29 settembre 2014

Lo Stabat Mater di Dvořàk apre la stagione del Verdi di Pordenone

Cercando di rincorrere i tempi e le tendenze, la direzione del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone ha scelto di marchiare la stagione 2014-15 con l'hashtag #unabellastagione. Al di là delle manovre propagandistiche, questa strategia sottintende un manifesto di intenti, la proposta di un cartellone raffinato e ricercato, se non altro nei propositi, che tuttavia temiamo possa rivelarsi in fin dei conti elitario. La decisione di puntare molto sulla musica da camera, sul barocco e, proseguendo la linea intrapresa nella scorsa stagione, sulla musica sacra è senza dubbio rischiosa in termini di consenso ed attrattiva e presuppone una predisposizione del pubblico alla curiosità che sarebbe incauto dare per scontata.



L'inaugurazione di stagione infatti, nonostante il fascino e la rarità del titolo in programma, lo Stabat Mater di Antonin Dvořák, non ha trovato quel riscontro – in termini numerici - che era lecito attendersi e molti dei posti disponibili sono rimasti invenduti. Dispiace considerando l'originalità della proposta ma anche la bontà dell'esecuzione.
La prova dell'Orchestra Haydn di Bolzano e Trento, diretta da Hartmut Haenchen, convinceva per precisione e pulizia, pur mancando di quella rotondità d'impasto e di quella sospensione nei pianissimi che avrebbero restituito la partitura in tutto il suo fascino. Haenchen guidava l'orchestra con solida professionalità ma scarso senso della narrazione: al di là della correttezza e dell'abilità nel gestire con equilibrio gli oltre 130 artisti impegnati sul palcoscenico, si è sentita la mancanza di una maggiore caratterizzazione timbrica dell'amalgama e soprattutto di una diversificazione dei vari pezzi del concerto, omogeneizzati da un'irrisolta monocromia. Il direttore sapeva calibrare con mestiere i rapporti interni all'orchestra, dando giusto risalto alle parti solistiche e trovando una buona compattezza d'insieme; si percepiva tuttavia una certa meccanicità in taluni passaggi ed i fraseggi parevano poco caratterizzati.

Convinceva invece senza riserve l'ottimo Coro da Camera Sloveno di Lubiana preparato da Martina Batič, autore di una splendida prova per ricchezza di colori e finiture dinamiche ma soprattutto per l'espressività dell'eloquio.
Tra i solisti piaceva (nonostante la pessima pronuncia latina) Bettina Ranch, mezzosoprano dalla voce rotonda e brunita e dal notevole temperamento. Sabina Von Walther offriva alla parte del soprano una vocalità penetrante ma garbata e ben modulata nella linea. Il tenore Dominik Wortig ha voce piccola e priva di particolari attrattive timbriche ma è musicista preparato e veniva a capo agilmente della scrittura. Il baritono Alejandro Marco-Buhrmester affrontava la parte del basso non senza impacci nel registro grave e con una certa rigidità nel legato ma, con il salire della tessitura, acquistava di brillantezza e raffinatezza del fraseggio.
A fine concerto ottima accoglienza del pubblico in sala con punte di entusiasmo per il coro e il maestro Haenchen.

28 settembre 2014

Valery Gergiev e la London Symphony Orchestra aprono la stagione udinese

Che la London Symphony Orchestra sia una compagine di prima grandezza è cosa nota al pubblico udinese sin dal 2012 quando il teatro salutò con entusiasmo i londinesi, allora diretti da Antonio Pappano, in un memorabile concerto. Chi era presente ricorderà il suono lucente e brillante di quell'orchestra, la freddezza dei colori, e sarà rimasto forse sorpreso nel ritrovare la stessa London Symphony, guidata dal suo Principale Valery Gergiev, quasi irriconoscibile (se non per la preservata perfezione tecnica) nel concerto inaugurale della stagione 2014-15 del Teatro Nuovo Giovanni da Udine.



La mano di Gergiev è evidente nei fraseggi, persino lampante nel colore orchestrale divenuto brunito, denso. Sin dal primo lavoro in programma, l'Ouverture-fantasia in si minore Romeo e Giulietta di Pëtr Il'ič Čajkovskij , appare chiaro come Gergiev intenda il repertorio romantico russo: timbri caldi, fraseggi intensi, archi avvolgenti (continuamente incitati ad accentuare il vibrato), equilibrio massimo tra le sezioni orchestrali. Infatti, pur nell'imponenza dell'orchestra e nella drammaticità del colore adottato, non c'è inciso o frase solistica che vengano oscurati; ogni nota, finanche il pizzicato di un singolo violoncello, è perfettamente distinguibile. Ovviamente la caratterizzazione del brano punta ad una drammaticità viva ed ineluttabile in cui la tragedia prevale sull'amore; paradigmatica l'inedita rilevanza data, nel finale, all'accompagnamento di bassi e timpani per una marcia funebre che diventa, da sottofondo remoto, vera protagonista della narrazione musicale.

La Sinfonia n. 1 in re maggiore, op. 25 "Classica" di Sergej Prokof'ev intendeva essere, per ammissione dello stesso compositore, un'opera sinfonica ispirata allo stile di Haydn, rivisitato alla luce delle ultime conquiste musicologiche. È quindi evidente che, dato il carattere particolare della composizione, il direttore possa scegliere quali aspetti evidenziare od approfondire, se assecondare il classicismo della scrittura o porre sotto la lente di ingrandimento le innovazioni ritmiche e cromatiche. Gergiev sceglie una terza via, leggendo la sinfonia quasi fosse un lavoro romantico, sia per l'imponente organico orchestrale disposto, sia per il colore adottato, sia per le disposizioni ritmiche ed i fraseggi. Sin dall'Allegro iniziale i suoni sono cupi, il tempo staccato più lento di quanto si sia abituati ad ascoltare. Sorprende, pur nella densità del suono, la perfetta distinzione di ogni voce: non c'è frase che non sia misurata e caratterizzata nel fraseggio e nella dinamica, come nel rapporto con le altre voci orchestrali. Ad un Larghetto malinconico e lamentoso segue una Gavotta per nulla classica, cesellata con rubati da capodanno viennese. Per il quarto movimento, molto vivace, Gergiev stacca un tempo serratissimo, quasi furioso, supportato da un'orchestra capace di reggere con intatta perfezione contrappuntistica.

La Sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore op. 100, dello stesso Prokof'ev, caratterizzava la seconda parte di concerto. È noto quale fosse il messaggio riposto dal compositore nell'opera: in sintesi un inno alla purezza dell'uomo libero e felice. In effetti molte interpretazioni della Quinta, improntate ad evidenziare la scrittura trionfalistica e magniloquente, rendono, sia pur in modo superficiale, un senso di grandiosa celebrazione della gioia. Gergiev invece, che si conferma interprete geniale, va in tutt'altra direzione: sin dall'Andante l'atmosfera appare cupa e pessimistica, le cellule tematiche si susseguono nevrotiche e forzate, quasi si volesse esprimere una felicità fasulla, simulata. L'Allegro è rabbioso, l'elemento grottesco è marcato fino al parossismo. Nell'Adagio (terzo movimento) parrebbe quasi che la nevrosi cessi per lasciare posto ad una malinconica rassegnazione, ancora non c'è traccia di gioia autentica, al massimo alcuni passaggi lasciano l'illusione di una ritrovata serenità.
Nell'Allegro giocoso finale ritorna l'estenuante esposizione, ossessiva, di un trionfo simulato. L'accompagnamento alterna pennellate malinconiche a momenti di rigore marziale, i temi si ripetono ipnotici ma il dialogo tra gli archi (morbidissimi e scuri) e la violenza di ottoni e percussioni rivela un tormento irrisolto che nulla ha a che vedere con la celebrazione della gioia.
Oltre alla perfezione esecutiva ed all'affiatamento dei professori d'orchestra, colpisce davvero la compiutezza interpretativa e la coerenza del disegno generale, ulteriore conferma della grandezza di Valery Gergiev nel proprio repertorio d'elezione.

A fine concerto il pubblico entusiasta è stato salutato dall'orchestra con la Marcia dall'Amore delle tre melarance dello stesso Prokof'ev.

25 settembre 2014

Un inganno felice alla Fenice

Da diverse stagioni il Teatro La Fenice propone un sistema di programmazione ibrido che affianca alle nuove produzioni la ripresa di spettacoli collaudati, un vero e proprio repertorio, così da incrementare la produttività riducendo al minimo le spese, investendo su quel pubblico turistico che a Venezia non manca mai.


Accanto all'ormai celebre Traviata di Carsen e al meno ispirato Trovatore di Mariani, il cartellone propone, per questa fine estate, L'Inganno Felice di Rossini, nell'allestimento creato da Bepi Morassi per il Teatro Malibran, già recensito da Alessandro Cammarano quando esordì nel 2012.
Lo spettacolo privilegia il lato malinconico dell'opera, accantonando il carattere farsesco per concentrarsi sul dramma privato dei protagonisti. L'ambientazione bellica carica ulteriormente di tinte cupe la vicenda, estendendo l'alone tragico all'intera comunità, calata in una trincea della Grande Guerra.
Il risultato in fin dei conti convince grazie alla coerenza della realizzazione ed all'ottima fattura di scene e costumi. Le poche perplessità riguardano la scelta del regista di proporre – all'interno di uno spettacolo peraltro molto curato anche sotto il profilo della recitazione – alcune gag e siparietti, tipici dell'opera buffa, che si inseriscono con difficoltà nella seriosità del quadro generale.
Convinceva invece senza riserve l'esecuzione musicale, grazie ad un cast omogeneo e all'ottima direzione di Stefano Montanari, capace di infondere alla narrazione ritmo e tensione senza sacrificare la cura per il suono (davvero centrata e suggestiva la tinta orchestrale nell'introduzione all'ultima scena), la trasparenza della trama orchestrale e l'attenzione ai dettagli. Ottimo l'accompagnamento al fortepiano di Roberta Ferrari.

Marina Bucciarelli era un'Isabella convincente per espressività e cura del canto, gestito con morbidezza ed attenzione al fraseggio, senz'altro aiutata da uno strumento dal timbro privilegiato.
Molto buona la prova di Omar Montanari nei panni di Tarabotto per padronanza dello stile e della tecnica necessari a risolvere al meglio il repertorio buffo rossiniano: il cantante unisce alla freschezza dell'emissione una spiccata sensibilità espressiva per i recitativi, risolti con misura e buongusto.
Giorgio Misseri, Bertrando, a dispetto di un timbro non particolarmente accattivante, veniva a capo senza patemi dell'insidiosa scrittura, esibendo agilità facili ed un registro acuto sicuro.
Convinceva Filippo Fontana, Batone di solida presenza e vocalità, pur non immune da imprecisioni nell'aria Una voce m'ha colpito.
Inappuntabile l'Ormondo di Marco Filippo Romano, cantante dalla voce rotonda e timbrata nonché dall'eccellente musicalità.
A fine recita buona accoglienza del pubblico in sala, con applausi convinti per tutta la compagnia.