8 dicembre 2022

La Turangalîla-Symphonie secondo Esa-Pekka Salonen

  È curioso, e nondimeno elettrizzante, ascoltare la strana accoppiata Esa-Pekka Salonen e Wiener Philharmoniker. Lui limpido e cristallino come il ghiaccio, minimalista e razionale, loro idiomatici e voluttuosi. Lui un contemporaneista, uno dei massimi esponenti della scuola direttoriale che è andata imponendosi negli ultimi decenni, loro che viceversa incarnano un’istituzione tra le più tradizionaliste e conservatrici sul panorama mondiale. Il risultato, a differenza di quanto si potrebbe temere, non è un incontro a metà strada, ma una reciproca esaltazione. Una comunione che funziona anche in un repertorio non immediatamente associabile ai Viennesi, ma stabilmente nel repertorio e nella sensibilità del direttore, che ci torna sopra sin dall’incisione giovanile realizzata con la Philharmonia nell’86: la Turangalîla-Symphonie di Olivier Messiaen. Spulciando la cronologia dei Wiener infatti, l’opera compare nei cataloghi in una sola occasione, nell’estate del 2000, a oltre cinquant’anni dal debutto, avvenuto a Boston nel 1949 sotto la direzione di Leonard Bernstein. In quell’unico ciclo di concerti, che per altro transitò anche da Lucerna, sul podio c’era Zubin Mehta e al pianoforte Yvonne Loriod, la vedova di Messiaen.

Esa-Pekka Salonen dirige la Turangalîla-Symphonie
© Peter Fischli/Lucerne Festival

  Lavoro ciclopico, anzi, una “cosmologia sonora” che è una vera e propria summa del sinfonismo e del percorso di ricerca musicale di Messiaen nella prima metà del Secolo. Un inno alla gioia e all’amore, alla creazione e all’agire del tempo sul mondo e sulla vita pensato per un’orchestra dall’organico eccentrico - le stravaganze riguardano soprattutto le percussioni - e due soli: pianoforte, nel caso Bertrand Chamayou, subentrato in extremis a Yuja Wang, e Onde Martenot, affidato a Cécile Lartigau.

  Per certi versi quello della Turangalîla è il Salonen che non ti aspetti. Brutale, quasi barbarico nell'esuberanza percussiva, insomma meno incline ad “alleggerire” di quanto sia solito fare, eppure quadratissimo nell'incastro delle cellule tematiche, che vanno agglutinando e squagliandosi come schegge sonore in moto continuo. Se il Chant d'amour I sembra una cavalcata nelle steppe sull'impeto di grancassa e tamburo, Turangalîla I scorre ipnotico ed acquoso, su un pulsare danzante di fondo che si addensa diventando via via più cupo. Chant d'amour II e il successivo Joie du sang des étoiles, staccato a un tempo vertiginoso, sono una gara di bravura tra direttore e orchestra. Come si diceva, quel che si ascolta non è il classico "Salonen-sound", ma qualcosa di diverso, di più vellutato e scuro, eppure egualmente intelligibile. Un delirio orgiastico, una confusione controllata da cui emergono gli infiniti preziosismi timbrici dell'orchestrazione e dell’orchestra viennese. Jardin du sommeil d'amour è uno stillicidio di suoni in purezza sin dall'attacco dolcissimo, su cui si adagia uno Chamayou che passa dall’isterismo sinistro dei due tempi precedenti a un lirismo cullante.

  Lo schiocco di Glockenspiel a tastiera e celesta a chiudere il sesto movimento, che Salonen suggerisce con una semplicissima divaricazione delle dita, è solo un banalissimo fotogramma che resta impresso di una direzione che raggiunge vertici di funambolismo e controllo quasi irridenti, non esclusivamente in corsa, ma anche nei piccoli gesti. Col suo moto danzante, il direttore aiuta l'orchestra dove necessario, preparando ogni attacco scomodo, mette in bolla ogni equilibrio e soprattutto la spinge al massimo del virtuosismo. Un virtuosismo che si fa sempre più forsennato sin dagli echi tribali di Turangalîla III, per esplodere in un Finale ritmicamente blindato.

  Successo calorosissimo ma sbrigativo.

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