22 novembre 2016

Aquagranda apre la stagione del Teatro La Fenice di Venezia

Sono tempi bui per le fondazioni liriche italiane, ormai da troppo tempo. Così, mentre molti tirano a campare con un occhio al botteghino e l’altro fisso sul bilancio, alternando Tosche e Rigoletti come se non ci fosse un domani – e non è detto che ci sarà, alla luce degli sviluppi recenti – alla Fenice si inaugura la stagione con un’opera nuova, iniziativa più unica che rara di questi tempi e degna di ogni lode possibile.

Aquagranda, musica di Filippo Perocco, va in scena a cinquant’anni esatti dall’alluvione che il 4 novembre del 1966 sommerse Venezia e ne ricorda i tragici momenti.
Avendo lo spettacolo raccolto consensi pressoché unanimi da parte di pubblico e critica, con un certo imbarazzo riconosco di appartenere alla minima e sparuta schiera di quanti faticano a riconoscerne la grandezza.
Se non c’è dubbio sul fatto che la musica di Perocco abbia un suo fascino, soprattutto negli impasti timbrici e nell’uso delle percussioni, rimane qualche titubanza sull’efficacia teatrale, più che della musica in sé, del lavoro nel complesso. Il libretto di Roberto Bianchin e Luigi Cerantola infatti, nella ricerca estenuante della sfumatura fonetica, del suono, del colore, trascura la drammaturgia per virare verso un altro tipo di codice espressivo. 
È evidente che né la trama, né l’azione, né tanto meno la psicologia dei personaggi siano l’obiettivo centrale dei librettisti ma tale impostazione, per quanto legittima, una qualche ipoteca sulla riuscita del lavoro la pone. O meglio, Aquagranda non è un’opera convenzionale ma poggia su un linguaggio teatrale eterodosso, in cui non è sempre agevole entrare, o che non è quantomeno immediatamente traducibile. C’è senz’altro una qualche forza evocativa, a tratti di grande intensità, che tuttavia da sola fatica a sostenere l’intera durata dello spettacolo, soprattutto per la debolezza di molti versi e la tendenziale monotonia (nel senso di uniformità di ritmo e colori) della creazione.



Nessuna riserva invece su Paolo Fantin che si conferma genio tra i più brillanti del panorama contemporaneo. L’impianto scenico da lui pensato è semplice ma di straordinario effetto: una parete cava che si riempie lentamente d’acqua taglia il palcoscenico nella sua larghezza. Il progressivo accumulo, che segue il montare dell’alluvione, culmina in una poderosa cascata nel momento in cui crollano i murazzi di Pellestrina.
Un tavolo, qualche sedia e poco altro sono gli unici elementi su cui costruire una regia. Ai lati della scena, sotto i palchi di barcaccia, trova posto il coro, voce della laguna, il vero motore dell’opera.
Le proiezioni video di Carmen Zimmermann e Roland Horvath, che alternano immagini della Venezia attuale a documenti d’epoca, scadono nei momenti di eccessivo realismo, soprattutto nell’evitabilissimo finale. Di grande suggestione il disegno luci di Alessandro Carletti.

Damiano Michieletto è attualmente il più importante regista d’opera italiano. La sua forza, più che nelle idee (talvolta ingenue, altre volte illuminanti), sta nella capacità di dar loro coerenza e piena realizzazione: Michieletto è il tipo di regista che racconta una storia completamente diversa da quella che ci si aspetta ma che alla fine, tale è l’abilità nello sviluppare recitazione e ritmo, finisce per convincere. Il che non significa affatto essere un provocatore o un furbastro, sia chiaro.
Qui però non c’è nessuna prospettiva da ribaltare ma solo un’azione (lenta, lenta…) da raccontare o, a tratti, inventare, e il Michieletto dei giorni migliori ne esce depotenziato. Benché la gestione dei singoli sia ben risolta e la zampata del grande artista a tratti emerga (l’utilizzo dei pochi elementi, soprattutto delle sedie, per costruire una regia è cosa da vero maestro), l’abuso di pose plastiche, movimenti lenti, grandi gesti, lascia qualche perplessità. Senz’altro si tratta di una regia pensata sulla musica, per sua natura poco adattabile a una maggiore dinamica, ma qualche esitazione di troppo sul piano tecnico c’è. Non aiutano molto i movimenti coreografici di Chiara Vecchi che, pur nella raffinatezza, tradiscono un eccesso di manierismo.



