29 aprile 2017

Lucia di Lammermoor di Donizetti al Teatro La Fenice

Quando si tratta di belcanto, c’è una conditio sine qua non per il pieno successo: la presenza di una grande primadonna. Nel caso della Lucia di Lammermoor in scena alla Fenice di Venezia la grande primadonna c’è e si chiama Nadine Sierra. Lo dico chiaramente, abbandonando ogni prudenza e con il rischio di essere smentito dagli eventi: la Sierra ha talento e tutti i numeri per diventare uno dei soprani più importanti a livello internazionale nei prossimi anni. È bella, carismatica, sa recitare e muoversi “sulla musica” e, soprattutto, ha una padronanza tecnica ed espressiva della vocalità da prima della classe. La sua Lucia, pur collocandosi in scia alla tradizione degli usignoli, è illuminata da una rinnovata freschezza che esalta la modernità del personaggio: ne esce una protagonista della delicatezza adolescenziale al cui candore e alla cui giovinezza, per una volta, si crede ciecamente. 


C’è sì, sul fronte musicale, tutto il campionario di acuti e variazioni che una simile impostazione comporta e che potrà far storcere il naso a qualcuno - c’è insomma più virtuosismo che “corpo” vocale – eppure tutto ciò è ottenuto tramite una pulizia della linea e una raffinatezza espressiva del canto che alla fine conquista oltre ogni perplessità.

Il bagaglio tecnico della Sierra è infatti adattissimo all’opera italiana della prima metà di Ottocento: legato, omogeneità di emissione in ogni registro e in ogni modulazione dinamica, buone agilità e sovracuti insolenti e facili.

Le fanno degno contorno, pur restando un passo indietro, gli altri cantanti. A Francesco Demuro, Edgardo, manca qualcosa  in termini di legato e morbidezza d’emissione per risolvere nel migliore dei modi la parte ma è per il resto autore di una prova convincente, soprattutto per temperamento e presenza scenica.

Se la cava bene Markus Werba, Enrico Asthon di bel timbro e sana vocalità nonché eccellente attore. Il Raimondo Bidebent di Simon Lim si impone per lo spessore dello strumento.

Molto positivo il contributo di Francesco Marsiglia (Lord Arturo Bucklaw), Angela Nicoli (Alisa) e di Marcello Nardis, Normanno.



Riccardo Frizza ha molti meriti nell’eccellente riuscita musicale della produzione, firmando una direzione esemplare per efficacia teatrale ed equilibrio della concertazione. Frizza trova la giusta misura nel valorizzare il respiro melodico della partitura, centrando una pregevolissima flessibilità nei fraseggi, senza rinunciare al necessario impeto nelle pagine più drammatiche. Il palco è sorretto al meglio con un'attenzione al canto, indispensabile nel repertorio belcantistico, che non inciampa mai nel servilismo.

Giova molto alla compiutezza drammaturgica dello spettacolo il fatto che l’opera sia restituita nella sua (quasi) totale integrità, con la glassarmonica in buca ad accompagnare la pazzia.

L’Orchestra della Fenice è in splendida forma e si conferma agli alti livelli cui ci ha abituati negli ultimi tempi. Merita un elogio l’ottima arpa di Nabila Chajai.



Resta da dire di Francesco Micheli, il quale legge Lucia di Lammermoor come la storia di un uomo che perde tutto: Enrico. Lo spettacolo parte da un flashback attraverso cui il fratello della protagonista rivive, tra fantasmi soffocati dall’alcol e tormenti, i propri fallimenti. Enrico non solo non è stato capace di salvare la propria famiglia dalla rovina, ma ha immolato al tentato riscatto ogni bene, a cominciare dalla vita di Lucia. 
Sullo sfondo c’è qualche richiamo, non troppo velato, al popolo italiano, divorato da lotte interne e divisioni ereditate dai padri, al pari degli Asthon e dei Ravenswood. I bei costumi di Alessio Rosati, giocati tra il verde, il bianco e il rosso, sono in tal senso emblematici.

Al di là dell’idea, che potrà piacere o meno, va riconosciuta al regista la capacità di darle corpo: la recitazione degli artisti sul palco è curata e fluida (pur con qualche sottolineatura di troppo qua e là), le masse sono ben manovrate, in particolar modo nella riuscitissima scena del ricevimento di Arturo. Di ciò va reso merito al Coro della Fenice preparato da Claudio Marino Moretti che, oltre a cantare splendidamente come di consueto, offre una prova maiuscola anche sul versante attoriale.

