basso.



Denis Kozhukhin e Daniel Barenboim ovvero “la strana coppia”, o forse sarebbe semplicemente più corretto parlare di una coppia male assortita. Si incontrano nel Rachmaninov del Primo concerto per pianoforte e orchestra alla Konzerthaus di Berlino, l’uno dinnanzi a uno Steinway, l’altro sul podio della sua Staatskapelle Berlin. Che si tratti di due signori musicisti è indubbio: il valore del direttore è noto all’universo e in altri siti, direbbe qualcuno, quello del più giovane pianista russo lo si scopre in corso d’opera, nell’ottimo bis e, a momenti, nello stesso Rachmaninov. Ciò che invece funziona a fatica è l’amalgama tra i due. Il delicato e leggero Kozhukhin, garbato ma timido nel tocco, soffre tremendamente le sciabolate sonore che gli piombano sul capo e finisce inesorabilmente travolto dai marosi orchestrali di Barenboim. Il quale Barenboim non rinuncia alle proprie cifre distintive: sonorità dense e imponenti, ben impastate nei pianissimi ma al limite nei forti, spesso eccessivamente imballati e ruvidi. Kozhukhin ci rimane sotto, sia in termini di volume sia di personalità, risultando, se non inconsistente, impari al “peso” del lavoro in programma. E probabilmente non lo sarebbe, avesse accanto a sé un accompagnatore più attento, e soprattutto disposto a fare un passo indietro. L’approccio di Barenboim viceversa necessiterebbe di un solista capace di frustare i tasti con vigore e affrontare la musica con un’espressività più marcata, sia nel colore, sia nel fraseggio. Fatto sta che i due non riescono a trovarsi a metà strada e a perderci è solo Rachmaninov, il cui concerto finisce per essere “eseguito” senza una coerenza stilistica e interpretativa unitaria.

I Notturni di Claude Debussy che aprono la seconda frazione di concerto sono il giusto morbidi e vaporosi, ben cesellati nelle dinamiche e nella tinta ma non scavalcano il muro che separa l’esecuzione di eccellente routine dalla grande interpretazione, probabilmente per l’assenza del necessario abbandono nel modellare il tempo e di un pizzico di languore nel legare i suoni. Nelle Sirene le voci femminili del coro della Staatsoper non partono benissimo ma si riscattano in corso d’opera.

Il Bolero di Ravel che chiude il concerto è acceso dall’istrionismo un po’ ruffiano di Barenboim che, a quanto pare, piace molto al pubblico di casa. Il maestro sale sul podio, dà il via, si lascia cadere le braccia lungo i fianchi, posa le mani al parapetto del podio e abbandona l’orchestra a se stessa, limitandosi a qualche cenno dove necessario. A qualche minuto dal termine poi scende dal podio – furbescamente dopo aver gestito, peraltro molto bene, il progressivo stringendo del tempo - per accomodarsi accanto a una violoncellista. La Staatskapelle chiude da sola, tra le ovazioni del pubblico.

Ma com’è questo Bolero? Marziale, decisamente rigido nel tempo e poco “francese”, turgido nelle sonorità ma ben pesato negli equilibri interni, almeno fino al finale che inciampa in qualche eccesso di clangore. Giova alla riuscita del brano il valore delle prime parti, i cui interventi sono di assoluta qualità, benché spronati dal podio a una certa “aggressività” nel mordere la melodia.

Resta da dire del brano di apertura, Deep Time di Harrison Birtwistle che, pur con qualche buona idea e una manciata di suggestioni notevoli, lascia la sensazione di déjà-vu. Anche direttore e orchestra non danno l’impressione di crederci fino in fondo e il pezzo scivola via tra gli sbadigli e gli svogliati applausi del pubblico (pochi). Pubblico che invece accoglie con entusiasmo Kozhukhin, a termine della prima parte, e con altrettanto calore saluta il padrone di casa Barenboim e l’orchestra a fine performance.

