13 aprile 2016

Una trionfale Cenerentola di Rossini al Verdi di Trieste

Non c’è nessuno sconvolgimento drammaturgico ma una timida rivisitazione di contesto, che pure ha una sua efficacia, nella Cenerentola rossiniana in scena al Teatro Verdi di Trieste. I luoghi della fiaba vengono accantonati per spostare la buona Angelina e le terribili sorellastre in un fatiscente teatro abbandonato dove lei lavora alle caldaie mentre loro giocano da divastre tra gli abiti di scena nei camerini. Don Magnifico ne è il malaugurato gestore, il principe Ramiro il proprietario e Dandini una sorta di suo factotum.

Per il resto, dati di contesto a parte, siamo dalle parti delle Cenerentole di buona tradizione, con i pregi e i difetti che ne conseguono. In fin dei conti piace constatare che i primi prevalgano nettamente sui secondi: la regia curata da Rodula Gaitanou infatti si traduce in una narrazione vivace e frizzante, ben calibrata nei movimenti e nel ritmo. Solisti e masse non danno mai l’impressione di essere abbandonati a loro stessi né si avvertono, in quasi tre ore di spettacolo, momenti di stanca o di incertezza. Le minime riserve riguardano il gusto con cui sono risolti taluni passaggi, eccessivamente caricati di una comicità non elegantissima. Le non bellissime scene di Simon Corder tendono forse a un’eccessiva cupezza ma sono funzionali al disegno registico.


Se la “parte scenica” dello spettacolo, tra alti e qualche basso trascurabile, nel complesso funziona egregiamente, ancor più convincente risulta l’esecuzione musicale.

Josè Maria Lo Monaco è una protagonista eccellente sia per presenza scenica sia per qualità del canto. Oltre alle incontestabili doti vocali – il timbro è di bel colore brunito, l’emissione omogenea e timbrata – ciò che conquista è la capacità di dar vita ad un personaggio di grande dolcezza e fascino.

Molto buona la prova di Leonardo Ferrando, Ramiro. La scomodissima tessitura della parte è dominata con facilità in ogni registro, la linea di canto è pulita ed espressiva. Manca al tenore ancora un po’ di smalto nel registro acuto ma ciononostante la voce, benché piccola di volume, corre e si espande in sala senza problemi.

Piace il Dandini istrionico e brillante di Fabio Previati, artista dotato di una vocalità importante e di uno spiccato senso per il comico.
Nonostante il taglio della seconda aria “Sia qualunque delle figlie”, Vincenzo Nizzardo è un Don Magnifico convincente nel canto e soprattutto nei recitativi, compilati con notevole dovizia di colori ed accenti. Andrebbero forse limati alcuni eccessi nella recitazione.

Filippo Polinelli è poi un Alidoro di lusso, eccellente nella sua grande aria Là del ciel nell’arcano profondo e impeccabile in ogni altro intervento. Tra le sorellastre se la cava meglio Irini Karaianni, Tisbe, giacché Clorinda (Lina Johnson) qualche limite vocale lo palesa.

Sul podio il direttore George Petrou fa un ottimo Rossini. L’Orchestra del Verdi, ridotta nelle dimensioni, restituisce un suono leggero e dettagliatissimo ma mai flebile. Il direttore impone una narrazione tesa e brillante, implacabile nell’incedere ritmico senza mai irrigidirsi ed estremamente varia nelle dinamiche. Le uniche perplessità riguardano alcuni tagli nei recitativi e l’inspiegabile amputazione della seconda aria di Don Magnifico.

Ben si comportano le voci maschili del coro preparato da Fulvio Fogliazza.

Pubblico entusiasta, giustamente.
Paolo Locatelli
© Riproduzione riservata



5 aprile 2016

L’inconcludente Bruckner di Michel Tabachnik al Malibran


Più che la strada per l’inferno, spesso sono i vicoli ciechi a essere lastricati di buone intenzioni. Non c’è infatti niente di infernale nel Bruckner di Michel Tabachnik, tutt’altro – alcuni passaggi sembrano ispirati da una luce celestiale – ma una sfilza di pregevoli propositi che rimangono appena abbozzati o completamente disattesi. Tanti bei momenti dunque ma anche parecchia discontinuità, soprattutto nel tenere insieme i pezzi e l’orchestra.

