1 dicembre 2022

Falstaff inaugura la Stagione del Teatro La Fenice

  Può darsi che tornare all'antico non sia necessariamente un progresso, come sosteneva invece Verdi in una delle sue “quote” più abusate e travisate, ma di certo alle volte può essere un buon affare. Adrian Noble, quando ha pensato al Falstaff che ha aperto la stagione del Teatro La Fenice, è andato indietro nei secoli fino al tempo di Shakespeare e del teatro elisabettiano, calando le furfanterie di Sir John e delle gaie comari in quel Globe Theatre in cui la produzione del Bardo ha visto la luce.


  Rassicurante tradizione potrebbe dire qualcuno, celando una punta di snobismo, e può darsi che in parte lo sia, ma solo in parte. Quella cui si rifà Noble è piuttosto una tradizione accogliente, sia verso lo spettatore, digiuno o navigato che sia, sia verso le infinite sfumature di umanità che Verdi e Boito mettono nel loro capolavoro. Assolve insomma a quel proposito di universalità che le opere come questa racchiudono in sé. Un Falstaff che è teatro nel teatro, in cui diventa man mano più complicato distinguere quale sia la recita - nel primo atto è semplice: le trame di Windsor procedono nella platea del Globe mentre sul palco va in scena il Sogno di una notte di mezza estate davanti allo sguardo attento di William Shakespeare  - e quale la "realtà". O meglio, cosa sia teatro, inteso come imitazione e rappresentazione della vita, e cosa sia invece, inesorabilmente, burla. Noble non reinventa dunque il Falstaff di Verdi - e lo ringraziamo per ciò, ogni tanto è bello vedere i grandi capolavori camminare sulle proprie gambe senza l’ausilio di stampelle drammaturgiche - ma ne coglie lo spirito, lo capisce. A ciò si aggiunga che recitazione e movimenti sono pilotati come da migliore scuola british e che di idee e ideuzze, talora brillanti, altre volte meno, ce ne sono a decine.

  Le scene di Dick Bird, che riproducono questo spaccato semicircolare di teatro all’inglese in legno, oltre a essere assai belle, sono ben valorizzate dal disegno luci di Jean Kalman e Fabio Barettin. Non meno appaganti per l’occhio sono i costumi di Clancy.

  Si sarà dunque capito che lo spettacolo funziona e, come avviene ogni qual volta che ciò accade, la direzione rema nello stesso verso del regista. Ci sono diversi modi di fare Falstaff. C'è il filone toscaniniano della radicalità inesorabile, senza vie di fuga o mezze misure, o viceversa l'estremo opposto del virtuosismo un po' rococò di chi approfitta di una partitura zampillante  per ricamarci sopra ogni sorta di ghirigori. Myung-Whun Chung sceglie la terza via, che è forse quella del musicista "arrivato" che non ha niente da dimostrare. Lascia che sia la partitura a raccontare, standosene un passo indietro. Che il maestro coreano abbia assorbito la lezione giuliniana è evidente, d’altronde a Los Angeles lui c’era, come assistente. Sceglie tempi comodi e distesi, che danno agio alla parola e al suo contraltare musicale di articolarsi con chiarezza di dizione, narra col colore, puntando il faro su quel retrogusto se non amaro, crepuscolare dell'opera. Scova accompagnamenti straordinariamente poetici negli episodi dei giovani innamorati, quasi cambiasse, assieme al suono, la tinta delle luci ogni volta che i due si incontrano, pennella di malinconia il monologo che apre il terz’atto, col vecchio John consolato dal suo tenerissimo paggio-bambino (un momento molto dolce, come il vin caldo). Scova uno degli arrivi di Falstaff alla quercia di Herne più belli che si siano mai ascoltati. E poi, quando c'è da limitarsi a reggere le briglie di quel’ingranaggio perfetto macchinato da Verdi (in breve, nei finali d’atto), Chung si defila, si fa piccolo piccolo e lascia che sia il palco a parlare. Un debutto notevolissimo, arrivato al momento giusto, nell’opera del “vecchio” per i vecchi.

  Due parole le merita l'Orchestra della Fenice, che è un'eccellente interprete d'opera e non solo. Al di là della qualità di prime parti e sezioni in blocco, che negli anni è andata in costante crescendo, la buca del teatro veneziano ha ormai maturato un sound proprio, morbido e caldo, oltre a una rotondità che si sposa perfettamente con il canto del melodramma. 


  Se nel Falstaff, come nella vita, "nessuno è meno importante degli altri", Myung-Whun Chung dixit, per la riuscita di una produzione è fondamentale un cast omogeneo e senza buchi. E qui c'è, a partire da Nicola Alaimo, protagonista e mattatore, che ormai si avvia a diventare l'interprete di riferimento della parte di questi anni. Un Falstaff in scia alla grande tradizione, intesa come massima espressione della scuola italiana, in cui gesto, parola, persino lo sguardo, sgorgano da una visione strutturata e nobile, perché "alta", dell'arte. Ecco, quella nobiltà verdiana spesso misinterpretata come forbitezza o civiltà di emissione fine a se stessa, Alaimo insegna che è in realtà qualcosa di diverso, di più, anche e soprattutto in un personaggio cui non mancano tratti grotteschi se non scurrili. La nobiltà è una questione di rispetto per l'arte, di approfondimento, di scavo, di ricerca del colore giusto, dell'inflessione, dell’occhiata, di tutta quella serie di dettagli pulviscolari che messi insieme costruiscono lo spessore - e che spessore! - della caratterizzazione. Appartiene alla stessa risma Sara Mingardo, somma artista, somma cantante e somma Quickly, che non spreca una sillaba né un passo sul palcoscenico.

  Vladimir Stoyanov, Ford, è una garanzia per solidità di impostazione, brillantezza vocale e musicalità, Selene Zanetti un’Alice di gran voce e verve. I due ragazzi sono Caterina Sala, che è giovanissima per davvero e che sa cantare con quella purezza di linea necessaria per uscire vittoriosi dal confronto con la scrittura di Nannetta e René Barbera, un Fenton dal timbro rossiniano che nella sua aria dà prova di avere un controllo del fiato di alta scuola. Non c’è molto da dire su Veronica Simeoni, se non che è una Mrs. Meg di stralusso. 

  Molto positiva la prova di Christian Collia nei panni del Dr. Cajus, così come rendono un ottimo servizio a Bardolfo e Pistola Cristiano Olivieri e Francesco Milanese, bravi a centrare la giusta misura in due ruoli da caratterista sempre in bilico sul crinale del macchiettismo. Inappuntabile il contributo del Coro della Fenice preparato da Alfonso Caiani.

  Trionfo per tutta la compagnia a fine spettacolo, con punte di entusiasmo per Alaimo e Chung, salutato da battimani ritmati alla "We will rock you".


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