28 giugno 2021

La Fenice riapre con Faust: anche all'Inferno si sonnecchia

La buona notizia è che siamo vivi, si potrebbe dire. Vivi ma non al massimo della forma, per quella toccherà aspettare ancora qualche tempo. Il Faust prima programmato, poi riprogrammato e ancora rinviato dal Teatro la Fenice, che finalmente alza il sipario dopo le montagne russe degli ultimi mesi, ha un indiscutibile valore simbolico perché segna di fatto un reboot del sistema, eppure, scava scava, non è niente di indimenticabile.

Certo, c'è del lavoro e lo si vede, sia nell'organizzazione della recitazione che in quella di una buca insolitamente distribuita di sbieco, così che Frédéric Chaslin, spalle alla barcaccia, possa dirigere assieme all'orchestra i cantanti che si muovono un po' alla sua destra, in palcoscenico, e un po' – anzi soprattutto – nella platea vuota a manca. Il motivo non è di immediata comprensione, fatto sta che la soluzione non produce meraviglie, né sceniche, né acustiche.


Chaslin è sì un buon mestierante, che conosce a menadito la materia e sa fare tornare i conti, ma non ci va molto per il sottile e cava da un'orchestra dimidiata negli archi meno di quello che potrebbe. Accompagnamento “karaoke” senza troppa cura per il canto, poche sfumature, dinamiche non piattissime ma in costante orbita gravitazionale intorno al mezzoforte e la conseguente tendenza a coprire spesso le voci. Voci diseguali per caratura, va detto.

Ad esempio il protagonista, Ivan Ayon Rivas, possiede uno strumento dal timbro argenteo e buona padronanza dello stesso, ma è per caratteristiche intrinseche e per maturazione ancora acerbo di fronte a cotanta parte. Sicché spesso soccombe sotto il peso del suono e della scrittura, pur avendo in gola tutte le note necessarie.

Ha ben altra verve e peso specifico Alex Esposito, che ormai può vantare una bella collezione di diavolacci in repertorio. Non gli manca certo l’istrionismo mefistofelico, né, si sa, il volume, ma come talora accade ha la tendenza a calcare la mano anche dove non servirebbe.

Carmela Remigio è una Marguerite di lungo corso e lo si apprezza da come domina la parte, vocalmente e musicalmente, però è ormai (a sindacabilissimo giudizio di chi scrive) interprete di tali dimensione tragica e maturità forse non incompatibili ma stridenti con la freschezza adolescenziale del personaggio, soprattutto nei primi atti.

È quasi tenorile nel timbro il Valentin di Armando Noguera, vocalità Martin schietta ma non sempre immacolata, che pur sa tenere assai bene il palco o qualsiasi porzione della sala ne assolva la funzione.

Paola Gardina ha tutte le qualità necessarie per venire a capo nel migliore dei modi di Siébel, così come regge a meraviglia sia nel canto che nella recitazione Julie Mellor (Marthe Schwertlein). Ben caratterizzato anche il Wagner pusillanime e alcolizzato di William Corrò.

Se lo spettacolo non decolla, parte della colpa va a Joan Anton Rechi, che firma quasi tutto il firmabile. Parte ma non tutta, perché le restrizioni varie e assortite un'ipoteca sull’esito finale ce la mettono. La chiave di volta del Faust di Rechi è la religione, intesa più che altro come cornice ambientale e valoriale, tant’è che tutto gira intorno a una decina di banchi da chiesa, di fatto gli unici elementi in scena per tre ore di spettacolo, che ruotati, trascinati o traslati, ne garantiscono un minimo di varietà. Banchi che però a tratti fanno comicamente a pugni con l’effetto disco floor che produce il pavimento della platea ricoperto di carta argentata riflettendo le luci di Fabio Barettin.

Rechi fa un buon lavoro nella coordinazione di recitazione e movimenti, che sono sempre ben concertati, ma pur inserendo qualche elemento di rottura rispetto alla linea tracciata dal libretto, fondamentalmente ci va dietro. Il problema è che ad assecondare la drammaturgia, pur con qualche piccola variazione sul tema, dovendo rinunciare allo sfarzo del grand opéra, si finisce per liofilizzare la narrazione perché da un lato manca la grandeur – in certo repertorio le dimensioni contano eccome! – , dall'altro non c'è mai un twist inatteso che risollevi la palpebra dello spettatore quando fatalmente inizia ad abbassarsi. L’esito è un Faust che odora più di borotalco che di zolfo.

Torna all'opera come se non si fosse mai fermato l'ottimo coro di Claudio Marino Moretti mentre l'orchestra di casa, dopo qualche sbavatura iniziale, si assesta sul livello di garanzia dei giorni migliori.