11 giugno 2017

Rattle e i Berliner alla Philharmonie

Ascoltando la Suite da Powder Her Face di Thomas Adès la memoria vola subito a certo Gershwin, senz’altro rinfrescato da nuove suggestioni, echi dal musical, da Previn, Cole Porter, qualche strizzata d’occhio alla musica francese e ai colossi del Novecento (un po’ di Berg, un po’ di Stravinskij, un po’ di Britten, un pizzico di Janacek), qualche nota di folk e molto, molto tango in stile Piazzolla. Il risultato è piacevole, ammiccante e furbetto, ma anche notevolissimo per quanto riguarda l’orchestrazione. Adès non avverte la necessità di concentrarsi sulla ricerca costi quel che costi, ma punta piuttosto verso una sintesi tra mondi già noti ed esplorati, rimasticati con mestiere e, perché no, anche con parecchia arte. Inoltre, pur trattandosi di una suite orchestrale tratta dall’opera, il risultato è omogeneo e discorsivo, benché gli otto movimenti che la compongono spazino tra linguaggi vari ed eterogenei.



Al di là della qualità del lavoro, è fuor di dubbio che la sua scrittura orchestrale e strumentale si presti a esaltare le virtù dei filarmonici di Berlino, il loro eclettismo, l’assoluta qualità delle prime parti e, forse ancor più, la capacità di respirare come un unico organismo, con una perfezione esecutiva che ha pochi paragoni. Tanto più se sul podio c’è Simon Rattle che, ormai legato stabilmente all’orchestra da un rapporto quindicennale, potrebbe guidare questa macchina a occhi chiusi. L’affiatamento con i professori d’orchestra è evidente: la quadratura musicale non teme sbavature, quella acustica (nella sala grande della Philharmonie) nemmeno, anzi, raggiunge vertici di tale equilibrio dell’amalgama da sembrare mixata al computer.

In un quadro di assoluta esattezza musicale, in Adès come in Mozart o Stravinskij, al maestro è sufficiente il minimo cenno per accendere la musica, modellare un timbro, aggiustare, suggerire, stringere o assestare un volume, ottenendo sempre il massimo risultato con il minimo sforzo. L’esito è prodigioso sul piano esecutivo ma anche per l’ampiezza del ventaglio timbrico, cui non è preclusa alcuna sfumatura, da certi graffi jazzistici fino alle sonorità più eteree, per la plasticità dell’agogica e, appunto, per la precisione millimetrica della concertazione.

Il salto da Adès al Mozart del Concerto per pianoforte n. 25 in do maggiore K. 503 è vertiginoso e la distanza viene ulteriormente esaltata dalla scelta di Rattle di ricorrere ad un’orchestra ridotta e quindi intrinsecamente distante dal crogiolo di colori e impasti richiesti dal compositore inglese. Non cambia invece l’estrema trasparenza del tessuto, in cui archi e legni riescono a dialogare con equilibrio, i chiaroscuri nelle dinamiche (alcune sfumature di pianissimo sono al limite dell’udibile) ma nemmeno la tensione dello sviluppo.

Se ne giova Imogen Cooper la quale è una pianista sensibile ed elegante ma dal tocco molto delicato. La Cooper non possiede il funambolismo tecnico dei grandi virtuosi e qualche bisticcio con la tastiera qua o là le scappa, così come si avverte un veniale squilibrio tra le mani, con la sinistra che fatica ad emergere con lo stesso vigore della destra. Quel che invece c’è, e che in Mozart è ben più importante del mero esibizionismo, è la leggerezza della linea musicale, il gusto per il colore e un’espressività misurata ma non priva di una certa ironia.

La seconda parte di concerto, interamente dedicata a Igor Stravinskij, si segnala innanzitutto per un dato di cronaca: la première tedesca del Chant funèbre che segue a distanza di pochi giorni quella italiana, in occasione della quale mi sono soffermato sulla genesi del lavoro.

