27 marzo 2017

La Carmen di Bieito e Chung al Teatro La Fenice

Se si prende uno spettacolo tra i più importanti degli ultimi vent’anni – la Carmen di Calixto Bieito lo è senza ombra di dubbio – e lo si affida a un direttore d’orchestra dalla personalità eccentrica e delle abilità stregonesche nel distillare suoni e teatro, il risultato è garantito.



Lo spettacolo di Bieito mette da parte l’oleografia delle Carmen in costume, spogliando palco e personaggi di ogni orpello per restituire all’opera tutta la sua forza drammatica e teatrale. Carmen è una storia d’amore e di morte, la storia di una donna che sceglie di rivendicare il proprio diritto di essere libera fino alle estreme conseguenze.

Nelle scene di Alfons Flores non c’è spazio per il folclore: la presenza del popolo è ridotta all’osso, la corrida vagamente accennata dalla sola sagoma di un toro (quello del brandy Osborne), zingari e contrabbandieri si muovono su vecchie Mercedes scassate. L’azione è spostata in un passato prossimo degradato, un sud periferico e torrido fatto di miseria e violenza. La Spagna è richiamata esplicitamente dalla sola bandiera che sventola su un pennone. Ed è una Spagna polverosa ed assolata in cui si scontrano ed intrecciano due mondi opposti ma profondamente simili, figli della stessa cultura machista: il mondo militare, fatto di soprusi, corruzione e nonnismo (in cui non è difficile scorgere il fantasma della dittatura franchista) e quello dei contrabbandieri. Due fronti della maschilità più rozza e volgare, caratterizzati da una virilità esibita e deviata. Le donne sono il collante tra questi poli, o meglio la merce di scambio, donne abusate con la complicità dell’alcol, prostitute per necessità piuttosto che per scelta sin dalla più tenera età.

Il lavoro del regista sui personaggi in scena è curato nel minimo dettaglio fino all’ultima delle comparse, il ritmo è indiavolato, salvo poi trovare pace in momenti di assoluta poesia (come il Preludio al terzo atto).

Il disegno luci di Alberto Rodriguez Vega è un piccolo capolavoro. 

Myung-whun Chung, oltre ad essere l’alchimista del podio che tutti conoscono, ha un’altra grande virtù: sa raccontare quanto accade sul palco, valorizzandolo al massimo livello. Già ne diede prova lo scorso anno, quando parve animare di un’inedita poesia la pallida Madama Butterfly di Mariko Mori. La Carmen di Bieito ovviamente non necessita di nessuna defibrillazione ma può giovarsi di una lettura orchestrale che marci nella sua stessa direzione. E Chung, fin dalle stilettate che aprono l’Ouverture, dimostra di calarsi alla perfezione nel quadro dipinto dal regista. Al di là della compattezza narrativa e della preziosità della concertazione, che quando si parla del maestro coreano sono date per scontate, c’è infatti un’aderenza al palco per quanto attiene i colori, le suggestioni, che lascia di stucco. Pur nella ricchezza di finezze e nuances, nella perfetta esposizione del dettaglio e dei piani sonori, Chung non dà mai l’impressione di suonarsi addosso o di voler stendere in una calligrafia ricercata la partitura. Questa Carmen è puro teatro, è un pugno in pancia.

Basterebbe prendere quell’Habanera scabra e secca, staccata senza alcun compiacimento ritmico e con un’asciuttezza quasi ruvida dei violoncelli, o il finale primo, che stende come un montante ben assestato, oppure ancora il tema del Toreador, sorridente e civettuolo nei Couplets, cupo di una malinconia soffocata e vagamente sensuale quando lo riprendono, sempre i celli, nello scontro finale di terzo atto, quasi sardonico allorché risuona ancora nelle ultime battute.

Tutto perfetto dunque? Sì e no. C’è infatti un “ma”: i tagli. Non si parla solo dei dialoghi, di cui non resta che qualche traccia, ma anche di parecchia musica (l’amputazione del concertato dei contrabbandieri “Quant au douanier, c’est notre affaire” grida vendetta!).

Ciò detto, l’Orchestra della Fenice suona eccellentemente in ogni sezione: scattante, levigata, brillante, e il coro preparato da Claudio Marino Moretti è una meraviglia.



Veronica Simeoni, Carmen, canta bene, a tratti benissimo; la voce è bella e luminosa, soprattutto in alto, e regge senza patimenti la scrittura. Il disegno di Bieito però richiede qualcosa di diverso in termini di personalità e attitudine: la Simeoni è una protagonista troppo “buone maniere” per questi bassifondi degradati, le manca quella sensualità brada e animalesca, anche un po’ volgare, che è la cifra essenziale di Carmen per come l’ha pensata il regista.

Il Don Josè di Roberto Aronica soffre di qualche eccesso di ruvidezza nel canto ma tiene valorosamente la scena.

