12 luglio 2012

L’Elisir d’Amore alla Fenice di Venezia

Che strano personaggio Nemorino. Questo giovane stralunato, ingenuo, innamorato, non troppo sveglio, che pure sa trovare momenti di poesia della più autentica e sincera. Dicono sia un mezzo pazzo, un idiota, un buffone, lo scemo del villaggio insomma; eppure Nemorino ha ragione, a dispetto di tutti e tutto. Ha ragione a credere nel filtro d’amore, alla storia della regina Isotta, alle cialtronerie di Dulcamara, ha ragione quando, sulla voce sublime del fagotto, scorge il cuore di Adina schiudersi e la furtiva lagrima accarezzarle il viso.

L’Elisir d’Amore è una storia facile-facile, immediata, spassosa, i personaggi che ricalcano i tipici stereotipi della commedia dell’arte nonostante le forzature e le improbabili esagerazioni conquistano sempre e sanno farsi credere, immersi come sono in un mondo sospeso ed eterno.



Alla Fenice di Venezia torna il capolavoro di Donizetti nell’allestimento tradizionale che più tradizionale non si può di Bepi Morassi. Abiti, luoghi e scenografia sono quelli che ci aspetta di vedere, l’ambientazione è villereccia come da libretto, tele dipinte e fondali d’antan fanno il resto. Avranno tirato un bel sospiro di sollievo quanti erano inorriditi dinanzi alle “provocazioni” di Bieito. Nel complesso lo spettacolo non dispiace ma certo non sorprende, la regia è saputa ancor prima di andare in scena, alcune trovate sono pure simpatiche, molte stucchevoli, altre di gusto decisamente perfido. Adina è smorfiosetta come siamo abituati a pensarla, Nemorino sempliciotto e un po’ gonzo, Belcore fa il grand’uomo e Dulcamara gigioneggia come ha sempre fatto ogni Dulcamara, con tutte le ruffianerie di circostanza. Niente di nuovo sotto il sole.

Omer Meir Wellber è ormai di casa sul podio del teatro veneziano ed è un bene che sia così. Con l’Elisir d’Amore non replica l’eccellente prova di Carmen ma offre una lettura corretta, asciutta, senza scadere in facili sentimentalismi ma anche senza emozionare troppo, ad esclusione di alcuni momenti particolarmente indovinati (un finale primo tinte pastello e una furtiva lagrima trasognante). Ciò che manca è un maggiore approfondimento nel fraseggio come nella ricerca del colore orchestrale, quasi fosse frenato da un’incomprensibile (ma neppure troppo) prudenza. Il direttore ha il merito di condurre l’orchestra senza sbavature e senza mai sovrastare le voci, non quello di recuperare i solisti quando si perdano per strada.

Questo Elisir d’Amore era anche un’occasione per ascoltare la premiata ditta Alberlo-Rancatore che da qualche tempo riscuote grandi successi nei teatri di mezzo mondo. Celso Albelo è un bravo cantante, la voce è bella, omogenea ed estesa, non grande ma sonora, il registro acuto facile e squillante, l’interprete è convenzionale ma efficace. La furtiva lagrima, forse troppo estroversa laddove sarebbe piaciuto ascoltare una lettura più intima e raccolta, è stata di gran lunga il momento più felice della serata, anche grazie al magico accompagnamento di Wellber.

Desirée Rancatore conosce la parte di Adina anche al contrario, la musicalità è eccellente, la voce che nelle zone basse del pentagramma suona piuttosto opaca ed intubata trova sfogo in un settore acuto sfacciatamente brillante e sicuro che il soprano esibisce ogni qual volta ne abbia occasione. Se i momenti più lirici, che richiederebbero altra sostanza vocale, non sono sembrati i più riusciti, l’aria del secondo atto con tanto di fuochi d’artificio conclusivi ha raccolto un trionfo di applausi.

Alessandro Luongo avrebbe tutte le carte in regola per fare un ottimo Belcore: volume, presenza, bel colore ed effettivamente il canto è risolto al meglio. Paga lo scotto di una regia caricaturale che lo costringe a rendersi ridicolo oltre ogni limite di sopportazione.

Simile impostazione per il Dulcamara di Elia Fabbian il quale ha però poco da offrire alla parte oltre ad un cospicuo peso vocale. L’interprete è generico e si limita a ricalcare i tradizionali vezzi del dottore imbroglione, la musicalità da rivedere, soprattutto nei momenti di sillabato stretto. La Giannetta di Oriana Kurteshi ha voce piccola e non bella, l’intonazione non è sempre precisa ma sa disimpegnarsi bene in scena.

A fine spettacolo accoglienza trionfale per tutti da parte di un pubblico estremamente divertito con punte di entusiasmo per Albelo e Rancatore.

Paolo Locatelli
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