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4 dicembre 2024

L'Otello di Francesco Meli alla Fenice

   È stata un’inaugurazione di stagione tribolata quella del Teatro La Fenice, con la prima recita di Otello cancellata per lo sciopero indetto dai lavoratori a causa di divergenze con la dirigenza che purtroppo sembrano lontane dal trovare una via d’incontro, e il debutto di Francesco Meli nella parte rimandato di una manciata di giorni.


   Quello di Meli, che ha l’intelligenza di cantare la parte con la propria voce, è chiaramente un Otello di ascendenza lirica, quindi non si accoda né alla tradizione dei tenori drammatici di pasta scura, né a quella delle trombe d’argento con un registro acuto sfavillante, ma risulta più a suo agio nei passaggi cantabili e centrali, in cui si chiede all’interprete di pennellare la frase, piuttosto che negli sfoghi in alto, che riescono cauti se non - come nel caso del do della “cortigiana” - difficoltosi.

   Dunque sì, manca un po’ di “punta” nell’"Esultate" o nell’"Ora e per sempre addio", ma d’altro canto sono assai felici i momenti più introspettivi come “Dio, mi potevi scagliar” e il finale, ben cesellati nella dinamica e nel legato. Se la prova della resistenza vocale in una parte così pesante può dirsi superata con successo, si apprezza altresì la cifra personale nella caratterizzazione del personaggio nel suo lato più umano che guerriero, con l’ineluttabile condanna a un doloroso precipizio verso l’abisso.

   Chi convince senza riserva alcuna è Luca Micheletti, che fa uno Jago splendidamente cantato, forte di un'omogeneità di emissione e di timbro che non si incrina neanche negli scomodissimi passaggi in acuto della scrittura, in cui molti baritoni finiscono per impiccarsi, e di un controllo del fiato da manuale che gli consente di filare in mezzavoce il mi “dolcissimo” del “Sogno”. La prova vocale maiuscola è tuttavia solo un aspetto di una presa di personaggio totale, in ogni inflessione e gesto e nel dominio della parola scenica.

   La Desdemona di Karah Son è un mezzo mistero. La voce ha timbro peculiare e uno strano vibrato stretto cui ci si abitua a fatica, e tende a espandersi con grande volume solo in alcune note dell'ottava alta, che poi sono quelle su cui battono gli sfoghi drammatici della parte. Ciò premesso, è innegabile che il soprano sappia il fatto suo, come dimostrano un “Salce” e un’Ave Maria finemente cesellati nella dinamica, fin nei pianissimi ad alta quota, che si giovano dello splendido accompagnamento ordito da Myung-Whun Chung, il quale riaffronta l’opera a Venezia per la quarta volta negli ultimi undici anni.

   Rispetto ai precedenti, tuttavia, il direttore in quest'occasione dà la sensazione di unire all’esuberanza bruciante dei passi più concitati, come l’uragano, il finale secondo o il concertato che chiude il terzo atto, dipanati con un virtuosismo tesissimo, una più intima ampiezza di respiro nei tempi lenti.

   È proprio grazie alla sensibilità nello sbalzare i contrasti e alla capacità di rendere il dato descrittivo della musica che Chung riesce a dettare in prima persona lo sviluppo drammaturgico e psicologico dei personaggi, e quindi la regia stessa, intesa come ritmo teatrale della narrazione. Come si osserva ormai da molti anni, con il maestro coreano sul podio l’Orchestra della Fenice si esprime al massimo delle proprie potenzialità, sia per brillantezza d’amalgama, sia per duttilità in termini di dinamiche e di palette timbrica.

   Per quanto riguarda la regia vera e propria invece, che porta la firma di Fabio Ceresa, il lato più interessante è proprio l'esplorazione dell'evoluzione caratteri maschili principali, soprattutto di quello di Otello - un Otello "bianco", scelta a quanto pare molto divisiva -, con il suo progressivo vacillare in balia dei tranelli di Jago e l’adombrarsi della sua lucidità fino a perdere il senno.