Ekaterina Bakanova, Micaëla, è il genere di artista che quando sta sul palco vive per il personaggio, senza sprecare né un gesto, né una nota. Ogni intenzione, sia essa una semplice occhiata, uno scatto, un pianissimo o un dettaglio di fraseggio, è in funzione della musica e, soprattutto, del teatro. 

Vito Priante è senza dubbio un cantante raffinato e sensibile, capace di modellare il canto con eleganza e morbidezza, ma la parte di Escamillo sembra stargli ancora larga, soprattutto in termini di volume e spessore.

Meritano un elogio Laura Verrecchia (Mercédès) e Claudia Pavone (Frasquita) che sono bravissime entrambe, così come Armando Noguera e Loïc Félix, rispettivamente un Dancaïre e un Remendado di alto profilo. 
Buona la prova di Matteo Ferrara, Zuniga; all’altezza il Moralès di Francesco Salvadori.

Bravissimi sotto ogni punto di vista i Piccoli Cantori Veneziani diretti da Diana D’Alessio.

Successo pieno, ovazioni da stadio per Chung. Da non perdere.





13 marzo 2017

Les Pêcheurs de Perles di Bizet al Teatro Verdi di Trieste

È vero, nell’isola di Ceylon succede poco o niente. Non è facile per un regista mettere le mani su lavori come Les pêcheurs de perles, figli della moda orientalista che a metà Ottocento imperversava nel teatro operistico europeo, in particolar modo francese. Non è facile perché questo tipo di estetica, che mirava a conquistare il pubblico con gli esotismi di un mondo lontano e favoloso, regge sulla straordinarietà della confezione piuttosto che del contenuto. Non è un teatro dalla drammaturgia forte insomma, e, nel caso specifico dei Pescatori, nemmeno d’azione (lo è in altri casi, ascrivibili soprattutto al grand opéra). 

Foto Fabio Parenzan

Per garantire una fedeltà sostanziale alla natura di tale repertorio, e renderlo accattivante, bisognerebbe essere in grado di riprodurne l’incanto, solleticare nel pubblico quel fascino onirico e misterioso che nasce dal racconto di mondi remoti e sconosciuti. Chiaramente tutto ciò appare difficile al giorno d’oggi, soprattutto se non si dispone di mezzi scenotecnici ed economici da grandi produzioni. Se poi si sceglie di metterla sul piano della tradizione, nell'accezione più frusta del termine, le insidie si fanno ancora più scoperte perché quanto detto finora emerge senza che ci sia spazio per filtri né mediazioni.

È il caso dello spettacolo di Fabio Sparvoli in scena al Verdi di Trieste, che fa della fedeltà al verbo librettiano la propria ragion d’essere. Al di là dei propositi, che non sono mai né giusti né sbagliati, a fare la differenza è la qualità della realizzazione che, nel caso specifico, è assai modesta.

Le scene di Giorgio Ricchelli riproducono con scarsa ispirazione una spiaggia sbiadita e difficilmente praticabile per gli artisti (ha senso produrre delle scenografie che ostacolano la fluidità della recitazione?); sarà l’età dell’allestimento, saranno le numerose riprese in giro per l'Italia, ma davvero l’impianto pensato da Ricchelli tradisce ormai molte, troppe rughe.

Nemmeno la regia riscatta la piattezza delle scene: Carlo Antonio De Lucia, che rimonta lo spettacolo, si limita al minimo sindacale: recitazione stereotipata e piatta sia per i singoli, sia per le masse, assoluta genericità nella definizione dei caratteri.

Foto Fabio Parenzan

Vanno decisamente meglio le cose sul fronte musicale. Oleg Caetani sa dosare tempi e sonorità al fine di garantire la giusta scorrevolezza narrativa. Il palco è sostenuto alla perfezione con un’attenzione che non scade mai nel servilismo, così come curati sono gli equilibri interni all'orchestra. Insomma Caetani svolge un eccellente lavoro di concertazione, ben spalleggiato dall'Orchestra del Verdi che risponde con buona qualità di suono e un’apprezzabile limpidezza.
Si può rimproverare al maestro solamente un eccesso di timidezza nella ricerca dei colori e nelle dinamiche, che si stempera solamente nel concertato che chiude il secondo atto.

Tra i cantanti spicca Mihaela Marcu, Léïla, che ha voce bella ed omogenea sorretta da una consapevolezza tecnica che consente di mantenere l’emissione sempre morbida e rotonda.
Jésus Léon è un Nadir corretto ma pallido, capace di legare e sfumare ad alta quota ma in debito di volume e sostegno nell’ottava grave. 
Lo Zurga di Domenico Balzani è vocalmente all'altezza della situazione. Gianluca Breda è un Nourabad forse un po’ ruvido ma forte di un'ampiezza di strumento non comune. 

Buona la prova del coro preparato da Francesca Tosi.

Ottimo successo di pubblico.

