22 settembre 2017

Salonen e l'orchestra invisibile

Sul finale de La mort de Mélisande, Esa-Pekka Salonen riduce l’orchestra a una fiammella lontana e fioca, quasi assorbita dal buio della sala. L’impressione è che le corde degli archi siano sfiorate da una bava di vento o dal solo pensiero. Un suono sottile, inafferrabile, sospeso in una dilatazione dei tempi talmente estenuata da sembrare insostenibile.


ph. Maurizio Brenzoni

Il matrimonio tra Esa-Pekka Salonen, cinquantanovenne compositore e direttore finlandese, e la Philharmonia Orchestra di Londra è questo: un’identità timbrica e stilistica inconfondibile, una reciproca identificazione che si rivela nella musica, nella qualità del colore orchestrale, dal caratteristico tepore, nella sua trasparenza prodigiosa, in una morbidezza luminosa ma sobria. In tal senso l’impronta del Maestro è evidente, basta fermarsi ad analizzare l’evoluzione dell’orchestra, del suo carattere, nel corso degli anni; e fortunatamente non mancano le opportunità per farlo.

La storia della formazione inglese è curiosa: nacque nel 1945 per volontà di Walter Legge, leggendario producer della Emi, il quale radunò alcuni tra i migliori musicisti europei e li mise sotto lo stesso tetto (con Herbert von Karajan padrone di casa), al fine di garantire uno standard qualitativo di altissimo livello per le sue incisioni. Quando, nei primi anni ‘60, il progetto divenne insostenibile per l’etichetta inglese, l’orchestra fu dismessa. I musicisti e l’allora direttore principale, Otto Klemperer, non si arresero e decisero di rifondarla, con il prefisso “New” che sarebbe poi decaduto. Di lì in avanti la Philharmonia è cresciuta sotto la guida di alcuni tra i più grandi direttori del secolo (vi si sono avvicendati anche gli italiani Riccardo Muti e Giuseppe Sinopoli), fino a giungere all’attuale “era Salonen”, ormai prossima al giro di boa dei dieci anni. Un connubio felice, come si diceva, sia per l’estensione del repertorio, sia appunto per la tipicità del suono, sia – in fondo lo si dà per scontato – per la qualità tecnica mostruosa dei professori d’orchestra.

Se ne è avuta una riprova in occasione del recente ritorno in Italia, al Teatro Filarmonico di Verona, per Il Settembre dell’Accademia 2017.

Sibelius e Beethoven in programma. Diverso l’approccio, com’è ovvio che sia (orchestra sontuosa per il finlandese, più scarna per il tedesco), ma medesimo percorso di avvicinamento alla partitura. Salonen parte dalla forma, analizza, spiega, e poi si spinge oltre, a pennellare e raccontare. Sia nella Mort de Mélisande da Pelléas et Mélisande Op. 46 che nella Sinfonia n.6 in re minore Op. 104 di Jean Sibelius, sia nella Sinfonia n.3 in mi bemolle maggiore, Op.55 di Ludwig van Beethoven, il punto di partenza è la struttura. Ogni elemento architettonico della musica è inquadrato e pensato all’interno di un disegno, come fossero tutte tessere di un puzzle necessarie dalla prima all’ultima per la restituzione dell’immagine nella sua interezza. Salonen però non si ferma all’accademia ma riesce a infondere a un processo di analisi tanto accorto una vitalità travolgente. Le cellule ritmiche e tematiche sono sviluppate ad una ad una, si inseguono, si guardano ed intrecciano, in una narrazione dinamica e sorprendente. Ed è così perché ogni dettaglio è curato minuziosamente ma contestualizzato, ogni strumento dialoga con il resto dell’orchestra e la ascolta. Poi, inutile dirlo, il controllo tecnico del podio è pressoché perfetto: la tenuta ritmica implacabile, gli equilibri della concertazione bilanciati al millimetro, gli attacchi e la struttura del suono non temono la minima sbavatura.

Se Sibelius pare fluttuare tra le brezze nordiche della Finlandia per flessibilità e ricchezza di sfumature – Salonen lo ama e si sente: riesce ad infondervi una passione e un’intensità emotiva uniche –, il suo Beethoven è leggero e levigato ma più essenziale nelle sonorità e nell’agogica (non c’è spazio per compiacimenti ritmici esasperati, rallentandi, ammiccamenti).

Tutto riesce estremamente fluido perché vivacizzato dalla cura maniacale per l’articolazione e per i colori, e perché i cambi di tempo sono gestiti con una naturalezza che scansa ogni rischio di frattura.

La Marcia funebre è in tal senso emblematica, segnata da una drammaticità asciutta che sgorga dal contrasto dialettico tra la timida luminosità dei legni e l’ostinata, spenta cupezza di archi e timpani. Lo è forse ancor di più, per virtuosismo, il Finale, pervaso da un’elettricità danzante che va accumulandosi senza intaccare la limpidezza del contrappunto.