   Per il resto lo spettacolo si inserisce nello scaffale della tradizione. La vicenda è esposta in modo chiaro e lineare, senza particolari guizzi, al netto di un gruppetto di danzatori che danno forma, in modo piuttosto didascalico, ai tarli demoniaci che vanno annidandosi nella mente del protagonista, a sua volta mimato da una sorta di doppio con le sembianze del Leon di Venezia. I rimandi alla città sono presenti anche nella scenografia di Massimo Checchetto, che si ispira alle decorazioni della Basilica di San Marco, evocata dal pannello fisso a tre archi che divide il palco in due porzioni, una anteriore e una posteriore rialzata, dai figuranti che ne citano l'iconografia e dai costumi di Claudia Pernigotti.

   Tuttavia, per appagare l'occhio, un impianto così ambizioso avrebbe richiesto una realizzazione più dettagliata e doviziosa, soprattutto per quanto riguarda le videoproiezioni che scorrono sullo sfondo richiamando ora il cielo stellato, ora gli stessi mosaici bizantini.

   Tornando al cast, sono alterne le parti di fianco. Francesco Marsiglia è un Cassio corretto ma ingessato, Enrico Casari un Roderigo più che convincente. Positive le prove di Anna Malavasi, Emilia, Francesco Milanese, Lodovico, e di William Corrò, Montano. È affidabile Antonio Casagrande negli interventi dell’araldo. Serata decisamente da ricordare per compattezza e precisione per il Coro della Fenice di Alfonso Caiani così come è lodevole il contributo dei Piccoli Cantori Veneziani, preparati da Diana D’Alessio ed Elena Rossi.

Successo pieno per tutto il cast e protagonista giustamente festeggiato al suo debutto nella parte anche dal pubblico.

24 dicembre 2023

Myung-Whun Chung dirige Beethoven e Stravinskij

   Negli ultimi anni Myung-Whun Chung si è autoesiliato in un repertorio sempre più ristretto, riconducibile grossomodo a una manciata di compositori tra i quali Beethoven occupa una posizione di predominio. Sembrava essere invece sparito dai suoi radar Igor Stravinskij, che pure negli anni francesi alla Bastille prima e all’Orchestre Philharmonique de Radio France poi aveva rivestito un ruolo tutt'altro che marginale nella sua attività, sia dal vivo che in sala di registrazione. Almeno fino ad oggi.

Myung-Whun Chung dirige Beethoven e Stravinskij
foto Teatro La Fenice

   L’occasione di riascoltare Chung alle prese con il compositore russo l’ha offerta il Teatro La Fenice con il secondo concerto della stagione sinfonica 2023-24, primo passo di un riavvicinamento che nei prossimi mesi coinvolgerà anche altre orchestre, tra cui quella di Santa Cecilia, dove a gennaio il direttore coreano riproporrà il medesimo programma: Sinfonia n. 6 in fa maggiore op.68 seguita da Le Sacre du printemps.

   La Pastorale già sulla carta pareva un lavoro che ben si sposa con le caratteristiche del direttore, con la sua delicatezza di trama e il clima arcadico, ideali per un musicista il cui approccio è più versato a legare e ammorbidire che enfatizzare i grandi slanci drammatici. Alla prova dei fatti è proprio così. Chung asseconda lo sviluppo costruttivo della pagina senza sviscerarne con puntiglio didascalico il processo costruttivo tema per tema, ma dando agio ai rivoli orchestrali di distendersi come giocassero a rincorrersi e intrecciarsi. Qualcosa che emerge in particolar modo nel secondo movimento con una naturalezza commovente.

   È un Beethoven sorgivo e crepitante, animato da una equa distribuzione di plasticità nel modellare le voci orchestrali e tensione ritmica, ma altresì privo di gesti teatrali forti o di marcature, come lo pervadesse una serenità di fondo, in cui la natura “evocata” non appare mai come minacciosa o imbronciata nemmeno nei suoi sfoghi più tempestosi, ma conciliante e benigna.