L’approccio del direttore svizzero alla Sinfonia n. 7 in mi maggiore avrebbe in realtà un qualche fascino: l’alleggerimento del suono ed un certo gusto per la trasparenza e la morbidezza sarebbero carte buone da giocare se calate in un contesto più coerente e definito. Però nel complesso la sinfonia zoppica.

A un Primo movimento che mescola estrema pulizia e raffinatezza a qualche pasticcio di coesione, segue un Adagio inconcludente e sghembo in cui i diversi momenti faticano a fondersi. È proprio qui, nel cuore della Settima, il lungo, devastante addio a Wagner, che il meccanismo si inceppa. Il quadro è (più o meno) corretto e pulito ma desolatamente asettico: i pianissimi sono assai suggestivi e limpidi ma hanno tutti lo stesso colore, i passaggi più drammatici invece esplodono con una brillantezza esteriore che pare totalmente avulsa dal resto. Tabachnik sembra destarsi nello Scherzo, dove indovina un’esposizione tesa e serrata che riesce spiazzante perché inattesa ma si spegne nuovamente in un Finale debole e chiuso malamente.

Insomma se davvero c’è in questa sinfonia qualcosa di lacerante e tormentato, Tabachnik lo lascia tra le pagine della partitura limitandosi a un pregevole ma incostante esercizio di calligrafia. Spiace perché l’Orchestra della Fenice si conferma, per lunghi tratti, ad alti livelli.

La Marcia Funebre di Sigfrido che apre il concerto scivola via in una sostanziale correttezza.

Pubblico tiepido e confuso.
Paolo Locatelli
© Riproduzione riservata

La Butterfly di Chung al Teatro La Fenice

Ogni apparizione di Myung-Whun Chung al Teatro La Fenice non manca di lasciare il segno. La ripresa della Madama Butterfly di Àlex Rigola (regia) e Mariko Mori (scene e costumi), già recensita in occasione del debutto, non solo coincide con una prestazione musicale di prim'ordine ma soprattutto si traduce in una rivitalizzazione di uno spettacolo che, all'esordio e alle successive proposte, qualche perplessità l'aveva lasciata.


Chung disegna una regia musicale di straordinaria raffinatezza che si adatta come un guanto al palcoscenico, esaltando quell'essenzialità di scene e gesti che caratterizza lo spettacolo. Il suono orchestrale è costantemente delicato e terso, non c'è passaggio che esca dalla buca forzato o confuso, dal pianissimo più impalpabile ai forti, sempre brillanti e compatti. La gestione dell'agogica è estremamente intelligente perché rinuncia a moltissimi dei vezzi di tradizione, riuscendo ad unire a una sostanziale fedeltà al dettato scritto una sottile flessibilità che ammanta di poesia la musica.

L'Orchestra della Fenice lo segue al millimetro, riuscendo a esprimere sonorità limpide e levigate, intrinsecamente bellissime e perfettamente calibrate negli equilibri interni sicché ogni inciso, ogni voce esposta, riesce ad emergere da un tessuto trasparente con naturalezza sorprendente.

Il cast, rispetto a quanto si ascolta dalla buca, vola meno alto ma offre comunque più d'una ragione di interesse. Vittoria Yeo è una cantante dalla risorse tecniche ragguardevoli che le consentono di risolvere il canto con correttezza ed omogeneità di emissione: la voce è salda in ogni registro, l'intonazione sempre precisa. Tuttavia manca ancora qualcosa sia in termini di peso specifico, soprattutto nei passaggi che sollecitano maggiormente la drammaticità, sia nell'approfondimento del fraseggio e dei colori che tendono all'uniformità.

Vincenzo Costanzo ha qualche impaccio nella proiezione della voce e nel legato ma riesce a tratteggiare un Pinkerton credibile per baldanza e spontaneità. Luca Grassi è uno Sharpless dalla vocalità solida e timbrata cui si potrebbe chiedere solamente una maggiore attenzione ai dettagli nel canto di conversazione. Si conferma ad alti livelli Manuela Custer, Suzuki intensa e musicalmente irreprensibile. Molto buona la prestazione di Luca Casalin, Goro.

