28 dicembre 2013

La Messa di Requiem di Verdi al teatro Verdi di Trieste

Con la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi il teatro triestino termina gli appuntamenti in cartellone per la stagione di musica sinfonica, in attesa di inaugurare a gennaio quella di opera e balletto con Un Ballo in Maschera, altro capolavoro del bussetano. 

Nota è la genesi del lavoro verdiano, dedicato alla memoria di Alessandro Manzoni, figura verso cui il compositore ha sempre nutrito un’ammirazione profonda e sincera, come testimoniano, ancor prima del Requiem stesso, diversi passaggi biografici facilmente rintracciabili nell’epistolario. Centrare la natura del lavoro, per stile e sensibilità affatto unico nel panorama della musica sacra, rimane ad oggi una sfida affascinante per l’interprete che vi si pone di fronte. Il dilemma di individuare quale sia il carattere della messa, quale la sua anima o il suo messaggio e in quale posizione collocarlo rispetto alla produzione operistica verdiana (che inevitabilmente si intravede tra le pagine del requiem) è affare tutt’altro che risolto ed è compito del direttore scegliere una direzione interpretativa, in base alla propria sensibilità e formazione.

Gianluigi Gelmetti, a capo dell’orchestra del Teatro Verdi, opta per una lettura di buon passo, privilegiando l’aspetto teatrale ed epidermico della musica. Il maestro dimostra di saper reggere la tensione senza cedimenti, con mestiere e buon senso, senza ricercare calligrafismi od approfondimenti eccessivi. Gelmetti sceglie tempi sostenuti, così da andare incontro alle esigenze dei solisti e dell’orchestra, meno brillante che in altre occasioni. Piace la compattezza di suono e la precisione: la pulizia degli attacchi e la varietà di dinamiche evidenziano il buon lavoro di concertazione, mentre lascia qualche perplessità la cura del colore e della qualità di suono (soprattutto gli archi non sono in forma smagliante) e piacerebbe una maggiore trasparenza. Al solito convincente il coro preparato da Paolo Vero.

Luci ed ombre nelle prove dei quattro solisti. Convince Laura Polverelli per stile e musicalità; la voce, benché di modesto volume, suona uniforme e ben emessa, ottimi il gusto nel porgere ed il fraseggio.
Il tenore Gianluca Terranova, forse in non perfette condizioni vocali, mostra diverse opacità e spoggiature nella mezzavoce mentre il registro acuto pare meno brillante che in altre occasioni. Lasciano buone impressioni tuttavia i tentativi di alleggerire il canto e di lavorare sulle dinamiche.
Enrico Iori fornisce una prova positiva: la voce, di buon volume e colore, risulta omogenea e ben controllata; il basso sceglie di leggere il capolavoro verdiano accentuando la sua dimensione teatrale – impostazione che taluni potrebbero trovare fuori stile – lavorando sulla parola e sull’accento.
Rachele Stanisci, soprano, a dispetto di una voce poco affascinante per qualità intrinseche, palesa buone intenzioni (che non sempre trovavano realizzazione) cercando un canto sfumato ed espressivo, soprattutto nel libera me. Purtroppo la voce evidenzia non poche asperità e forzature nel registro acuto, soprattutto nella prima parte di concerto.

12 dicembre 2013

Il Messiah di Händel diretto da Ton Koopman

Il nome di Ton Koopman è indissolubilmente legato alla rinascita del barocco avvenuta negli ultimi decenni del secolo scorso, vero e proprio pioniere nella riscoperta del repertorio e soprattutto nella ricerca di una prassi esecutiva filologica. Non sorprende dunque che il Teatro Verdi di Pordenone proponesse il Messiah per soli, coro e orchestra di Händel , diretto dal maestro olandese alla guida della sua Amsterdam Baroque Orchestra, tra gli appuntamenti di spicco della stagione di musica.


Figura di intellettuale, saggista e studioso ancor prima che di musicista, già al solo ascolto si intuisce quanto Koopman privilegi su tutto l'analisi strutturale dell'opera: c'è, nell'apollinea perfezione e nell'approfondimento musicologico che Koopman fa della partitura una certa meccanicità, questo è innegabile, si direbbe quasi una contemplazione statica del genio compositivo che tende a mettere in secondo piano la componente emotiva e teatrale della musica. I minimi difetti vengono tuttavia ampiamente bilanciati dall'ammirevole ricchezza di sfumature e dalla profondità di analisi del lavoro, resa possibile da un'orchestra eccellente per nitore di suono, trasparenza e pulizia. L'Handel di Koopman è un prodigio di equilibri, ogni voce strumentale è posta sotto la lente di ingrandimento, ad esaltare la complessità contrappuntistica della scrittura orchestrale, pur senza perdere il senso generale dell'architettura dell'opera (e qui si apprezza la lunga consuetudine del maestro con il capolavoro handeliano). Per il gusto odierno è forse mancata una più decisa sottolineatura della forza drammatica di certe pagine ed una cura del fraseggio che emancipasse l'esecuzione dallo stato di sola realizzazione musicale, benché inappuntabile, conferendogli una compiutezza drammaturgica che è mancata, soprattutto nella distinzione dei caratteri affatto diversi delle tre parti che compongono il Messiah.

Vero protagonista dell'oratorio handeliano è il coro, nel caso specifico l'Amsterdam Baroque Choir, diretto da Frank Markowitsch. Non possiamo che lodare il cimento della compagine olandese, sia per la pertinenza stilistica, sia per la realizzazione tecnica. Colpiva, al di là dell'impeccabile esecuzione musicale, la chiarezza di dizione, ottenuta grazie ad un'emissione scoperta, meno rotonda e strumentale rispetto a un coro che frequenti repertori posteriori, ma non per questo meno pregevole.
Positive nel complesso le prove dei quattro solisti. Piaceva molto, a dispetto di una voce piccina, il controtenore Maarten Engeltjes, per colore, morbidezza d'emissione e musicalità. Corretto il tenore Jörg Dürmüller, cantante di timbro ordinario ma di buon gusto. Il basso Klaus Mertens esibiva una vocalità chiarissima, dal timbro quasi tenorile, ma omogenea e sonora, ottima pronuncia ma stile ed agilità perfettibili. Non impeccabile il soprano Johannette Zomer che palesava difficoltà nel registro acuto, fisso e faticoso nei passaggi di agilità.
A fine concerto ottima accoglienza del pubblico pordenonese con punte di entusiasmo per il maestro Koopman.