   L’approccio a Le Sacre du printemps non è dissimile. Chung non ne estremizza la dimensione barbarico-tribale, né calca la mano sui tratti animaleschi - quelli che Bernstein riconduceva all’istinto riproduttivo - e grotteschi, ma la sveste delle stratificazioni di significati che vi sono stati accostati nel tempo, limitandosi, si fa per dire, a svelare la pagina. Ne esce una prova di virtuosismo strumentale e pilotaggio ad alta velocità in cui l'impulso ritmico prevale sul colore. Non è insomma un Sacre caricaturale o acuminato, ma più versato alla scorrevolezza e all'equilibrio.

   E qui l'Orchestra della Fenice, già protagonista di una prova maiuscola per nitidezza nella sinfonia di Beethoven, sorprende. Sorprende perché quel velo di cautela e di incertezza che ci si potrebbe aspettare da una formazione disabituata a questo repertorio semplicemente non si avverte. Tutt’altro, l'orchestra non si limita a restituirne un'esecuzione dignitosa e corretta, ma azzanna la pagina con coraggio affidandosi e assecondando il podio in ogni sua sferzata e palesando una qualità dei singoli mai disgiunta dalla brillantezza di fondo dell’amalgama.

   Successo molto caloroso sia dopo la prima parte che a fine concerto.

22 dicembre 2023

Myung-Whun Chung tra Beethoven e Stravinskij

   Negli ultimi anni Myung-Whun Chung si è autoesiliato in un repertorio sempre più ristretto, riconducibile grossomodo a una manciata di compositori tra i quali Beethoven occupa una posizione di predominio. Sembrava essere invece sparito dai suoi radar Igor Stravinskij, che pure negli anni francesi alla Bastille prima e all’Orchestre Philharmonique de Radio France poi aveva rivestito un ruolo tutt'altro che marginale nella sua attività, sia dal vivo che in sala di registrazione. Almeno fino ad oggi.


   L’occasione di riascoltare Chung alle prese con il compositore russo l’ha offerta il Teatro La Fenice con il secondo concerto della stagione sinfonica 2023-24, primo passo di un riavvicinamento che nei prossimi mesi coinvolgerà anche altre orchestre, tra cui quella di Santa Cecilia, dove a gennaio il direttore coreano riproporrà il medesimo programma: Sinfonia n. 6 in fa maggiore op.68 seguita da Le Sacre du printemps.

   La Pastorale già sulla carta pareva un lavoro che ben si sposa con le caratteristiche del direttore, con la sua delicatezza di trama e il clima arcadico, ideali per un musicista il cui approccio è più versato a legare e ammorbidire che enfatizzare i grandi slanci drammatici. Alla prova dei fatti è proprio così. Chung asseconda lo sviluppo costruttivo della pagina senza sviscerarne con puntiglio didascalico il processo costruttivo tema per tema, ma dando agio ai rivoli orchestrali di distendersi come giocassero a rincorrersi e intrecciarsi. Qualcosa che emerge in particolar modo nel secondo movimento con una naturalezza commovente.

   È un Beethoven sorgivo e crepitante, animato da una equa distribuzione di plasticità nel modellare le voci orchestrali e tensione ritmica, ma altresì privo di gesti teatrali forti o di marcature, come lo pervadesse una serenità di fondo, in cui la natura “evocata” non appare mai come minacciosa o imbronciata nemmeno nei suoi sfoghi più tempestosi, ma conciliante e benigna.

   L’approccio a Le Sacre du printemps non è dissimile. Chung non ne estremizza la dimensione barbarico-tribale, né calca la mano sui tratti animaleschi - quelli che Bernstein riconduceva all’istinto riproduttivo - e grotteschi, ma la sveste delle stratificazioni di significati che vi sono stati accostati nel tempo, limitandosi, si fa per dire, a svelare la pagina. Ne esce una prova di virtuosismo strumentale e pilotaggio ad alta velocità in cui l'impulso ritmico prevale sul colore. Non è insomma un Sacre caricaturale o acuminato, ma più versato alla scorrevolezza e all'equilibrio.

