27 ottobre 2015

Il Flauto Magico di Mozart trionfa al Teatro La Fenice

l Flauto Magico (Die Zauberflöte) in scena al Teatro La Fenice di Venezia rientra nell’eletta schiera degli spettacoli operistici in cui tutto funziona. Damiano Michieletto, stella luminosa in quel piccolo mondo antico che è il teatro musicale italiano, ritorna alla Fenice per firmare la regia di un allestimento che è un capolavoro, né più, né meno. 

Con l’impagabile contributo dell’ormai collaudato team Fantin-Teti-Carletti (scene, costumi e luci) Michieletto crea uno spettacolo coerente, coinvolgente e tecnicamente straordinario, sia nella concezione dell’impianto scenico, sia nella costruzione della recitazione sulla musica e sulla parola. Dei tanti temi portanti del capolavoro mozartiano il regista sceglie di svilupparne uno, accantonando o lasciando sullo sfondo tutto il resto. Die Zauberflöte diventa così una sorta di romanzo di formazione, il racconto del percorso che porta un giovane, Tamino, alla definizione della propria identità di “persona”. L’idea di ambientare la vicenda in un’aula scolastica appare quindi, se non inevitabile, quantomeno logica: qui avviene quel faticoso ma necessario processo che, tramite lo studio, il distacco dalla famiglia (un’Astrifiammante madre nevrotica), le prime esperienze amorose, definisce la crescita di un individuo e la sua collocazione nel mondo. 



Tutto è perfettamente studiato, sensato e splendidamente realizzato quindi lo spettacolo funziona, regge e convince. L’ingresso nel tempio del finale primo che diventa – nella fuga degli studenti tra i boschi, con un epilogo che può essere facilmente dedotto – una sorta di iniziazione alla vita adulta, è un momento di teatro potentissimo.

Non meno felice il versante musicale. Antonello Manacorda ripropone il Mozart cui ci ha abituati: tempi tendenzialmente spediti, grande tensione narrativa ed ottimo sostegno al palcoscenico, suono luminoso e terso che, pur sacrificando qualcosa in fatto di colori, suona tutt’altro che inconsistente. Lo aiuta un’orchestra in splendida forma.

Il cast è complessivamente notevolissimo a partire dell’eccellente Tanino di Antonio Poli, tenore che unisce alla freschezza di una voce in continua crescita, buon gusto musicale e una discreta presenza scenica. Alex Esposito, Papageno, è ancor prima che un gran cantante un artista di razza. Brava Ekaterina Sadovnikova, Pamina. Musicalmente non impeccabile ma magnetica sulla scena la Regina della notte di Olga Pudova. Qualche asperità di troppo non rovina la bella prova di Goran Jurić, Sarastro. Il Monostatos di Marcello Nardis è ben cantato e ancor meglio recitato. 
Tutti all’altezza, senza eccezione alcuna, gli altri. Ulisse Trabacchin prepara il sempre lodevole coro della Fenice.

Repliche fino al 31 ottobre. Imperdibile.



21 ottobre 2015

Falstaff al Giovanni da Udine

Falstaff è un'opera dagli equilibri fragilissimi tale è la quantità di implicazioni, sfumature, di idee e suggestioni che concorrono a definirne il carattere. Riuscire a restituirne l'umore evitando di sacrificare alla comicità le venature malinconiche riducendo il tutto in farsa o, d'altro canto, inciampando in un'eccessiva seriosità, è una sfida impervia per ogni singolo interprete dal regista, al direttore fino all'ultimo dei comprimari. L'allestimento portato al Teatro Nuovo Giovanni da Udine dai complessi del Verdi di Trieste ove andò in scena con cast non molto diverso nello scorso giugno, esemplifica una volta in più quanto, nel Falstaff, la quadratura del cerchio sia tutt'altro che banale.