Trionfale l’accoglienza a fine concerto, chiuso da un ipnotico Valse triste.

ph. Maurizio Brenzoni

ph. Maurizio Brenzoni

9 settembre 2017

Un doppio inno all'amore (per la musica)

Partiamo dalla fine, dalla Turangalîla-Symphonie di Olivier Messiaen. L’inno alla vita e all’amore, alle forze creatrici e distruttrici, che fonde linguaggi antichi e remoti – vi si trovano richiami a soluzioni ritmiche della tradizione balinese, ai tāla indiani, alla musica popolare andina – con le conquiste più audaci della prima metà di Novecento, ma che guarda senza sospetti anche al pop o al jazz e, certo non ultima, alla nascente elettronica. Un’opera universale e mastodontica, per ampiezza di vedute e respiro, per ambizione e – oggi possiamo dirlo! – rilevanza storica.

Il nome stesso del lavoro, ispirato all’abbraccio di significati del wagneriano Liebestod, è un incastro sanscrito complesso e sfuggente: Lîla definisce il gioco dell’azione divina sul cosmo, in positivo e negativo, e, unita a Turanga (la misura del tempo e del movimento, il ritmo), riconduce a un moto cosmologico perenne che si fa amore, gioia e dolore, vita e morte, e così via. Tutto ciò si collega alla religiosità di Messiaen e alla sua concezione di una divinità immanente che permea la natura e che in essa si manifesta continuamente.

Anche per quanto riguarda la struttura e l’orchestrazione Turangalîla ha proporzioni colossali e rivoluzionarie: lo sviluppo in dieci movimenti ridisegna la forma della sinfonia tradizionale, l’organico mastodontico, grazie all’ampliamento della sezione percussioni e all’integrazione di una serie di strumenti inconsueti, oltre chiaramente dell’Ondes Martenot, (una sorta di theremin a tastiera creato nel ‘27 da Maurice Martenot, ingegnere e musicista), spalanca le porte verso risorse timbriche finora impensabili.

Non sorprende quindi che Ingo Metzmacher e le alte sfere della Gustav Mahler Jugendorchester, nello stilare il programma del tour estivo, siano partiti da lì, da Turangalîla, che doveva essere il centro attorno a cui costruire tutto il resto, non solo perché si tratta di uno dei massimi capolavori del secolo scorso, che il pubblico merita di conoscere ed ascoltare, ma soprattutto perché in esso, nella sua complessità e stratificazione di linguaggi e stili, si può ritrovare una sorta di condensato della musica che è stata prima e di quella che sarebbe venuta. Insomma, se la grande musica classica è sempre contemporanea, Turangalîla forse lo è un po’ di più.

Al Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone quest’anno si è deciso di fare le cose in grande e di spalmare l’inaugurazione della stagione su un doppio appuntamento con protagonista appunto la Gustav Mahler Jugendorchester, che ormai possiamo ritenere l’orchestra di casa. Così, dopo una prima serata dedicata al “Novecento spettacolare”, è toccato proprio all’operona di Messiaen suggellare il progetto.

Inutile aggiungere altre parole a quanto già detto sulle qualità della GMJO che è sì, nominalmente, un’orchestra giovanile, eppure si conferma in grado di reggere i massimi paragoni in termini di perfezione tecnica, struttura del suono e identità timbrica. Ormai a Pordenone la conosciamo bene eppure ogni ritorno riesce a ridefinire, in positivo, il ricordo che se ne aveva (a maggior ragione considerando la difficoltà del duplice programma di quest’anno).

Chi invece debutta sul palcoscenico del Verdi è Ingo Metzmacher, il quale affronta questo capolavoro con l’approccio che non ci si aspetterebbe da uno “specialista” del repertorio novecentesco come lui, almeno in parte. Il suono non mira a una limpidezza analitica ma è sempre caldo, denso, quasi tardoromantico. Non che questo comporti la riduzione dell’amalgama orchestrale a una poltiglia indistinta, tutt’altro: pur nella pienezza degli impasti, Metzmacher sa sempre distillare con la necessaria trasparenza le sonorità e, soprattutto, sa dosare i volumi delle diverse sezioni in modo che nessuna finisca mai per sovrastare le altre, né per togliere spazio o risalto agli interventi solistici.

L’unico limite riguarda le dimensioni di sala e orchestra: il Verdi non è un auditorium vero e proprio e non può offrire spazi in grado di accogliere al meglio il suono oceanico dell’orchestra di Messiaen, tanto più che Metzmacher non si tira certo indietro se si tratta di scatenare i volumi o picchiare forte sulla grancassa. E in fondo è giusto così, la grandiosità dell’orchestrazione non va nascosta e non ne vanno stemperati gli spigoli, che infatti sono sempre ben in vista. Né chiaramente si rinuncia alla delicatezza, laddove necessaria (quel punteggiarsi di clarinetti, Onde Martenot, vibrafono e contrabbasso solo a inizio del Terzo movimento è pura magia, così come cattura la bellezza del Jardin du sommeil d'amour, quasi sussurrato dai musicisti).

L’approccio all’agogica, tendenzialmente rigido, è in perfetta linea con il disegno del Maestro, più versato ad esaltare l’architettura piuttosto che a pennellare i dettagli e, in tal senso, aderisce come meglio non si potrebbe al turgore del suono.

