29 gennaio 2015

Maurizio Baglini in concerto

Tra le iniziative più originali messe in campo dal Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone per questa stagione, il ciclo dedicato alla variazione pianistica merita una menzione speciale. Il progetto si propone di offrire al pubblico un excursus che pesca dal grande repertorio pianistico, esplorando diverse epoche e stili della composizione, ma l'idea forse più accattivante dell'iniziativa è la collaborazione con Piero Rattalino, nome di prima grandezza nel panorama musicologico e didattico in Italia. Rattalino è stato chiamato – e ancora interverrà negli appuntamenti conclusivi della rassegna – a presentare al pubblico ogni concerto della rassegna, tracciando le coordinate estetiche e storiche delle pagine musicali proposte. La collaborazione del Maestro con l'istituzione pordenonese gli è valsa, proprio in occasione del recente appuntamento concertistico dedicato al manierismo, il conferimento del premio nazionale “Educare alla musica”, intitolato a Pia Baschiera Tallon, quale riconoscimento per la sua attività didattica ormai sessantennale. Non a caso il concerto era affidato alle mani di Maurizio Baglini che di Rattalino è stato un allievo e che ora allestisce e sovrintende la stagione musicale del teatro.

Il programma prevedeva lavori di genesi ottocentesca accomunati dal carattere tragico, scelta affascinante poiché adatta a mettere in risalto le diverse sensibilità ed estrazioni culturali di tre pilastri della musica occidentale con i relativi metodi di approccio, attraverso la medesima forma compositiva (la variazione), alla medesima disposizione d'animo. Particolarmente indovinata ci è parsa la scelta di accostare alla Ballata in forma di variazioni su un canto popolare norvegese, op. 24 di Edvard Grieg le variazioni su un tema di Bach di Franz Liszt, composizioni che, pur affini nei presupposti, divergono profondamente per tinta e carattere, distanza ben esplicitata dal pianoforte di Baglini. La seconda parte di concerto proponeva invece le Variazioni e fuga per pianoforte, op. 24 su un tema di Georg Friedrich Händel di Johannes Brahms.

Maurizio Baglini è ormai il primo inquilino del teatro pordenonese, affiancando sovente al ruolo di direttore artistico quello di musicista che gli è più congeniale. Il suo concerto sul manierismo è stato, tra i tanti tenuti sul palco del Verdi, forse quello dall'esito più felice e compiuto. Baglini si distingueva per la fluidità e la spontaneità che siamo abituati a riconoscergli, aggiungendovi un temperamento interpretativo personalissimo che lo aiutava nel risolvere ogni brano con un diverso carattere. Certo talune scelte in materia di fraseggi, dinamiche (qualche eccesso della mano sinistra) e soprattutto gestione del ritmo potrebbero scontentare chi si attendesse una lettura improntata alla tradizione: in particolar modo è parsa peculiare la gestione dell'agogica, con il frequente indugiare in rallentandi atti a sottolineare il dettaglio armonico. Piaceva la varietà di colori del pianoforte di Baglini, in particolar modo la leggerezza dei pianissimi, mai meccanici o artificiosi.

In tema anche l'impegnativo bis, la trascrizione per pianoforte di Ferruccio Busoni della ciaccona di Bach. Calorosa l'accoglienza del pubblico a fine concerto.

16 gennaio 2015

I Capuleti e I Montecchi di Bellini al Teatro La Fenice

Capita spesso di lodare il Teatro La Fenice di Venezia, sia per le scelte programmatiche, sia per la qualità della proposta. Tuttavia la nuova produzione de I Capuleti e I Montecchi, lavoro di Vincenzo Bellini dall’ispirazione a corrente alternata, non convince – e spiace ravvisarlo – nonostante le premesse fossero tutt’altro che sconfortanti.

Pesa non poco sull’esito complessivo della produzione la debole regia di Arnaud Bernard il cui konzept non brilla per originalità né può dirsi realizzato nel modo migliore. Bernard tenta di dare consistenza alla debole drammaturgia del libretto di Romani – dimenticatevi Shakespeare che con il lavoro belliniano condivide solo il nome proprio dei protagonisti – rivisitando un luogo comune frusto ed abusato: i personaggi sono figure di dipinti che fuggono dall’immobilità delle tele per prendere vita e compiere il proprio destino prima di tornare, in un finale saputo sin dall’ouverutre, all’origine, in quella vita immobile ed estranea allo scorrere del tempo. L’azione è ambientata in una pinacoteca in cui agiscono, parallelamente ai personaggi, uno stuolo di operai intenti a riorganizzare la disposizione dei quadri. Il tutto è dominato, al di là di qualche trovata interessante, dall’immobilismo e dalla prevedibilità.

Oltre ogni previsione spiace ravvisare un esito inatteso, se non deludente quantomeno interlocutorio, dell’esecuzione musicale. L’orchestra di Omer Meir Wellber disegna un Bellini assolutamente inedito ma non per questo convincente. Il direttore sceglie sonorità che stridono non poco con il, per così dire, “comune senso dell’estetica belliniana”: forti orchestrali esplosivi e chiassosi alternati a colori delicati, esasperazione dei contrasti drammatici e musicali. Ne risulta una lettura anni luce lontana dal Bellini apollineo e soave cui si è abituati, dominata dall’ossessione di dare consistenza alla narrazione dell’opera calcando la mano sugli effetti più epidermici. La scelta tutto sommato non è deprecabile di per sé, data la plausibile difficoltà nello scovare ragioni drammatiche o psicologiche più profonde in partitura, ma è realizzata non senza eccessi e forzature. Infatti, al di là delle questioni di gusto (bello, brutto, volgare, bandistico, elettrizzante, ognuno valuta secondo la propria sensibilità) manca alla lettura di Wellber un disegno unitario nella sua realizzazione sicché il passaggio tra i momenti elegiaci e quelli più corruschi pare spesso arbitrario ed incoerente e l’esito complessivo ha i tratti di un collage fatto di tante intenzioni differenti e disorganizzate.

Jessica Pratt è di gran lunga la migliore in campo grazie alla qualità del canto e alla purezza della linea, pur non brillando per espressività e fantasia nell’articolazione delle frasi.

Delude invece Sonia Ganassi (Romeo) la cui prova sconta un primo atto sottotono, in netta difficoltà nel registro grave come negli acuti; va decisamente meglio nella seconda parte di recita, aiutata dalla tessitura più comoda che le consente di esprimere la propria musicalità e le buone idee di fraseggio. Shalva Mukeria è un Tebaldo di inerte correttezza. Positive le prove di Luca Dall’Amico, solido Lorenzo e di Rubén Amoretti, Capellio non rifinitissimo ma efficace. 

Il coro di Claudio Marino Moretti è una garanzia.

15 gennaio 2015

Jordi Savall al Verdi di Pordenone

Quello che Jordi Savall ha fatto in cinquant'anni di carriera va ben oltre l'archeologia musicale, oltre la filologia e la ricerca di una prassi esecutiva basata sulla storia e sulle fonti. Certo lo studio meticoloso, l'approfondimento tecnico ci sono e sono cardini imprescindibili per l'attività del musicista spagnolo, ma sarebbe ingenuo ridurre i suoi meriti alla riproposizione di un repertorio sconosciuto o all'eccentricità delle scelte. Lo dimostrano il consenso che da decenni accompagna ogni sua iniziativa, concertistica o discografica, come il pubblico eterogeneo che trascende i limiti degli appassionati alla cosiddetta “musica classica”.


Così è stato per il concerto al Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone del 10 gennaio: teatro praticamente esaurito, spettatori di ogni età e successo oceanico con pubblico in piedi, entusiasta e commosso, come succede di rado.

Savall, negli anni, è stato capace di convincere il mondo che un repertorio sconosciuto e remoto non solo meritasse attenzione, ma che avesse qualcosa da condividere con la sensibilità contemporanea. Le ragioni appaiono evidenti: la musica antica cui Savall ha dedicato buona parte della propria attività ha palesi ascendenze popolari e custodisce in sé le radici della musica moderna. La semplicità armonica e ritmica di questo repertorio, in buona misura costruito da un accompagnamento percussivo e rigido, in genere un giro di accordi, su cui si erge una voce solista (la viola da gamba o il violoncello di Savall), anticipa la struttura di molta musica leggera. Queste considerazioni da sole non giustificano tuttavia il successo planetario di Savall, né basta la sua preparazione musicale a spiegarlo, essendo la perizia e lo studio presupposti necessari ma non sufficienti per diventare grandi artisti: Savall è un grande artista perché riesce ad infondere nella musica che esegue una vitalità travolgente senza ridurre l'esecuzione ad accademia o ad un esercizio di filologia.

I musicisti dell'Ensemble Hesperion XXI – pur soffrendo la grandezza della sala del Verdi, in cui il suono degli strumenti antichi non riusciva ad imporsi con facilità – si dimostravano degni interlocutori del più noto maestro. Xavier Diaz-Latorre domava tiorba e chitarra con un tocco delicatissimo. Energica l'arpa barocca spagnola di Andrew Laurence King come le percussioni, sfumatissime nelle dinamiche, di David Mayoral. Completavano l'organico l'inappuntabile Luca Guglielmi (organo e clavicembalo) e il violone di Xavier Puertas.

Di Jordi Savall, direttore, violoncello e viola da gamba, abbiamo già accennato: oltre all'indiscutibile magistero tecnico e alla meticolosa attenzione per l'equilibrio ritmico e dinamico con le altre voci orchestrali, il musicista riusciva ad accendere la musica trasfondendovi il proprio carisma. Colpivano in modo particolare la musicalità delle esecuzioni e la cura per fraseggio e contrappunto, in grado di raggiungere quella spontaneità e quella naturalezza che solo anni di esperienza, uniti ad un talento invidiabile, possono consentire.

I brani proposti, sconosciuti ai più, spaziavano grossomodo lungo due secoli di repertorio (tra il 1500 e il primo 700), raccogliendo compositori di origini e sensibilità diverse, pezzi anonimi ed improvvisazioni. Chiudeva il concerto, come bis, una toccante ninna nanna che Savall ha voluto dedicare alle vittime della redazione di Charlie Hebdo.

3 gennaio 2015

Daniel Harding dirige il concerto di Capodanno alla Fenice

Pronti via, fuoco alle polveri. Chi detesta lo zumpappà verdiano contro i detrattori di polche e valzeroni viennesi per quella che pare essere ormai l’unica vera tradizione di capodanno: la guerra tra tifosi dei Wiener e chi – Rai innanzitutto – crede che l’Italia non abbia niente da invidiare agli ori del Musikverein. In fondo si sa, se c’è una cosa che gli italiani sanno fare bene, questa è dividersi su qualunque cosa. 

Ad ogni modo quest’anno, a fare da degno contraltare a Mehta, impegnatissimo ad evidenziare col pennarello giallo ogni rubato e stirare i rallentandi fino alla noia, c’era un certo Daniel Harding, già salito sul podio della Fenice per il capodanno 2011.



Il concerto veneziano, al di là del clima nazionalpopolare e disimpegnato, avrebbe diverse ragioni d’interesse. Alcune restano clamorosamente disattese, altre superano le aspettative, così l’esito della prova oscilla tra due poli senza vie di mezzo. Delude la prima parte di concerto, dedicata a Beethoven (Overture Die Weihe des Hauses ed Ottava sinfonia), con un’orchestra ingolfata, pesante e spenta ed un Harding troppo attento a far tornare i conti. 

Convince invece – dopo una plumbea Overture da La Gazza Ladra di Rossini – la porzione “televisiva” del capodanno. Merito di Maria Agresta e Matthew Polenzani che sono bravissimi, soprattutto lei, e di Harding che indovina un finale primo dalla Bohéme da lacrime agli occhi per delicatezza e poesia, stacca con gusto il Can-can dalla Danza delle ore e soprattutto dimostra, a chi non se ne fosse ancora accorto, quanto Verdi abbia poco a che fare con lo zumpappà. Il Va pensiero è magico, elegantissimo, la cabaletta di Violetta brilla di luce e joie de vivre (e la Agresta ha un mibemolle che fa venire giù il teatro). Il brindisi è frivolo il giusto.

Applausi per tutti, anche dove non sarebbe il caso. Prosit.