Sul fronte musicale le cose vanno alla perfezione. Se la cavano benissimo i sette solisti, capaci di venire a capo di una scrittura vocale ostica, più versata alla ricerca timbrica che a servire la parola.
Solidissime le voci di basso di Francesco Milanese (Fortunato) e Vincenzo Nizzardo (Nane), le cui parti insistono sulle zone gravi del pentagramma. Giulia Bolcato si mangia con facilità le scomodissime acrobazie virtuosistiche di Lilli. L’Ernesto di Mirko Guadagnini è sicuro così come convince pienamente William Corrò, Luciano.
Marcello Nardis si disimpegna con onore nei panni (musicalmente) scomodissimi di Cester. Sicura nel canto e disinvolta sulla scena Silvia Regazzo, Leda.

Aquagranda conferma per l’ennesima volta il valore dei complessi della Fenice. Coro e orchestra, che si tratti di grande repertorio, di rarità novecentesche, di riscoperte o di musica sacra, viaggiano sempre su alti livelli. I meriti in questo caso vanno condivisi con Claudio Marino Moretti, ormai una garanzia alla guida del coro, e il bravo Marco Angius che si destreggia tra i ritmi e i colori dell’opera di Perocco senza un’esitazione.

Successo pieno.
Paolo Locatelli
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4 novembre 2016

Il Medico dei Pazzi al teatro Malibran

Napoli. Ciccillo è uno studente di medicina sfaticato e col vizio del gioco. Per ripianare i debiti chiede allo zio Felice Sciosciammocca una somma di denaro, fingendosi laureato e intenzionato ad aprire una clinica per malati di mente. Ovviamente arriva il giorno in cui lo zio vuole far visita al nipote per verificare di persona il frutto dei tanti “investimenti” e Ciccillo si trova costretto a macchinare un piano di salvataggio: cercherà di convincere Felice che la “Pensione Stella”, ove egli alloggia, sia in realtà la casa di cura da lui fondata e che gli avventori ne siano i pazienti.

Il gioco per un po’ riesce perché “visto da vicino nessuno è normale”, soprattutto se gli occhi di chi guarda sono influenzati da un pregiudizio, tanto più che gli ospiti della pensione sono tutti sedicenti artisti in bilico tra il disturbo narcisistico di personalità e quello istrionico.
Si scatena insomma una commedia degli equivoci che, tra rimandi, riferimenti, idee, diverte e, in un certo senso, porta avanti un messaggio nobile. Alla fine, quando lo zio Felice sembra definitivamente gabbato e truffato – le citazioni del Falstaff stanno lì a ricordarlo, con tanto di sberleffi che riprendono la gaia risata delle allegre comari – il meccanismo si inceppa e Ciccillo è costretto a confessare l’inganno.

È grossomodo questa la colonna portante de “Il medico dei pazzi”, azione musicale napoletana di Giorgio Battistelli, tratta dall’omonima commedia di Eduardo Scarpetta, alla sua prima italiana dopo il debutto assoluto a Nancy nel 2014.


La musica dello stesso Battistelli (che firma anche il libretto) ha una sua efficacia teatrale, persino una certa ironia, ma rischia, tra rimandi, reminiscenze verdiane, effetti buffi e allusioni, di riuscire un tantino manierata e lambiccata. Certo non si può negare che l’opera sia scritta con sapienza e mestiere: è fluida, ha buon ritmo, la fusione tra musica e testo è ammirevole.
Se lo spettacolo in scena al Teatro Malibran funziona, i meriti vanno equamente divisi tra il regista Francesco Saponaro, il maestro Francesco Lanzillotta e un cast ben assemblato.

Saponaro, che firma anche le scene, sa infondere un’apprezzabile vivacità all’azione. La recitazione rimanda chiaramente al teatro napoletano, con la sua gestualità sopra le righe e vagamente stereotipata, ma riesce efficace nel tratteggiare i caratteri sulla scena.

I costumi di Carlos Tieppo e il disegno luci di Cesare Accetta sono pregevoli e ben realizzati.

Come accennato, è bravissimo Francesco Lanzillotta a sostenere la narrazione con ottimo senso del ritmo, fondamentale per valorizzare la scrittura orchestrale, e attenzione ai dettagli strumentali senza mai perdere di vista il palcoscenico.
Il coro preparato da Claudio Marino Moretti è ancora una volta eccellente sia musicalmente sia sulla scena.
Meritano una lode tutti i cantanti, capaci di venire a capo di scritture che necessitano di una tecnica ibrida, in grado di sostenere passaggi di lirismo accanto ad altri di pura declamazione, parlato e virtuosismo “para-belcantista”.

Un plauso particolare se lo guadagnano Marco Filippo Romano, eccellente Felice, e la bravissima Milena Storti (Amalia). Se la cavano molto bene anche Sergio Vitale, esuberante Ciccillo, Damiana Mizzi (Rosina), Arianna Donadelli (Bettina/Carmela), Loriana Castellano (Concetta), Giuseppe Talamo (Michelino), Maurizio Pace (Errico), il sempre affidabilissimo Matteo Ferrara (Luigi), Filippo Fontana (Raffaele) e Clemente Antonio Daliotti (Carlo).

Yuri Temirkanov inaugura la stagione sinfonica della Fenice

Prendiamo “I Capuleti e i Montecchi”, forse il passo più celebre del balletto Romeo e Giulietta di Prokof’ev. Dopo quella manciata di battute spiritate dell’Andante, attacca un Allegro pesante cupo, dominato dall’incedere di ottoni e archi gravi. Su questo tappeto sinistro, violini e clarinetti intonano un motivo che alla seconda misura inciampa su una pausa di croma. Lì, su quella pausa apparentemente insignificante, Yuri Temirkanov indugia un respiro in più, non troppo, e il solfeggio diventa musica.

È tutto così con Temirkanov, nuovamente al Teatro La Fenice per l’apertura della stagione sinfonica: un imprevedibile fluire, un apparente dipingere la frase sul momento, come gli viene.



Per quanto riguarda la Sinfonia del Barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini le cose non cambiano. Nella sezione centrale, la melodia affidata a legni e corno si stira e si accorcia, come un elastico, mentre il crescendo che segue viene stretto progressivamente in modo quasi impercettibile.
Poi certo, se qualcuno si aspetta un Rossini “comme il faut”, filologicamente parlando, si sbaglia. Qui l’orchestra è ampia, il suono pure, però ci sono tanti colori e, soprattutto, quell’estrema libertà nel plasmare la musica che è prerogativa dei più grandi (rubar con garbo è il segreto dell’arte, dice bene Falstaff).

Anche l’Haydn della Sinfonia in re maggiore Hob. I:101 ovviamente non segue alcuno scrupolo filologico, e nessuno se ne aspetterebbe da Temirkanov, fiero superstite di un passato glorioso, ormai demodé e crepuscolare ma tanto, tanto affascinante. Il suo Haydn è brahmsizzato, spintonato verso il tardo romanticismo. L’incedere è placido, i tempi tendenzialmente comodi. C’è in compenso una dovizia di particolari e un gusto per il colore orchestrale assolutamente “russo”, con archi caldi e densi ma mai prevaricanti, e c’è una prodigiosa cantabilità.

Di Prokof’ev si è in parte già detto (Romeo et Juliette: estratti dalle Suite n. 1 e n. 2). Sonorità poderose ma sempre perfettamente bilanciate, estrema libertà nel fraseggiare senza scadere nello stucchevole. Non c’è mai invece, anche nei momenti più accesi, l’impressione che qualcosa sfugga al controllo del podio, né si avvertono sonorità confuse o pesanti. Inoltre qui, a differenza di Rossini e Haydn, lo stile è quello “giusto”.

L’Orchestra della Fenice segue alla perfezione Temirkanov, dimostrandosi capace di eccellente virtuosismo e ricchezza timbrica e soprattutto di saper tradurre il suo gesto imperscrutabile in dettaglio musicale, sfumature, articolazione. Le minime sbavature, in un simile quadro, paiono assolutamente irrilevanti.
Resta da dire del brano che ha, di fatto, aperto concerto e stagione: la Serenata per nove strumenti di Giovanni Salviucci. Qui Yuri Temirkanov non c’entra perché i protagonisti sono i Solisti del Teatro La Fenice ma il risultato non cambia, si vola sempre alto.

Anche se il Nonetto di Salviucci non è mai riuscito a guadagnarsi un posto di rilievo nel repertorio (forse non del tutto ingiustamente), i Solisti della Fenice gli rendono onore, restituendone un’esecuzione di assoluto prestigio, sia per qualità strumentale dei singoli, sia per trasparenza dell’amalgama.
Giova senz’altro alla riuscita del pezzo la differenza timbrica tra il violino luminoso e brillante di Roberto Baraldi e quello più caldo e pastoso di Alessandro Cappelletto, che ben si fondono al velluto della viola di Alfredo Zamarra e del violoncello di Francesco Ferrarini. Meritano di essere citati a uno a uno anche gli altri eccellenti musicisti:  Angelo Moretti (flauto), Rossana Calvi (oboe), Vincenzo Paci (clarinetto), Marco Giani (fagotto) e Piergiuseppe Doldi (tromba).

Trionfo sacrosanto.
Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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Il barbiere di Siviglia al Verdi di Pordenone

Li abbiamo contati come Butterfly questi tre anni, tanto è durata l’assenza dell’opera dal palcoscenico del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, e l’attesa è stata ripagata da un Barbiere di Siviglia esotico. Esotico non nella sostanza, beninteso, quanto nell’insolita provenienza.

La nuova produzione del Teatro Verdi di Trieste infatti, che pure è prevista nella stagione lirica a fine inverno, proviene direttamente da Dubai, ove i complessi triestini hanno da poco inaugurato il teatro dell’opera. Rispetto alle recite negli Emirati l’allestimento è stato rimaneggiato e probabilmente, da qui a febbraio, qualche altra modifica ci sarà ancora, ma già allo stato attuale lo spettacolo funziona e convince, soprattutto nel secondo atto.


Giulio Ciabatti non ripensa il libretto, anzi, si inserisce nel filone dell’onesta tradizione ma lo fa con più di un merito: innanzitutto scansa sistematicamente certa comicità deteriore d’avanspettacolo che in simili spettacoli è merce comunissima e, non di meno, infonde una pregevole scorrevolezza all’azione. La recitazione non è trascendentale me è sempre ben condotta, soprattutto nelle scene d’insieme, e raggiunge i massimi livelli durante un temporale gestito con ottimo mestiere e fantasia. Qualche trovata inedita, come la tresca tra Berta e l’ufficiale, risulta piacevole e garbata.

Le scene cupe di Aurelio Barbato rendono bene il clima claustrofobico della “prigionia” di Rosina ma soffrono di una certa monotonia, restando pressoché invariate per l’intera durata dell’opera.

Domenico Balzani, Figaro, ha tanta voce, un’emissione sana e si destreggia con consumato mestiere sul palco. Si avverte però qualche limite stilistico sia nei recitativi, che spesso scivolano nel parlato, sia nel canto, meno morbido e cesellato di quanto si vorrebbe.

Aya Wakizono è una Rosina eccellente. La voce è bella, ampia, omogenea e viene manovrata con facilità quasi irridente: le agilità sono limpide e impeccabili, il registro acuto luminoso, il legato di alta scuola. Il personaggio è tratteggiato con convenzionalità ma c’è tutto e funziona alla perfezione.

Convince a metà il Conte d’Almaviva di Bogdan Mihai il quale alterna autentiche prodezze a tante problematicità. La voce è piccola di natura ma soprattutto dà sovente l’impressione di non essere sostenuta a sufficienza dal fiato, soprattutto nelle agilità che, per quanto ben dipanate, paiono spoggiate. Di contro c’è una pregevolissima morbidezza del canto nelle frasi più lunghe e legate, anche in zone scomode della tessitura. La sensazione insomma è che il tenore abbia una naturale predisposizione per affrontare il repertorio rossiniano e tutte le carte in regola per diventarne un affidabile interprete ma che la consapevolezza tecnica vada ulteriormente rifinita. C’è poi una certa leziosità “barocca” nel porgere e nel recitare che alla lunga risulta stucchevole. Spiace il sacrificio del Rondò.

Filippo Polinelli è invece un Don Bartolo straordinario. Davvero non è comune ascoltare una parte di buffo risolta con tale raffinatezza e ricchezza di inflessioni, scansando ogni effettaccio o cialtroneria per risolvere tutto nel canto. La sensibilità con cui il baritono colora ogni parola e la pulizia della recitazione sono un ottimo punto di partenza per dare vita a un Bartolo che è al contempo pavido e meschino, spocchioso ma in fondo non privo di una certa bonomia e che, proprio perché non ricerca la risata ad ogni costo, risulta estremamente divertente e sottile. La voce del baritono è poi di pregevolissima grana e la musicalità eccellente.

Il Don Basilio di Giorgio Giuseppini pare una maschera della commedia dell’arte in cui, al di sotto della superficie comica, erompe qualcosa di inquietante. La vocalità, benché matura, è ancora ampia e ben sostenuta in ogni registro.

Maria Cioppi è una Berta convincente e simpatica.

Molto bravo Giuliano Pelizon, Fiorello. Hektor Leka è un ufficiale vocalmente solido e disinvolto sulla scena.

Francesco Quattrocchi, sul podio di un’Orchestra del Verdi di Trieste in ottima forma, infonde buon passo alla narrazione e concerta con mestiere, prestando la necessaria attenzione agli equilibri interni e al palco. Le uniche riserve riguardano un’eccessiva prudenza nelle dinamiche, che risultano appiattite (sgonfiando così parte dell’effetto nei crescendo), e la tendenza a calcare la mano in certi punti, eccedendo nelle sonorità.

Si comporta benissimo il coro del Verdi per il debutto della sua nuova maestra Francesca Tosi, fresca di nomina alla successione di Fulvio Fogliazza.

Calorosa l’accoglienza del pubblico pordenonese.