Myung-Whun Chung non è un solista nemmeno quando gli tocca farlo. Anche al pianoforte per il Concerto n. 23 di Mozart, sul palco del Malibran per la stagione sinfonica del Teatro La Fenice, pensa da direttore. In fondo ha scelto molto tempo fa verso quale strada direzionare la sua carriera. Ovviamente Chung non ha nelle mani il virtuosismo fluido dei “pianisti” da concerto, il loro tocco suadente, non ha nemmeno una agilità pulitissima: non è più quello il suo mestiere. Eppure quel che fa merita d’essere ascoltato e applaudito.
Chung non è il genere di solista che si fa accompagnare dall’orchestra, né ci si appoggia sopra come un ospite passeggero e intercambiabile, non ha insomma il narcisismo del protagonista. Nell'orchestra lui ci si addentra. La linea del pianoforte è una voce che entra nel tessuto e dialoga con tutte le altre a una profondità che un solista “vero”, fosse anche eccezionale, difficilmente riesce ad esplorare. Perché Chung, appunto, la vede organicamente, dal punto di vista del podio. Sa in ogni momento cosa “dice” ogni altro strumento e sa come deve essere l’interazione con esso, o almeno come lui vuole che sia. Chiama i legni e risponde loro, gioca a sprofondare e riemergere dall’orchestra, arretrando quando necessario o uscendo con grazia senza sgomitare, ma accomodando il suono che lo circonda e il proprio. È in tal senso felicissima la scelta di asciugare al minimo l’organico, che oltre a una leggerezza davvero mozartiana - e dunque dolce e trasparente sì, ma non inconsistente - esprime una qualità musicale di prim’ordine. Mancheranno al Chung pianista i colori delle mani più navigate e quella precisione della meccanica che ormai è nel bagaglio di ogni strumentista più o meno interessante, ma non manca mai il pensiero, l’ampiezza della visione musicale.
Sorprende di meno l’Eroica di Beethoven, non perché di qualità musicale inferiore, tutt’altro, ma perché le doti di affabulatore del podio del maestro coreano sono cosa ben nota. Chung fa un Beethoven concertato divinamente ed equilibrato, non solo nel bilanciamento sonoro, ma anche nelle scelte musicali. È un Beethoven senza eccessi né carenze, in cui drammaticità, respiro e virtuosismo coesistono armoniosamente. Non è una Terza analitica né spiegona, di quelle sviscerate e decostruite fin nel dettaglio, ma semplicemente - si fa per dire - suonata benissimo e senza sofisticazioni.
Di fronte a lui l’Orchestra della Fenice è in una delle sue migliori serate degli ultimi tempi. Gli archi sono sempre morbidi e responsivi, i legni eccellenti - senza fare torto agli altri, l’oboe di Rossana Calvi merita una menzione - gli ottoni e timpani a fuoco e precisi.
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