28 aprile 2015

Daniel Müller-Schott in concerto

Poco tempo fa mi è capitato di lodare la notevole crescita della FVG Mitteleuropa Orchestra divenuta ormai, da cantiere aperto, una solida realtà. Il penultimo appuntamento della stagione musicale del Teatro Nuovo Giovanni da Udine, che vedeva protagonista appunto la compagine friulana diretta dal bravo Philipp Von Steinaecker, ha ulteriormente confermato le recenti impressioni. Innanzitutto i professori d'orchestra hanno raggiunto una sicurezza che si apprezza sia nella minima incidenza di imprecisioni, sia nella qualità dell'amalgama che, nonostante qualche secchezza di troppo, risulta nettamente migliorata rispetto al passato per rotondità e leggerezza, inoltre le prime parti della compagine risultano ad oggi assolutamente convincenti per risorse tecniche e musicali. Philipp Von Steinaecker, maestro sensibile e pragmatico, sa cosa può chiedere ai musicisti ma conosce altrettanto bene il limite oltre il quale è saggio non spingersi: lo dimostra chiaramente la sua concertazione estremamente attenta alle sfumature dinamiche ed all'equilibrio ma cui manca un briciolo di coraggio, soprattutto in quanto ad elasticità dell'agogica. Va reso merito ad orchestra e direttore di aver retto con sicurezza un programma molto ampio e variegato, composto in buona parte da brani di non frequente esecuzione.

Dopo un'Ouverture dall'opera Béatrice et Bénédict di Hector Berlioz piuttosto anonima, salgono sul podio il tenore Alessandro Scotto Di Luzio ed il Coro Del Friuli Venezia Giulia, ben preparato da Cristiano Dell’Oste, per due lavori di Gabriel Fauré: Masques et bergamasques op. 112, Comédie musicale per tenore, coro e orchestra e Les Djinns op. 12 per coro e orchestra. Scotto Di Luzio si disimpegna senza imbarazzi nei brani destinati alla voce di tenore, esibendo timbro di notevole qualità e buon volume; il coro affronta con buona compattezza e precisione la propria parte. Impeccabile l'accompagnamento orchestrale, mai prevaricante sulle voci.

La seconda parte del concerto viene aperta dal poema sinfonico di César Franck Les Éolides, apprezzabile per l'accurata concertazione di Steinaecker, capace di ottenere dall'orchestra sonorità di ammirevole purezza nonché una sorprendente varietà di colori.

Nella frazione finale del concerto protagonista è il violoncellista Daniel Müller-Schott; l'Élégie op. 24 per violoncello e orchestra di Gabriel Fauré, come il Concerto n.1 in la minore op. 33 per violoncello e orchestra di Camille Saint-Saëns, mettono in luce un musicista dalle indiscutibili risorse tecniche unite ad una sensibilità d'interprete fuori dal comune; il suono è rotondo e caldo, la precisione assoluta, magnifico il legato. C'è nel modo di approcciare allo spartito di Müller-Schott un abbandono alla cantabilità decisamente epidermico che, a tratti, pare concedersi l'effetto più facile piuttosto che mirare alla ricerca di più approfondite ragioni musicali, scelta dettata forse anche dalle caratteristiche intrinseche dei lavori in programma.

Molto calorosa l'accoglienza del pubblico a fine concerto, con punte di entusiasmo per Daniel Müller-Schott.

25 aprile 2015

Ancora una volta Traviata al Teatro La Fenice

Cosa spinge un melomane a vedere e rivedere uno stesso spettacolo cinque, dieci, venti volte? Oltre a quella pulsione ossessivo-compulsiva da collezionista di presenze a teatro che, chiaramente, fa la sua parte. Direi la curiosità innanzitutto, il piacere epidermico e irrazionale che in ogni caso un’opera dal vivo può scatenare, nel peggiore dei casi il bilioso puntiglio di chi spera di cogliere in fallo questo o quell’artista, attendendolo al varco di un acuto o di qualche scoglio tecnico. Questo per dire che ho visto La Traviata di Robert Carsen, caposaldo incrollabile del repertorio della Fenice, almeno sei-sette volte, restandone talvolta entusiasta, in genere soddisfatto ma mai, mai deluso. Le ragioni sono banali: lo spettacolo è bello, sensato e pensato, funziona alla grande anche a undici anni dal debutto, la compagnia del teatro saprebbe svolgerlo ad occhi chiusi senza la minima incertezza. Già ne scrissi qui, qui e probabilmente anche da qualche altra parte. Per giunta la direzione artistica del teatro riesce sempre, ad ogni ripresa, ad allestire cast interessanti, non di rado sorprendenti.