   E qui l'Orchestra della Fenice, già protagonista di una prova maiuscola per nitidezza nella sinfonia di Beethoven, sorprende. Sorprende perché quel velo di cautela e di incertezza che ci si potrebbe aspettare da una formazione disabituata a questo repertorio semplicemente non si avverte. Tutt’altro, l'orchestra non si limita a restituirne un'esecuzione dignitosa e corretta, ma azzanna la pagina con coraggio affidandosi e assecondando il podio in ogni sua sferzata e palesando una qualità dei singoli mai disgiunta dalla brillantezza di fondo dell’amalgama.

Successo molto caloroso sia dopo la prima parte che a fine concerto.

1 dicembre 2022

Falstaff inaugura la Stagione del Teatro La Fenice

  Può darsi che tornare all'antico non sia necessariamente un progresso, come sosteneva invece Verdi in una delle sue “quote” più abusate e travisate, ma di certo alle volte può essere un buon affare. Adrian Noble, quando ha pensato al Falstaff che ha aperto la stagione del Teatro La Fenice, è andato indietro nei secoli fino al tempo di Shakespeare e del teatro elisabettiano, calando le furfanterie di Sir John e delle gaie comari in quel Globe Theatre in cui la produzione del Bardo ha visto la luce.


  Rassicurante tradizione potrebbe dire qualcuno, celando una punta di snobismo, e può darsi che in parte lo sia, ma solo in parte. Quella cui si rifà Noble è piuttosto una tradizione accogliente, sia verso lo spettatore, digiuno o navigato che sia, sia verso le infinite sfumature di umanità che Verdi e Boito mettono nel loro capolavoro. Assolve insomma a quel proposito di universalità che le opere come questa racchiudono in sé. Un Falstaff che è teatro nel teatro, in cui diventa man mano più complicato distinguere quale sia la recita - nel primo atto è semplice: le trame di Windsor procedono nella platea del Globe mentre sul palco va in scena il Sogno di una notte di mezza estate davanti allo sguardo attento di William Shakespeare  - e quale la "realtà". O meglio, cosa sia teatro, inteso come imitazione e rappresentazione della vita, e cosa sia invece, inesorabilmente, burla. Noble non reinventa dunque il Falstaff di Verdi - e lo ringraziamo per ciò, ogni tanto è bello vedere i grandi capolavori camminare sulle proprie gambe senza l’ausilio di stampelle drammaturgiche - ma ne coglie lo spirito, lo capisce. A ciò si aggiunga che recitazione e movimenti sono pilotati come da migliore scuola british e che di idee e ideuzze, talora brillanti, altre volte meno, ce ne sono a decine.

  Le scene di Dick Bird, che riproducono questo spaccato semicircolare di teatro all’inglese in legno, oltre a essere assai belle, sono ben valorizzate dal disegno luci di Jean Kalman e Fabio Barettin. Non meno appaganti per l’occhio sono i costumi di Clancy.