Paolo Locatelli
© Riproduzione riservata

Foto Fabio Parenzan

3 marzo 2017

Francesca Dego torna al Verdi di Pordenone

Il grado di separazione tra Robert Schumann e Johannes Brahms ha un nome e un cognome: József Joachim. Violinista, classe 1831, si impose giovanissimo all’attenzione del mondo musicale, guadagnandosi, tra le altre cose, la stima e l’amicizia degli Schumann. Fu proprio Joachim a introdurre Brahms nella cerchia di Robert e Clara, inaugurando un’amicizia che sarebbe sopravvissuta alla sventurata scomparsa di lui. I meriti di Joachim vanno tuttavia oltre: egli fu il dedicatario e, per certi versi co-autore (si perdoni la forzatura), del Concerto in re maggiore per violino e orchestra, op. 77, o meglio, ne stese la cadenza del primo movimento e consigliò Brahms nella scrittura della parte solista, prima di tenerlo a battesimo nel 1879.


Eppure, a dispetto delle accortezze che il compositore rivolse alla tecnica individuale del violino, il concerto risulta tutt’altro che sbilanciato a suo favore, anzi, è uno dei più fulgidi esempi di equilibrio e raffinatezza di scrittura, ove solista e orchestra giocano alla pari senza che il primo svetti sulla seconda da protagonista assoluto.

È proprio il Concerto per violino di Brahms a suggellare il ritorno sul palco del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone della brava Francesca Dego, già trionfalmente transitata da queste parti un paio d’anni fa. Al suo fianco i Mannheimer Philharmoniker, guidati dal loro fondatore e direttore artistico Boian Videnoff. L’orchestra nasce nel 2009 con il nobile proposito di offrire a giovani musicisti la possibilità di farsi le ossa prima del salto in una grande compagine e ha, com’è ovvio che sia, pregi e difetti della gran parte degli ensemble giovanili: un entusiasmo contagioso nel fare musica unito a una sana incoscienza, ma anche qualche piccola ruvidezza qua e là.

Chi invece, a dispetto della giovane età, di ruvidezze o incertezze pare non averne, è proprio Francesca Dego. La tecnica è d’alta scuola, ma già lo si sapeva, il legato magistrale perché consente, oltre alla fluidità della linea musicale, un’omogeneità di colore che non teme la minima incrinatura. Il suono del violino della Dego è infatti caldissimo e pastoso - le note gravi sembrano quasi uscire da un violoncello – eppure sempre rotondo e morbido. La sicurezza sulla tastiera è poi sorprendente: la sinistra non solo non si perde una nota, ma neppure inciampa in alcuna sbavatura di suono. Tutto è limpido e levigatissimo, sia per quanto attiene al virtuosismo, sia nelle dinamiche. Non meno impressionante è la precisione ritmica, soprattutto nell’Allegro giocoso finale, affrontato con sicurezza quasi irridente. Il tono è appassionato ma sempre nei binari di una giusta misura: anche laddove il vibrato e il calore del suono esaltino un certo sentimentalismo, non c’è mai quell’eccesso di abbandono o di ruffianeria che farebbe scadere un’interpretazione intensa nel manierismo.

Se in Brahms orchestra e direttore rimangono un passo indietro, pur in una sostanziale correttezza, senza valorizzare pienamente la scrittura orchestrale del concerto che, come si diceva, merita d’essere considerata ben oltre il mero accompagnamento al solista, nella seconda parte di concerto i motivi di interesse si fanno assai più stuzzicanti.

La Sinfonia n.4 in re minore, Op. 120 di Robert Schumann esce dalla bacchetta di Boian Videnoff con un fascino controverso ma innegabile. Si può nutrire qualche perplessità per talune scelte nella gestione “in blocco” delle dinamiche, per qualche disomogeneità negli equilibri che tende a favorire archi ed ottoni a sfavore dei legni, però alla fine si rimane conquistati dall’energia e dalla vitalità che il direttore riesce ad imprimere all’opera e dalla tensione con cui sa sostenere l’architettura della sinfonia. Non c’è insomma quel nitore analitico che consente di mettere in luce il minimo particolare, né il fascino dei fraseggi ricercati ma piuttosto un accorto lavoro sull’articolazione, sui tempi (che sono spediti ma plasmati senza eccessi di rigore) e, appunto, sui volumi, che si traduce in un’esuberanza quasi teatrale.

La gestualità di Videnoff potrebbe sembrare talmente passionale da riuscire quasi indecifrabile, non fosse che l’orchestra lo segue alla perfezione, anche in certe audaci dilatazioni della frase (soprattutto nello Scherzo): c’è sì qualche minima incertezza all’interno delle singole sezioni, ma l’insieme regge senza intoppi. I Mannheimer Philharmoniker infatti evidenziano qualche limite di precisione e intonazione nei singoli – soprattutto i violini - ma complessivamente suonano con pregevole compattezza e buona qualità timbrica.

Resta da dire dell’Interludio Sinfonico Träumerei am Kamin, tratto da Intermezzo di Richard Strauss, che ha aperto il concerto ma che ne è stato il momento meno felice, per qualche esitazione di troppo pur in una generale piacevolezza della tinta orchestrale.

Pieno successo di pubblico sia per la Dego, sia per orchestra e direttore dopo Schumann.