18 gennaio 2020

Lucrezia Borgia al Verdi di Trieste

La vittoria è doppia. Non capita spesso al Verdi di Trieste di vedere uno spettacolo con una regia degna di tal nome e tutto sommato non capita così di frequente nemmeno per Donizetti in senso lato, almeno per il Donizetti serio. Si è detto e ripetuto mille volte: la struttura a numeri chiusi del belcanto è da grattacapi per qualsiasi regista che voglia emancipare il proprio mestiere da quello di spartitraffico e dare vita a quel meraviglioso teatro di burattini, non raramente di legno, che è l’opera italiana. Ambo, quindi. Perché la Lucrezia Borgia nata sotto la buona stella del Donizetti Festival dalla giovane ma tutt'altro che ingenua mano di Andrea Bernard è uno spettacolo vero. Anche se nel tragitto che separa Lombardia e Venezia-Giulia ha cambiato pelle, passando dall'edizione critica "da festival" alla più rassicurante (e forse, detto sommessamente, più piacevole) versione tradizionale.

Lucrezia Borgia al Teatro Verdi di Trieste


Rimane fortunatamente Carmela Remigio, che è una signora protagonista e che in questo allestimento, nato con e per lei, ci sta benissimo. Ha le note, il temperamento, l'ambiguità, la personalità necessari a reggere un personaggio così complesso e sfuggente, ne ha la sensibilità, insomma è il genere di artista che in questo belcantismo imbevuto di romanticismo ci sguazza.

E soprattutto ha il dinamismo per portare sulle spalle uno spettacolo in cui appunto di regia ce n'è parecchia. Attenzione, regia, lo ripeto a beneficio di chi ancora non l'abbia capito, che non è sinonimo di scenografia, né di coreografia (capita di sentire anche questo, ahinoi). Regia dunque, a tratti un po' sopra le righe, a tratti splatter e iperviolenta – forse un po' troppo, ma non perché la violenza nella Borgia non ci stia, tutt'altro, ma perché per far passare un concetto non è necessario sottolinearlo tre volte – ma forte, coerente e ben condotta. Recitano i solisti, recitano le comparse, recita persino il coro. Cosa abbia spinto qualche loggionista a muggire non è ben chiaro, o forse lo è fin troppo: questa Borgia è una produzione da 2020 e non da 1920. È teatro, in sostanza. Finalmente!



Benissimo anche il Gennaro di Stefan Pop, che ha voce, tecnica, stile, e in fin dei conti anche una discreta disinvoltura nella recitazione. Elenco puntato che può essere trasportato pari pari all'Alfonso di Dongho Kim, bel timbro bass-baritonale bronzeo e ottima caratterizzazione.
Brava-brava anche Cecilia Molinari che fa un Maffio pugnace e lambiccato, un po' donnaiolo e un po' gay, che alla disinvoltura in scena accoppia una linea di canto limpida e, pur con un volume non debordante, molto elegante.

Convince il Rustighello di Andrea Schifaudo. I comprimari sono tanti e tutti all’altezza. Mi piace segnalare Giovanni Palumbo, perché fa di Astolfo quello che mi aspetterei sempre da una parte minore: un personaggio. Ecco, io i comprimari li vorrei sempre tutti così.

Regge le fila onestamente ma senza troppa fantasia Roberto Gianola, che tiene il palco al meglio e concerta discretamente ma racconta poco, un po' perché di guizzi musicali non se ne ascoltano, un po' per la piattezza del ventaglio dinamico. In buona forma il coro preparato da Francesca Tosi, mentre l'orchestra di casa ha visto serate migliori.

Teatro non pienissimo ma più caloroso del solito, soprattutto durante la recita.

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