  Si sarà dunque capito che lo spettacolo funziona e, come avviene ogni qual volta che ciò accade, la direzione rema nello stesso verso del regista. Ci sono diversi modi di fare Falstaff. C'è il filone toscaniniano della radicalità inesorabile, senza vie di fuga o mezze misure, o viceversa l'estremo opposto del virtuosismo un po' rococò di chi approfitta di una partitura zampillante  per ricamarci sopra ogni sorta di ghirigori. Myung-Whun Chung sceglie la terza via, che è forse quella del musicista "arrivato" che non ha niente da dimostrare. Lascia che sia la partitura a raccontare, standosene un passo indietro. Che il maestro coreano abbia assorbito la lezione giuliniana è evidente, d’altronde a Los Angeles lui c’era, come assistente. Sceglie tempi comodi e distesi, che danno agio alla parola e al suo contraltare musicale di articolarsi con chiarezza di dizione, narra col colore, puntando il faro su quel retrogusto se non amaro, crepuscolare dell'opera. Scova accompagnamenti straordinariamente poetici negli episodi dei giovani innamorati, quasi cambiasse, assieme al suono, la tinta delle luci ogni volta che i due si incontrano, pennella di malinconia il monologo che apre il terz’atto, col vecchio John consolato dal suo tenerissimo paggio-bambino (un momento molto dolce, come il vin caldo). Scova uno degli arrivi di Falstaff alla quercia di Herne più belli che si siano mai ascoltati. E poi, quando c'è da limitarsi a reggere le briglie di quel’ingranaggio perfetto macchinato da Verdi (in breve, nei finali d’atto), Chung si defila, si fa piccolo piccolo e lascia che sia il palco a parlare. Un debutto notevolissimo, arrivato al momento giusto, nell’opera del “vecchio” per i vecchi.

  Due parole le merita l'Orchestra della Fenice, che è un'eccellente interprete d'opera e non solo. Al di là della qualità di prime parti e sezioni in blocco, che negli anni è andata in costante crescendo, la buca del teatro veneziano ha ormai maturato un sound proprio, morbido e caldo, oltre a una rotondità che si sposa perfettamente con il canto del melodramma. 


  Se nel Falstaff, come nella vita, "nessuno è meno importante degli altri", Myung-Whun Chung dixit, per la riuscita di una produzione è fondamentale un cast omogeneo e senza buchi. E qui c'è, a partire da Nicola Alaimo, protagonista e mattatore, che ormai si avvia a diventare l'interprete di riferimento della parte di questi anni. Un Falstaff in scia alla grande tradizione, intesa come massima espressione della scuola italiana, in cui gesto, parola, persino lo sguardo, sgorgano da una visione strutturata e nobile, perché "alta", dell'arte. Ecco, quella nobiltà verdiana spesso misinterpretata come forbitezza o civiltà di emissione fine a se stessa, Alaimo insegna che è in realtà qualcosa di diverso, di più, anche e soprattutto in un personaggio cui non mancano tratti grotteschi se non scurrili. La nobiltà è una questione di rispetto per l'arte, di approfondimento, di scavo, di ricerca del colore giusto, dell'inflessione, dell’occhiata, di tutta quella serie di dettagli pulviscolari che messi insieme costruiscono lo spessore - e che spessore! - della caratterizzazione. Appartiene alla stessa risma Sara Mingardo, somma artista, somma cantante e somma Quickly, che non spreca una sillaba né un passo sul palcoscenico.

  Vladimir Stoyanov, Ford, è una garanzia per solidità di impostazione, brillantezza vocale e musicalità, Selene Zanetti un’Alice di gran voce e verve. I due ragazzi sono Caterina Sala, che è giovanissima per davvero e che sa cantare con quella purezza di linea necessaria per uscire vittoriosi dal confronto con la scrittura di Nannetta e René Barbera, un Fenton dal timbro rossiniano che nella sua aria dà prova di avere un controllo del fiato di alta scuola. Non c’è molto da dire su Veronica Simeoni, se non che è una Mrs. Meg di stralusso. 

  Molto positiva la prova di Christian Collia nei panni del Dr. Cajus, così come rendono un ottimo servizio a Bardolfo e Pistola Cristiano Olivieri e Francesco Milanese, bravi a centrare la giusta misura in due ruoli da caratterista sempre in bilico sul crinale del macchiettismo. Inappuntabile il contributo del Coro della Fenice preparato da Alfonso Caiani.

  Trionfo per tutta la compagnia a fine spettacolo, con punte di entusiasmo per Alaimo e Chung, salutato da battimani ritmati alla "We will rock you".