Mariano Baudin, regista, si ferma ad un primo livello di lettura senza scavare in profondità tra le pagine del libretto. Il tono sorridente dell'opera è malinteso in favore di un umorismo schietto ed esteriore non sempre privo di cadute di gusto e il lavoro sui personaggi rispecchia tale principio. Tuttavia, una volta accettando il presupposto di partenza che necessariamente comporta la rinuncia ad una componente importante e caratterizzante dell'opera verdiana, va riconosciuta al regista l'abilità nell'organizzare una narrazione vivace e ben coordinata, magari non originalissima nelle intuizioni ma funzionale e di buon ritmo. Scene e costumi sono tradizionalissimi e richiamano un modo antico di fare teatro fatto di mezzi semplici, fondali dipinti e costumi d'epoca.

Se è compito arduo individuare la giusta misura nel tracciare una linea interpretativa convincente nell'allestire un Falstaff, non meno complesso risulta il lavoro di concertazione. La direzione di Francesco Quattrocchi è piena di buone idee: il suono morbido e vellutato, la scelta dei tempi, i fraseggi, tutto concorre a disegnare un'atmosfera crepuscolare ma serena non priva di ironia benché lontanissima dagli eccessi di comicità che lo spettacolo suggerirebbe; lo aiuta un'Orchestra del Verdi di Trieste in splendida forma, protagonista di una prova davvero impeccabile per nitore e precisione. Purtroppo, complice probabilmente l'esiguo numero di prove, il dialogo con il palcoscenico è problematico e, non di rado, orchestra e cantanti non trovano la giusta amalgama o peggio si avvertono scollamenti imbarazzanti tra buca e cantanti.

Il Sir John di Paolo Gavanelli, chiamato a sostituire l'indisposto Alberto Mastromarino, ha una sua coerenza. Senz'altro si tratta di un Falstaff ruvido e scorbutico sia sul piano interpretativo sia nella vocalità, un Falstaff che rinuncia ad ogni retaggio di nobiltà e che nulla ha di cavalleresco o signorile. Tuttavia questo protagonista rude e burbero dalla voce fibrosa ed opaca ma possente, funziona: per quanto discutibili siano i presupposti su cui si regge, Gavanelli dà vita a un protagonista vivace e assolutamente credibile vario nelle dinamiche e nell'accentazione a dispetto di uno strumento di scarsa duttilità, ritmicamente saldo e sicuro sulla scena.

Roberta Canzian ha eccellente musicalità tuttavia, in più d'un occasione, dà l'impressione che la parte di Alice le stia vocalmente larga. Convince il Ford di Domenico Balzani che, rispetto alle recite triestine, è parso più misurato e rifinito mantenendo invariate le notevoli qualità vocali di ampiezza e proiezione del suono.
Rossana Rinaldi ha il merito di rinunciare ai vezzi in cui scadono molte Quickly, mantenendo sempre una linea di canto pulita ed evitando di gonfiare i centri per trovare maggiore volume; purtroppo la voce, quasi sopranile, è troppo chiara e leggera per imporsi.

Luis Gomes viene a capo senza difficoltà della parte di Fenton; in particolar modo è parsa eccellente l'esecuzione dell'aria del terzo atto. Meno a fuoco invece Mina Yamazaki, Nannetta dal fraseggio generico e non sempre impeccabile nell'intonazione. Molto positiva la prova di Antonella Colaianni, Meg Page. Inappuntabili Alessandro D’Acrissa (eccellente Dottor Caius), Gianluca Sorrentino (Bardolfo) e Dario Giorgelè (Pistola).
Ottima la prova del coro del Teatro Verdi di Trieste.

A fine spettacolo applausi convinti per tutta la compagnia.

20 ottobre 2015

Stanislav Kochanovsky e l’Orchestra Giovanile Italiana al Verdi di Pordenone

Segnatevi il nome di Stanislav Kochanovsky perché ne sentiremo parlare. Classe 1981 e un curriculum già notevole, anche se non da primo della classe, ma soprattutto un talento fuori dal comune e tanta qualità. 
C’è senz’altro molta scuola russa nel suo modo di dirigere: sia nel fraseggiare, sia nei colori (quei violoncelli!), sia nel gesto – impossibile vederlo sul podio e non pensare a Vladimir Jurowski – pertanto pare indovinatissima la scelta di affidargli un programma che in quel mondo pesca a piene mani. E il maestro sa dar vita e poesia alla musica trovando il giusto compromesso tra il rigore ritmico e la cantabilità, soprattutto in un Prokof’ev barbaro e primordiale ma elettrizzante, nonostante la selezione di brani dalle Suite dal balletto Romeo e Giulietta sia assemblata con logica sfuggente. Più ordinario ma non privo di fascino e cura il suo Rachmaninov.



L’Orchestra Giovanile Italiana, a dispetto dell’età dei musicisti, si rivela compagine di notevole duttilità e, indirettamente, lascia pensare che Kochanovsky sia anche un eccellente preparatore musicale. Certo ci sono ancora alcuni limiti che si palesano soprattutto nella qualità dei forti, spesso grossi e poco brillanti, ma la bellezza dei pianissimi e soprattutto la varietà di colori cui i musicisti sanno piegarsi farebbero invidia a compagini di maggior esperienza e blasone. 
Giova senz’altro all’orchestra l’abilità tecnica del direttore, capace di riprendere in un istante la minima incertezza, levigare gli equilibri, suggerire e, all’occorrenza, tirare il freno laddove non si possa permettere certi scarti brucianti o un’eccessiva libertà nel modellare l’agogica (l’apertura delle Danze sinfoniche op. 45 di Sergej Rachmaninov è in tal senso emblematica).

Buon successo di pubblico, ultima replica questa sera (20 ottobre) al Teatro della Pergola di Firenze.

1 ottobre 2015

L’Elisir d’Amore di Donizetti trionfa alla Scala

Sono assai belle le scene firmate da Tullio Pericoli per l’Elisir d’Amore in scena al Teatro Alla Scala di Milano, spiace quindi che Grischa Asagaroff si impegni a fondo per mortificarle. Il lavoro del regista assembla sistematicamente tutto ciò che nell’Elisir, o nell’opera buffa in generale – ammesso e non concesso che tale sia il capolavoro donizettiano – sarebbe auspicabile bandire: mossette, ammiccamenti e sottolineature del grottesco, stereotipi e luoghi comuni. Il resto è lasciato all’iniziativa dei cantanti, con alterna fortuna e poca coerenza.



Ben più convincente e compatta risulta l’esecuzione musicale, a partire della direzione attentissima e brillante di Fabio Luisi il quale compensa i limiti di fantasia con una professionalità ed un’attenzione alla narrazione assolutamente impeccabili. 

Vittorio Grigolo poi è un Nemorino notevolissimo: vocalmente teme pochi confronti, la voce è bella e ben sostenuta, il volume importante; l’interprete è estroverso, si aiuta con qualche trucchetto di seconda mano ma restituisce un personaggio vivo e travolgente. Sul palco il tenore è incontenibile, salta, balla, si dimena, esaspera ogni smorfia e concetto, sempre ai limiti – e talvolta oltre i limiti – della forzatura.

Non è meno brava Eleonora Buratto, Adina pienamente risolta nel canto, morbido e rotondo, ma più timida sulla scena, il che non è necessariamente un limite.
Se la cava con classe Michele Pertusi, Dulcamara, pur palesando qua e là qualche segno di fatica; solido e convincente il Belcore (maltrattatissimo dal regista) di Mattia Olivieri. Molto positiva la prova di Bianca Tognocchi, Giannetta.

Scala gremita e applausi convinti per tutti. Ovazioni da stadio per Grigolo.

Paolo Locatelli
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