La bacchetta di Rattle riesce a trasformare anche questo Stravinskij ancora acerbo, o quantomeno in divenire, in un piccolo gioiello. Oltre a valorizzare al massimo l’intarsio armonico e timbrico dell’opera, la zampata del grande artista si palesa nella tinta orchestrale terrea, che si adatta come un guanto al carattere del brano, improntato a una drammaticità cupa e trattenuta. L’accordo finale, risolto con un grigiore sinistro e spento, nella totale assenza di vibrato e calore, lascia senza respiro.

Ne Le Sacre du printemps (versione 1947) che chiude il concerto, Simon Rattle riesce a spremere fino all’ultima goccia di quell’energia primordiale che permea la partitura, forte di un dominio ritmico e timbrico dell’orchestra pressoché totale. Nell’Introduzione i legni paiono emergere dal sottosuolo, con un andamento brulicante che va via via montando, secondo un crescendo ottimamente calibrato misura dopo misura. Non di meno la cura per gli impasti e le dinamiche è prodigioso: questo Sacre pare ribollire di vapori e profumi ancestrali che vanno addensandosi e svanendo. Se tutto ciò è possibile lo si deve a un lavoro di concertazione capillare in cui ogni dettaglio è pesato e pensato nel quadro di una visione chiara e coerente del lavoro, fortemente teatrale e aderente alla drammaturgia del balletto.

Inutile poi spendere altre parole d’elogio sulla qualità dei Berliner Philharmoniker, capaci di conservare una lucentezza e una rotondità di suono incrollabili in ogni modulazione dinamica, sia negli impalpabili pianissimi, sia nelle esplosioni tonanti a piena orchestra. Anche laddove il direttore sprema i suoi musicisti quasi oltre il limite (gli interventi del clarinetto piccolo nell’Introduzione o gli strappi degli archi nella Danza delle adolescenti sono forzatissimi) non c’è nota o suono che sfugga al controllo.

Trionfo sacrosanto.

3 giugno 2017

James Conlon e Ray Chen in concerto

Come testimoniano le Cronache, Igor Stravinskij fu allievo riconoscente e devoto ma non acritico di Nikolaj Rimskij-Korsakov. Non solo, a differenza di quanto si potrebbe pensare, molti degli spunti più intriganti dei balletti parigini derivano da idee dello stesso Rimskij, ben lo dimostra Richard Taruskin nei suoi scritti.

C’è tuttavia un altro punto di contatto tra i due musicisti, forse meno noto: quando l’anziano maestro morì, nel 1908, Stravinskij dedicò alla sua memoria un lavoro, Pogrebal’naya Pesnya (Canto funebre), che venne eseguito in una sola occasione, prima di cadere nell’oblio, complice lo smarrimento della partitura. I tumulti della Russia di inizio Novecento che culminarono nella rivoluzione d’ottobre, uniti alle peripezie personali che stavano segnando la vita del compositore, fecero sì che si perdessero le tracce materiali del Canto Funebre, almeno fino a un paio d’anni fa, quando la ricercatrice Natalia Braginskaija rinvenne negli archivi del conservatorio di San Pietroburgo le parti orchestrali. L’opera poté allora essere riassemblata e messa in circolazione.


Toccò a Valeri Gergiev “tenere a battesimo”, se così si può dire, quest’araba fenice risorta che giunge finalmente in Italia, per la prima volta, con James Conlon e l’Orchestra Sinfonica Nazionale Della Rai in un doppio appuntamento che, dopo una recita torinese, approda al Teatro Verdi di Pordenone per chiuderne la stagione.

Le premesse finora snocciolate non fanno che aumentare la sorpresa nel trovarsi di fronte a un lavoro in netta rottura con la tradizione russa di Rimskij-Korsakov ma allo stesso tempo ancora distante dallo Stravinskij che verrà (l’Uccello di Fuoco, che vedrà la luce l’anno successivo, sembra lontanissimo).