Le parti minori sono tutte all'altezza della situazione ma meritano una menzione il solido Yamadori di William Corrò e l'autorevole Zio Bonzo di Cristian Saitta.

Il coro preparato da Claudio Marino Moretti è sempre una garanzia di eccellenza.

A fine recita franco successo per tutti con ovazioni all'indirizzo di Chung.

Pianisti per tutti i gusti

Cos'hanno in comune Jan Lisiecki, Maurizio Baglini e Grygory Sokolov? Due cose: sono tutti pianisti e sono finiti sotto la mia lente di ingrandimento nelle ultime settimane. Baglini con il suo bel disco dedicato a Schumann (potete leggerne qui), Jan Lisiecki con il suo concerto al Verdi di Pordenone e Sokolov con un concerto deludente alla Fondazione Bon (ne scrivo qui).



4 aprile 2016

Chung dirige lo Stabat Mater di Rossini alla Fenice

La lunga e travagliata gestazione, l'impronta teatrale marcata e la schietta radice operistica nell'impostazione musicale dei numeri fanno dello Stabat Mater di Rossini un lavoro peculiare nel repertorio sacro, senz'altro d'immenso fascino ma, non di meno, estremamente probante per un direttore d'orchestra. Il rischio tutt'altro che remoto di frammentarietà o quantomeno di incappare in qualche disomogeneità nell'esposizione pare tuttavia non sfiorare Myung-Whun Chung che, al Teatro La Fenice, si conferma direttore di prima grandezza, capace di spiegare e raccontare magistralmente l'opera rossiniana e, appunto, di centrare quella compattezza che per molti rimane un miraggio.
Il Maestro sudcoreano riesce infatti a fondere l'analiticità di una lettura in cui ogni dettaglio viene esposto e illuminato a una narrazione serrata che accumula progressivamente tensione fino ad esplodere in un fugato finale bruciante.
Nel disegno di Chung tuttavia, questa drammaticità scoperta e montante, si fonde senza soluzione di continuità ad una spiritualità profonda: i gesti teatrali più esteriori ed epidermici non paiono mai forzati così come colpisce la fluidità con cui vengono calibrati i contrasti dinamici della scrittura, sia in orchestra sia nelle voci, che mai scadono in un effettismo fine a se stesso. Non meno impressionante la capacità del Maestro di dare senso e significato ai silenzi, alle pause, di conferire loro il giusto respiro e di fonderli con il suono. Suono che è poi sempre caldo e ricco, anche nei passaggi più cupi e concitati, e che riesce a restituire a pieno la tragicità del lavoro senza mai perdere limpidezza e rotondità.

L'Orchestra della Fenice risponde alle suggestioni del podio con encomiabile precisione e ottima qualità.
I solisti e il coro hanno il merito di affidarsi completamente al direttore, assecondandone il disegno con cieca fiducia anche laddove le richieste siano praticabili con certa difficoltà. Il risultato raggiunge così una coerenza che eclissa, quando ci sono, alcuni piccoli limiti, ravvisabili soprattutto nel peso delle voci.

Carmela Remigio, soprano, soffre un po' nell'aria con coro Inflammatus et accensus la possanza del suono orchestrale mentre nell'introduzione e soprattutto nel duetto Quis est homo hanno modo di emergere con forza la sua musicalità e la solida tecnica.
Il mezzosoprano è Marina Comparato, musicista sensibile che sa risolvere il canto con gusto ed attenzione al fraseggio, qualità che affiorano prepotentemente nella Cavatina. La voce poi, rispetto a qualche tempo fa, sembra essersi inspessita ed aver maturato fascinose screziature brunite.
Positiva anche la prova di Edgardo Rocha, capace di superare senza difficoltà l'ardua scrittura della parte tenorile. Anche l'improba aria Cujus animam gementem è affrontata con sicurezza e con il giusto legato.
Mirco Palazzi, basso, canta con vocalità omogenea e morbida riuscendo a modellare la musica con un'espressività che non è mai forzata ma sempre incanalata in una linea elegante e pulita.

Merita un elogio il bravo Claudio Marino Moretti che ottiene dal suo coro una ricchezza di colori ed inflessioni stupefacente.

Trionfo a fine concerto e pubblico salutato con il bis dell'Amen finale.