22 dicembre 2018

Don Giovanni chiude l'era Mariotti a Bologna

Da Aix-en-Provence a Bologna il passo è più lungo di quanto sembri e c’è il rischio che qualcuno si perda per strada. Don Giovanni non si è proprio perso, ma è arrivato a destinazione affaticato e imbolsito. Anche perché in Francia Jean-François Sivadier costruì lo spettacolo sul carisma debordante e l’esuberanza fisica di Philippe Sly, che oltre ad essere bravissimo è bello come un dio. A Bologna invece c’è Simone Alberghini, che fra i tanti pregi non ha quell’energia straripante necessaria per catalizzare uno spettacolo simile. Che è uno spettacolo strano, va detto. Un gioco di sipari tra quinte e palcoscenico su cui si incrociano attori e personaggi, tecnici e donnine belle, confondendo e mischiando via via sempre più realtà e finzione, finché interprete e interpretato non diventano un tutt’uno. Però fra trucco e parrucco para-settecentesco e vita da “gente di teatro”, con alcolici e sostanze varie, spesso si perde l’orientamento e si rinuncia a seguire una drammaturgia contorta che puzza parecchio di esercizio di regia astratta. Regia che c’è ed è molto buona, anche perché l’hanno ripresa in tre: Rachid Zanouda, Federico Vazzola (che con Klara Cibulova e Cyprien Colombo è anche attore sulla scena) e Milan Otal.

Foto: Rocco Casaluci

Questo divertissement sul teatro in senso lato potrebbe funzionare, ad Aix lo si è visto, ma al Comunale qualcosa non gira. Un po’ perché, come detto, Alberghini è non ha quella verginità selvatica da Ecce Homo, un po’ perché anche gli altri non sembrano crederci fino in fondo.
Federica Lombardi ad esempio è bellissima nella sua maestosità giunonica e riempie la sala di suoni morbidi come il velluto, ma è il genere di cantante (almeno in questo caso) che tende più a sublimare l’azione che a incendiarla. Certo il suo Mozart è una meraviglia strumentale, soprattutto nell’aria del second’atto. Il buon Vito Priante canta con eleganza e varietà ma è un po’ troppo in odore di buffo per il contesto. Paolo Fanale è strepitoso nella prima aria, solo molto buono nella seconda, e dà un tono assai serioso a Don Ottavio. Salome Jicia ha temperamento, note e tutto quel che serve per rendersi un’ottima Elvira.
Bellissima sorpresa la Zerlina di Lavinia Bini (che legato e che accenti di malizia!), mentre Roberto Lorenzi è un Masetto solido ma non indimenticabile. Ha parecchia potenza ma non altrettanto controllo il Commendatore di Stefan Kocan.

Foto: Rocco Casaluci

In mezzo a tanto trambusto risplende la stella di Michele Mariotti, che fa un Mozart molto suo e poco alla maniera di oggi. Niente strepiti né furore, nessuna secchezza né alcuna esasperazione dei contrasti agogici e dinamici ma una raffinatezza olimpica che riesce a farsi teatro battuta dopo battuta, senza mai crogiolarsi nella contemplazione del bello fine a sé stesso. Un sacco di finezze d’articolazione, di accenti (Giovinette che fate all’amore ritmato a questo modo, ma senza frenesia, non lo si era mai sentito) e nessuna concessione all’edonismo.
Il 18 dicembre l’Orchestra del Comunale suona che è una meraviglia con gli archi in stato di grazia.
Trionfo.

Foto: Rocco Casaluci

5 dicembre 2018

Mariotti saluta Bologna da Pordenone

Che Michele Mariotti abbia personalità e talento da vendere è la scoperta dell’acqua calda. Però limitarsi a questo, per un musicista che all’alba dei quaranta può già guardarsi indietro e dire di avere fatto qualcosa di importante, è un po’ come fermarsi alla prima stazione. Mariotti non è più solo l’enfant prodige della musica italiana, ma un direttore che sta entrando nella maturità del suo percorso e che sembra pronto per il salto di qualità definitivo. Il che lo si può dedurre innanzitutto dalla padronanza tecnica del gesto e, di conseguenza, dell’orchestra, che gli sta in mano come i cavi delle marionette, pronta ad essere aggiustata con una rotazione del polso o la flessione di una falange. Anche perché davanti al podio c’è l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, che lo conosce alla perfezione e sa rispondere ad ogni suo motto sicura e scattante e modificare se stessa in corso d’opera, o di una singola frase, per assecondarlo. Che poi il pensiero che il concerto di cui si parla coincida con l’ultimo impegno sinfonico da guida stabile dei complessi del Bibiena mette addosso un certo magone.

Di certo gli anni bolognesi l’hanno formato, tant’è che oggi si ascolta un eccellente direttore ma anche un concertatore maturo: equilibri perfetti, scorrevolezza, controllo di bilanciamenti e dinamiche, attacchi millimetrici e tanta, tanta fluidità di esecuzione. Cosa manca ancora, o almeno cos’è mancato al suo debutto sul palco del Teatro Verdi di Pordenone? Un po’ di trasparenza delle sonorità, soprattutto nei momenti in cui l’orchestra alza il volume, che eccedono in pesantezza e ruvidità. Poca cosa, è pur sempre vero che l’orchestra bolognese non può certo considerarsi una vessillifera ideale di idiomaticità nel sinfonismo tardoromantico.