C’è piuttosto un clima mitteleuropeo, persino un certo wagnerismo di risulta percepibile già dal tremolo degli archi bassi che apre il brano. Il lavoro sul cromatismo e sull’armonia (Stravinskij, andando a memoria, lo ricorderà come “il mio lavoro migliore prima dell’Uccello di Fuoco”) pone il Canto funebre nell’alveo di una ricerca musicale ben distinta dagli esperimenti coloristici e soprattutto ritmici che verranno di lì a poco con i balletti, soprattutto con Le sacre du printemps.

Cito Le sacre (datato 1913) proprio perché presente anch’esso nel programma del concerto; l’accoppiamento con un lavoro di poco precedente, eppure così diverso, evidenzia come sia evoluto nel giro di pochi anni il linguaggio del compositore e, soprattutto, come siano mutati gli orizzonti verso cui ha puntato il timone.

Tanto più che l’approccio di James Conlon ai due lavori è similare: sonorità compatte, più versate al turgore che alla trasparenza, senza che ciò si traduca in eccessiva pesantezza né in un bilanciamento confuso. Pur nella densità del suono, il dettaglio è sempre ben esposto, gli equilibri interni calibrati con attenzione. L’approccio ai tempi è forse tetragono, o meglio a tratti si avverte l’assenza di uno spunto che accenda la misura, illuminando il fraseggio e lo sviluppo dell’agogica, di contro si apprezza la cura certosina per le dinamiche, che sono ben pesate in ogni sfumatura di piano e di forte e, soprattutto, l’esposizione dell’architettura globale delle opere.

In ciò lo aiuta un’orchestra lodevole per precisione e qualità, capace di mantenere nei fortissimi come negli attacchi più impalpabili una preziosa rotondità del suono.

Quello che si ascolta non è forse uno Stravinskij rivelatore ma è sicuramente suonato molto bene, solido e serrato, cosa tutt’altro che banale considerata la difficoltà della partitura.

Tra i due brani citati trova spazio un altro colosso del Novecento russo: Dmitrij Šostakovič con il suo Concerto per violino n. 1 in la minore, op. 77. Ray Chen è il classico baby fenomeno che sta entrando in quel collo di bottiglia chiamato maturità, che chiede allo strumentista un salto di qualità sul piano interpretativo e “intellettuale” per confermarsi ai massimi livelli. Il valore tecnico di Ray Chen è indiscutibile, anzi, è mostruoso: il dominio della tastiera e del suono è assoluto, sia nelle cascate di note che chiudono la Burlesca, sia nelle lunghe arcate spianate dei movimenti dispari. Il legato è impressionante (anche nel bis bachiano), soprattutto considerando che si sposa a una plasticità della dinamica senza fratture e senza alcun impoverimento del colore. Sul virtuosismo “agile” poi c’è ben poco da dire, tali sono la facilità e la perfezione con cui viene affrontato e superato.

Il concerto di Šostakovič però chiede anche qualcosa di più, qualcosa che il giovane Chen, con i suoi 28 anni, non può dare fino in fondo. C’è sì lo studio approfondito, c’è l’espressività “giusta”, il lavoro di bulino su ogni passaggio e su ogni suono ma, forse proprio per questo, a tratti si ha l’impressione di uno op.77 troppo “per bene”. Resta tra le pagine dello spartito quel qualcosa di non detto, di malato, di soffocato e straziante necessario per restituire l’essenza del Concerto nella sua pienezza.

Certo si tratta di fare le pulci a un’esecuzione maiuscola, che infatti ha acceso l’entusiasmo del pubblico (anche nei momenti meno opportuni, come nel finale dello Scherzo). Giova poi molto all’eccellente riuscita musicale del brano la sensibilità del Conlon accompagnatore, ben lungi dall’essere un comprimario, e l’intelligenza del violinista nel sapersi appoggiare all’orchestra, rinunciando a certi vezzi divistici assai comuni e deteriori.

Come accennato, trionfo per tutti con punte di assoluto entusiasmo per Ray Chen, che può congedarsi solamente dopo aver concesso due bis (Capriccio n.21 di Paganini e Gavotta en rondò dalla Partita per violino n.3 di Bach).