Le scene di Nicolas Bovey sono al servizio del taglio drammaturgico: un ammasso di vecchia mobilia in abbandono accoglie la vicenda, ricordando l’ormai inesorabile decadenza delle due famiglie scozzesi.
Efficace il disegno luci di Fabio Barettin.

Trionfo per tutti a fine recita, ovazioni da stadio – anche e soprattutto a scena aperta – per la protagonista.




11 aprile 2017

Tristan und Isolde al Teatro Verdi di Trieste

Quando a fine primo atto Tristano e Isotta cadono a terra privi di sensi, dopo aver bevuto il filtro d’amore, ho pensato per un attimo che il disegno registico di Guglielmo Ferro svoltasse clamorosamente, scombinando tutto d’un tratto le carte dell’onesta tradizione. Prendendo per buona l’idea schopenhaueriana rimasticata da Wagner secondo cui l’appagamento del desiderio sta nella rinuncia e quindi l’amore si realizza nella sua forma più estrema, la morte, questo dettaglio potrebbe ribaltare le prospettive. Spalancare gli abissi della fine nel momento esatto in cui i protagonisti si innamorano è brillante, almeno potenzialmente. Amore e morte non solo si toccano, si guardano negli occhi, ma nascono esattamente nello stesso istante.

Foto Fabio Parenzan

La trovata avrebbe un suo fascino e soprattutto una sua ragione drammaturgica, a patto che venisse in seguito ripresa e sostenuta. Invece tutto si ferma lì, per tornare su comodi sentieri già battuti, con poche idee e qualche scivolone di troppo nella pratica (perché chiedere a due artisti maturi, e nemmeno troppo scaltri nella recitazione, pose adolescenziali nel duettone? Ammesso e non concesso che le speculazioni filosofeggianti del momento si prestino a una simile impostazione).
Insomma, dopo un primo atto alterno, il secondo inciampa in qualche ingenuità, mentre le cose migliori si vedono nella terza parte che, pur non riservando particolari sorprese, ha una sua sobria coerenza narrativa e si giova di un finale assai indovinato, forse il momento di teatro più intenso dello spettacolo: Isotta si stende accanto al corpo esanime di Tristano per addormentarsi al suo fianco, dopo averlo avvolto nel proprio mantello.

Per il resto la regia non si segnala per particolari guizzi, tra pose stereotipate e qualche eccesso di staticità, i secondi comunque preferibili alle prime.

Le scene di Pier Paolo Bisleri non sono bellissime ma hanno una loro efficacia nel tratteggiare un ambientazione fosca e notturna. Senz’altro anch’esse, come del resto tutto l’allestimento, si avvantaggerebbero di un disegno luci più vario e fantasioso.

Foto Fabio Parenzan

Chi ha le idee molto chiare sull’opera e riesce a metterle in pratica senza cedimenti è Christopher Franklin che, spalleggiato da un’orchestra in forma smagliante, firma una prova in cui la pulizia della concertazione si fa essa stessa cifra interpretativa. È un Wagner sgrassato e limpido, a tratti quasi cameristico per la levità del suono e la delicatezza degli equilibri.

Che Tristan und Isolde sia una partitura assai più “leggera”, in termini di sonorità e impasti, rispetto ad altro Wagner non è certo una scoperta, ma riuscire a evitare il turgore e la densità senza perdere di contenuto, o peggio riuscire esangui o secchi nel suono, è un bel traguardo, e Franklin lo centra a meraviglia. La tinta orchestrale è cupa senza mai risultare pesante né confusa, il “balancing” impeccabile così come il sostegno al palco. I tempi tendenzialmente spediti aiutano la scorrevolezza della narrazione, pur senza eccessi di frenesia. Certo si tratta di una lettura che scontenterà i cultori della magniloquenza, al pari di chi si aspetti un’epicità poderosa. Franklin guarda in direzione opposta, verso un lirismo intimo e raccolto fatto di sfumature e mezzetinte.

Come accennato l’Orchestra del Verdi suona benissimo per qualità timbrica e precisione, al netto di qualche piccola sbavatura incidentale. Eccellenti gli archi per pasta e colore, sugli scudi i legni.

Foto Fabio Parenzan

Funziona nel complesso un cast che forse non gioca per la Serie A ma che sa ben difendersi in un’opera tanto faticosa. L’Isolde di Allison Oakes ha tutte le note richieste dalla parte e la resistenza necessaria ad arrivare in fondo con freschezza. La voce non è speciale ma sicuramente adatta al repertorio, soprattutto in ragione di un’ottava acuta sonora e penetrante. Ciò che manca al soprano è un briciolo di personalità nel tenere il palco e nel definire il personaggio.

Se la cava Bryan Register, Tristan, pur con qualche scricchiolio di troppo nella tenuta vocale e, soprattutto, un carisma scenico non travolgente.

Molto positiva la prova di Nicolò Ceriani, Kurwenal di bel timbro e volume ampio. Alexey Birkus è un Marke cui difetta un po’ di spessore vocale ma ben calato nella parte e sufficientemente espressivo nel declamato.
Alla Brangäne di Susanne Resmark manca la necessaria brillantezza negli acuti per convincere pienamente.

Il Melot di Motoharu Takei, il giovane marinaio di Andrea Schifaudo, il pastore di Dax Velenich e il timoniere di Hitoshi Fujiyama si comportano egregiamente.

Inappuntabili gli interventi del coro preparato da Francesca Tosi.

Grande successo di pubblico alla prima. Spettacolo da non perdere.

Foto Fabio Parenzan

5 aprile 2017

Gabriela Montero e l'Orchestra Leonore a Pordenone

Per capire Gabriela Montero bisogna partire dalla fine. Terminato il Concerto per pianoforte e orchestra di Edvard Grieg, quando sarebbe l'ora di risedersi al pianoforte per i bis, la pianista decide di improvvisare, chiede al pubblico un tema musicale e ci gioca sopra. Il risultato è sorprendente, anzi, esaltante. Un turbine di tecnica, virtuosismo, fantasia ed emotività. Il "cuore" infatti, in questo stato di trance vagamente posata cui si crede fino a un certo punto, è centrale, o almeno la Montero fa di tutto per dare l'impressione che lo sia. Ci si trova di fronte a un enthousiasmós iperemotivo, un tantino retorico ma conturbante, soprattutto nel momento in cui la sostanza prevale sulla forma e la verità sulla sensazione. Tutto ciò avviene alla fine, quando il pubblico suggerisce Summertime (da Porgy and Bess di Gershwin) e lei ci si tuffa dentro con tutta se stessa, dedicando il pezzo al suo Venezuela, che sta attraversando momenti davvero bui. E qui, dopo qualche minuto di grande intensità, un magone profondo le spegne le dita. La Montero si emoziona, si commuove, e la sala con lei. Poco prima da "la donna è mobile" nasce invece uno spettacolo pirotecnico imbevuto di jazz, con tutt’altro spirito.


Quanto si ascolta nelle improvvisazioni compendia l'arte della pianista. Il suo Grieg è su per giù la stessa cosa: emotivo, sanguigno, un filo ammiccante ma funambolico. La Montero domina la tastiera con una facilità irridente: sa cavarne suoni di strepitosa bellezza (l’attacco dell’Adagio è puro cristallo, poche volte abbiamo sentito il Fazioli del Verdi produrre qualcosa di simile), sa trattare i tasti a carezze ma anche frustarli con un vigore esplosivo. L'agilità sul pianoforte è da fuoriclasse, lei lo sa e ci marcia un po' sopra. La sensazione generale, di fronte a questa artista, è che ci sia a tratti la voglia di stupire, di conquistare il pubblico anche senza rinunciare a qualche trucchetto o ruffianata, siano essi espedienti retorici che attengono al ritmo, all'espressività (un certo indugiare sul tempo, lo sfasare bassi e mano destra) o appunto a un’esasperazione della passionalità.

Al suo fianco, o per meglio dire dietro di lei, l'Orchestra Leonore diretta da Daniele Giorgi si rivela un’eccellente spalla: benissimo nel Mattino dal Peer Gynt di Grieg che apre il concerto, dipinto con una trasparenza ammaliante, altrettanto nel Concerto per pianoforte e orchestra op.16.

Più controversa invece la Sinfonia n. 4 in mi minore Op. 98 di Johannes Brahms che non parte al meglio, con qualche sbavatura di troppo nel Primo movimento, per decollare poi con l’Andante moderato, almeno per quanto riguarda la prova della Leonore. L'orchestra infatti suona davvero bene, trovando, oltre alla precisione, un bel colore scuro e compatto ed esibendo prime parti di tutto rispetto. La direzione di Daniele Giorgi è attenta agli equilibri e a tenere insieme il quadro ma non riesce a valorizzare pienamente la complessità della scrittura, risultando eccessivamente omogenea nei colori e piatta nei fraseggi.

Ottima l’accoglienza del pubblico pordenonese con punte di entusiasmo per Gabriela Montero.