Però i motivi di interesse non mancano. Il Brahms della Sinfonia n. 3 in fa maggiore ad esempio gli riesce decisamente personale, nel senso che Mariotti sa svincolarlo dalla gloriosa tradizione mitteleuropea senza che lo sgrassamento delle sonorità e la freschezza lo asciughino al punto da renderlo un freddo cadavere. Ci sono tantissimi momenti pennellati con un lirismo quasi operistico o accesi da vampe incalzanti, e poi un sacco di idee, spunti e visioni da artista di razza. Qualche passaggio è un po’ affastellato, se non proprio confuso meno limpido di quanto se ne sentirebbe il bisogno, anche perché il virtuosismo che richiederebbe Mariotti nell’articolare certe misure va forse al di là delle possibilità dell’orchestra.

Il Nuovo Mondo di Antonin Dvořák gli viene ancora meglio – e quanto è difficile mantenere alto il livello della tensione in quest’opera! – grazie a una bella varietà di dinamiche e di dettagli, tanti colori, guizzi fiammanti, qualche gigionata col tempo un po’ troppo spudorata ed energia pulsante. Per il resto vale quanto detto in precedenza: cura, fantasia e tecnica a piena profusione. Infatti il pubblico esplode e non lo lascia più tornare a casa.

L’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna è morbida e precisa, fraseggia, accenta e sfuma seguendo il podio al minimo cenno, ma soffre di qualche eccesso di imbolsimento nei forti e di una cupezza troppo greve degli archi a pieno organico.

Trionfo vero e proprio a fine concerto.

3 dicembre 2018

La Seoul Philharmonic Orchestra a Udine

Dalla burrascosa uscita di scena di Myung-Whun Chung, la Seoul Philharmonic Orchestra è ancora alla ricerca di un direttore musicale. Sono passati tre anni e chi ci è andato più vicino è Thierry Fischer, che dalla scorsa stagione è direttore ospite. Dopo una prima vita da strumentista di prestigio (tra le altre cose, flauto principale alla Chamber Orchestra of Europe con Abbado e a Zurigo negli anni di Harnoncourt) Fischer si è buttato sulla direzione a tempo pieno, con esiti di rilievo principalmente tra America e Asia. A guardarlo di spalle il suo gesto ha qualcosa di bernsteiniano – difficile credere che non tenga a modello il grande musicista americano – e in fondo il paradigma sembrerebbe essere quello anche nella maniera di infondere calore e di defibrillare l’orchestra. Orchestra che è spettacolare. La Seoul Philharmonic può davvero guardare in faccia le compagini più blasonate senza nascondersi, perché oltre ad essere tecnicamente la più classica delle grandi orchestre asiatiche, quindi suono strutturato alla perfezione con prodigioso bilanciamento di corpo e trasparenza, è un organismo d’anima tutt’altro che gelida. Se la qualità degli archi tutto sommato sorprende relativamente, essendo merce non così rara, è soprattutto la pasta di legni e ottoni colpire l’attenzione: intrinsecamente belli, affiatati nel fondersi l’uno con l’altro e morbidissimi.



E poi la SPO è orchestra che sa mutare in corso d’opera e di concerto. Già Muak di Isang Yun che apre la serata sollecita il virtuosismo dei filarmonici e del concertatore. Flessibilità e fluidità nel dialogo tra le sezioni, precisione totale, equilibri centellinati al bilancino. C’è un momento, più o meno verso la metà del brano, in cui le arcate di primi e secondi violini si sollevano in controtempo, quasi ad accentuare la sensazione di un moto ondoso che è già nella musica, con una plasticità danzante da corpo di ballo; eccola la grande orchestra! La scrittura (1978) mescola suggestioni orientali alla musica occidentale storicizzata piuttosto che alle avanguardie più audaci, insomma pensa a Stravinskij e al primo Novecento e probabilmente non inventa niente di nuovo, ma è piacevole e sicuramente assai ben concepita.

La Seoul Philharmonic Orchestra sa anche accompagnare, fatto tutt’altro che banale. Nel Concerto n. 5 op. 73 in mi bemolle maggiore “Imperatore” per pianoforte e orchestra di Beethoven, Fischer la trasforma in un cuscino soffice e delicato su cui il virtuosismo iperbolico di Sunwook Kim ha modo di distendersi con tutto l’agio possibile. Coreano anch’esso, Kim fonde in sé la disciplina orientale con una sensibilità internazionale. Mani robotiche, un controllo del suono e del ritmo prodigioso in ogni dinamica, purezza cristallina del tocco (e il Fazioli gran coda F278 gli dà manforte: che smalto!). Ci si potrebbe attendere una freddezza marmorea, se non accademica, da un tale musicista. Niente di più sbagliato. Sunwook Kim è sì una perfetta macchina da note, ma è anche interprete raffinato e misuratissimo che non soffre l’accostamento ad un titolo monstre del repertorio, anzi, riesce ad entrarvi infondendovi una freschezza di respiro e di gusto attualissima.

Nella Symphonie fantastique op.14 di Berlioz invece si fa largo Fischer. È impressionante come il direttore imprima da subito alla sinfonia una tensione trasfigurante, al punto che dopo il primo movimento ci si chiede come potrebbe evolvere o reggere fino alla fine una tale carica dionisiaca. Invece Fischer non si ferma e non rallenta, ma racconta. Pesca un Valse pastorale ma non privo di certa ironia, si ritrae in una Scena Campestre notturna e soffusa e poi scatena la tempesta negli ultimi due movimenti, che riescono più festanti che deliranti.

Sull’orchestra c’è poco da aggiungere. Un’iridescenza e una varietà dinamica che esaltano la scrittura berlioziana al massimo grado.

Grande successo per tutti, meritatissimo.