Cosa chiedere di più? Certo, ci si potrebbe aspettare qualche azzardo più deciso nell’evidenziare quel lato grottesco che in fondo qua e là ci sarebbe, o si potrebbe desiderare qualche carezza più tenera nei passaggi di lirismo, ma sono inezie. Metzmacher fa la sua Turangalîla-Symphonie e riesce, in tal senso, perfettamente coerente e compatto. Il pubblico lo capisce e lo saluta con un trionfo forse inatteso ma sacrosanto.

Valerie Hartmann, poi, è un’autorità all’Ondes Martenot e se ne capisce facilmente il motivo. Il suono straniante ed ectoplasmatico di questo proto sintetizzatore nelle sue mani si piega ad una miriade di effetti e mezzetinte. Jean-Yves Thibaudet allo Steinway è un lusso, eccezionale per virtuosismo e personalità.

Andando a ritroso lungo il cammino della doppia inaugurazione di stagione del teatro pordenonese, e passando dalla seconda serata alla prima, si fa un saltello all’indietro anche nella cronologia, pur restando in pieno XX secolo. Da Messiaen a Ravel, per rimanere in Francia, ma anche Schönberg, Gershwin e Bartók.

Anche qui Metzmacher non raffredda il suono ma piuttosto, se così si può dire, lo coccola e lo omogenizza, cercando – o incespicandovi incidentalmente, chissà – un filo conduttore che raccolga sotto un unico tetto lavori che non hanno molto in comune l’uno con l’altro.

Con Il Mandarino meraviglioso, Suite per orchestra op. 19 di Béla Bartók si tocca la vetta più alta del primo concerto. In questo repertorio Metzmacher dà prova di essere innanzitutto un mago della concertazione: gli equilibri interni all’orchestra sono millimetrici, non c’è strumento che non sia sempre perfettamente distinguibile, anche nei momenti più concitati, e la tenuta ritmica e tecnica dell’insieme non teme la minima sbavatura. Metzmacher non sviscera la partitura – o almeno non la viviseziona mettendone in evidenza il singolo particolare - ma la racconta, senza risparmiarsi le necessarie ruvidezze, dove richieste. A questo prodigio esecutivo si sommano una tensione espositiva e una pienezza di suono che producono il salto di qualità tra l’ottima esecuzione in la grande interpretazione.

Allo stesso livello la Musica di accompagnamento per una scena cinematografica op. 34 di Arnold Schönberg che apre il concerto.

La Suite n. 2 da Daphnis et Chloé di Maurice Ravel viene eseguita straordinariamente bene ma soffre una certa mancanza di lascivia e morbidezza nei colori e nell’agogica, approcciata con un rigore più tedesco che francese. In ogni caso sul piano esecutivo si vola alto, il maestro cura il suono, lo riscalda, lo ammorbidisce, sa sfumare e fondere le dinamiche, e non inciampa nella minima incertezza.

Chi, a conti fatti, convince di meno, è il Gershwin del Concerto in Fa maggiore per pianoforte e orchestra, che Metzmacher carica su una nave e spedisce verso la Mitteleuropa. L’impressione è che il direttore cerchi di avvicinare il lavoro dell’americano al sinfonismo tardo-ottocentesco, quasi volesse dimostrare che in fondo anche Gershwin può “suonare” come un epigono della tradizione musicale europea. L’idea potrebbe essere interessante, tuttavia non si riesce a scansare l’impressione di un’estraneità stilistica di fondo. Certo l’orchestra suona divinamente e dietro ogni nota, ogni scelta, c’è un pensiero (non c’è un’arcata che non sia perfettamente dosata, tutto è legato e morbido, ogni equilibrio è lavorato). Però non è Gershwin. Cosa manca? Lo swing innanzitutto, e poi il coraggio di rischiare e di sporcarsi le mani, di graffiare. Manca l’aria di New York, insomma.

E tutto ciò pare ancor più evidente di fronte al pianismo di Jean-Yves Thibaudet, che questa musica la sa respirare. Il suo è un virtuosismo il giusto morbido e scanzonato, flessibile sul tempo quel tanto da animare la vena jazz della scrittura di Gershwin ma anche capace, quando serve, di frustare i tasti come una perfetta macchina ritmica, il finale dell’Allegro agitato lo dimostra senza lasciare spazio a dubbi. A Thibaudet non interessa la brillantezza fine a se stessa del suono ma solletica i tasti quasi ballandoci sopra con le mani, per sviluppare la musica con l’articolazione e la plasticità del tempo, e l’effetto è quello giusto. Il pubblico lo capisce e gli tributa un successo personale.

Doppio concerto dunque e doppio trionfo, persino clamoroso per la Turangalîla-Symphonie. Probabilmente la GMJO ritornerà anche il prossimo anno, e sarebbe il quarto consecutivo, nel frattempo la aspettiamo per il tour pasquale con Vladimir Jurowski e Lisa Batiashvili (31 marzo, segnatevelo). 
Foto Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone

Foto Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone