29 marzo 2022

Dal pianoforte al podio, Chung è il protagonista

 Myung-Whun Chung non è un solista nemmeno quando gli tocca farlo. Anche al pianoforte per il Concerto n. 23 di Mozart, sul palco del Malibran per la stagione sinfonica del Teatro La Fenice, pensa da direttore. In fondo ha scelto molto tempo fa verso quale strada direzionare la sua carriera. Ovviamente Chung non ha nelle mani il virtuosismo fluido dei “pianisti” da concerto, il loro tocco suadente, non ha nemmeno una agilità pulitissima: non è più quello il suo mestiere. Eppure quel che fa merita d’essere ascoltato e applaudito.

Chung non è il genere di solista che si fa accompagnare dall’orchestra, né ci si appoggia sopra come un ospite passeggero e intercambiabile, non ha insomma il narcisismo del protagonista. Nell'orchestra lui ci si addentra. La linea del pianoforte è una voce che entra nel tessuto e dialoga con tutte le altre a una profondità che un solista “vero”, fosse anche eccezionale, difficilmente riesce ad esplorare. Perché Chung, appunto, la vede organicamente, dal punto di vista del podio. Sa in ogni momento cosa “dice” ogni altro strumento e sa come deve essere l’interazione con esso, o almeno come lui vuole che sia. Chiama i legni e risponde loro, gioca a sprofondare e riemergere dall’orchestra, arretrando quando necessario o uscendo con grazia senza sgomitare, ma accomodando il suono che lo circonda e il proprio. È in tal senso felicissima la scelta di asciugare al minimo l’organico, che oltre a una leggerezza davvero mozartiana - e dunque dolce e trasparente sì, ma non inconsistente - esprime una qualità musicale di prim’ordine. Mancheranno al Chung pianista i colori delle mani più navigate e quella precisione della meccanica che ormai è nel bagaglio di ogni strumentista più o meno interessante, ma non manca mai il pensiero, l’ampiezza della visione musicale.

Sorprende di meno l’Eroica di Beethoven, non perché di qualità musicale inferiore, tutt’altro, ma perché le doti di affabulatore del podio del maestro coreano sono cosa ben nota. Chung fa un Beethoven concertato divinamente ed equilibrato, non solo nel bilanciamento sonoro, ma anche nelle scelte musicali. È un Beethoven senza eccessi né carenze, in cui drammaticità, respiro e virtuosismo coesistono armoniosamente. Non è una Terza analitica né spiegona, di quelle sviscerate e decostruite fin nel dettaglio, ma semplicemente - si fa per dire - suonata benissimo e senza sofisticazioni.

Di fronte a lui l’Orchestra della Fenice è in una delle sue migliori serate degli ultimi tempi. Gli archi sono sempre morbidi e responsivi, i legni eccellenti - senza fare torto agli altri, l’oboe di Rossana Calvi merita una menzione - gli ottoni e timpani a fuoco e precisi.


25 marzo 2022

Raphaël Pichon e le ultime tre di Mozart

 Sembra che i trentasette anni di vita di Raphaël Pichon siano trascorsi intensamente. Dopo gli studi in pianoforte e violino e quelli successivi in direzione, per un certo periodo è stato un controtenore di buona carriera. Nel 2006, giovanissimo, ha fondato l’orchestra Pygmalion, accanto alla quale è cresciuto in quella che è ormai la sua occupazione a tempo pieno, maturando per altro una strana gestualità in cui il battito passa alternativamente dalla sinistra alla destra e viceversa. La Pygmalion è una delle tante orchestre che suonano su strumenti d’epoca secondo una prassi storicamente informata e ha quindi tutte le peculiarità delle sue sorelle: sonorità e corpo sono caratterizzati da quell’opacità e quella secchezza intrinseche agli strumenti e che sono grossomodo non ovviabili.

Diversa è la questione su come tali specificità vengono sfruttate. Nel mondo della musica antica è andata affermandosi una maniera, bisogna ammetterlo, che travalica gli scrupoli filologici e che pare avere letteralmente creato da zero un codice espressivo specifico da applicare a ogni esecuzione del genere: contrasti dinamici molto marcati, sonorità taglienti e articolazioni spiccatissime, tempi svelti nei passaggi più concitati e ben distesi quando il metronomo rallenta e così via. Raphaël Pichon ha il merito di non cedere a questa moda. Prova piuttosto a dare una connotazione più varia e introspettiva alla musica che dirige, proposito fondamentale in un repertorio come quello mozartiano che vive di ambiguità e sfumature che si sforza di pennellare con dovizia di chiaroscuri. Non sempre ci riesce, un po' per via della ristrettezza del range dinamico e della tavolozza dell'orchestra (un arco montato all'antica o un ottone naturale hanno caratteristiche oltre cui non è possibile spingersi), un po' perché qualche momento meriterebbe un maggiore approfondimento anche in termini di fraseggi ed espedienti espressivi.

È dunque un approccio più ibrido che oltranzista il suo, o meglio, non radicale. Non cede alla meccanicità di altri specialisti della prassi né alla estremizzazione verso il bianco o il nero di ogni gesto musicale, né rinuncia alle conquiste della storia dell'interpretazione post ottocentesca. Anzi, in qualche modo cerca di lasciarne traccia anche in una musica precedente. Lavorando in piccolo tuttavia, cioè nel dettaglio anziché sull’effetto di forte impatto, emerge qualche problema di monocromia e piattezza. Involontarie, sia chiaro, perché l'intenzione di sbalzare i piani dinamici e i timbri in Pichon c'è e si sente, ma rimane come attenuata da una sordina.

In definitiva, quel che si ascolta al Teatro Nuovo Giovanni da Udine nelle ultime tre sinfonie di Mozart è un punto di vista specifico e parziale delle stesse. Interessante, sì, e in relazione alla nicchia specifica della musica su orchestre pre-moderne anche di ottima realizzazione. Ma alla fine dei giochi rimane la sensazione che manchi qualcosa, che una parte sostanziale della musica di Mozart rimanga inespressa tra le pagine.