Ekaterina Bakanova ne è un brillante esempio: chiamata a debuttare nella parte di Violetta un paio d’anni fa in questo stesso allestimento, il soprano russo ritorna sul palco del Teatro La Fenice per far rivivere un personaggio che sente molto e che riesce ad animare di una verità teatrale travolgente. Al di là della solidità vocale che, ad eccezione di alcune opacità in acuto, è eccellente, la Bakanova si conferma musicista di prim’ordine, capace di dare significato ad ogni inciso grazie ad un fraseggio accuratissimo e ad un lavoro attento sull’accentazione e sulle dinamiche. L’attrice è poi all’altezza della cantante, se non superiore. Davvero notevole il suo terzo atto.

Molto positiva la prova di Piero Pretti, tenore dalla vocalità sicura e dall’ottima presenza scenica, capace di disegnare un Alfredo giovanile ed appassionato. La voce corre bene in sala, il gusto nel porgere è fresco e misurato. Convince il solido Germont di Marco Caria, cantante dotato di una voce importante ed omogenea cui si potrebbe solo rimproverare una certa piattezza nelle dinamiche. Tutti ineccepibili i tantissimi artisti chiamati a coprire la parti minori.

Concertazione di buone maniere quella di Gaetano d’Espinosa, sorvegliata ed attenta agli equilibri, alla chiarezza timbrica, ma zoppicante sulla tenuta teatrale. Certe scelte agogiche poco intelligibili (con accelerazioni e brusche frenate), talune sottolineature di incisi strumentali o cesellature fin troppo puntigliose, danno la sensazione di una direzione che a tratti perde la visione globale dell’opera, inciampando in cali di tensione; tuttavia non si possono che apprezzare la cura per la precisione strumentale ed il sostegno al palco garantiti dal maestro. Impeccabili orchestra e coro.

Trionfo personale per Ekaterina Bakanova e franco successo per tutta la compagnia a fine recita.

Paolo Locatelli


15 aprile 2015

Jeffrey Tate e la sua commovente Nona di Mahler

L'ipotesi esegetica più condivisa, inaugurata da Alban Berg e confermata in parte anche dalle testimonianze di Mahler e di chi gli fu vicino negli ultimi anni, identifica nella Nona Sinfonia un inno alla natura, alla morte, ineluttabile esito estremo di ogni vita umana, ed alla loro drammatica, insolubile, coesistenza. Evidentemente è difficile, durante un'esperienza di ascolto, scindere completamente il giudizio dalle influenze culturali, dai luoghi comuni e persino dall'autosuggestione, tuttavia è innegabile che la lettura della Nona di Mahler, portata al Teatro La Fenice da Jeffrey Tate, scavi nel profondo della partitura, scovandovi la forza più viva e primordiale, quella verità che per un artista è sempre l'orizzonte cui puntare. Pare che Tate riesca a cogliere pienamente questo dualismo tragico, l'opposizione tra una natura pulsante e vitale e la falce incombente della fine, nonché il disagio dell'essere umano nel mezzo, destinato, nonostante tutto, alla sconfitta.
Senza dubbio il Maestro avverte nella Nona Sinfonia una sofferenza lacerante, chiara sin dall'inizio del primo movimento, staccato con un tempo molto lento e con il canto malinconico degli archi – e quell'intervallo discendente di seconda che ricorre continuamente, mai meccanico né trascurato ma ogni volta ripreso con sfumature diverse – su cui si staglia, quasi in un processo dialettico, l'ombra della distruzione. Questo tema fondamentale permea la narrazione, ovviamente, nelle intenzioni del compositore stesso, tuttavia Tate lo enfatizza scegliendolo quale cardine della propria lettura. Lettura che esce quindi estremamente coerente e convincente, senza cali di tensione o debolezze nella tenuta.

Il secondo movimento Im Tempo eines gemachlichen Ländlers è caricato di una pesantezza esagerata, non certo nel suono quanto piuttosto nelle accentazioni, che ne esaspera il lato grottesco e volutamente volgare; se è vero che nei pannelli centrali della sinfonia Mahler intende rappresentare la civiltà umana nelle sue organizzazioni, indiscutibilmente Tate identifica in questa presenza una fatica, una goffaggine nettamente contrapposta alla fluidità dirompente con cui viene rappresentato l'elemento naturale (e che connota quindi i movimenti primo e quarto). Gli sforzi umani, ben dipinti nella struttura razionale e meccanica della musica, paiono grevi e sgraziati, incapaci di fondersi con il mondo che li ospita.

Allo stesso modo la costruzione contrappuntistica del Rondo-Burleske (terzo movimento) è quasi parodiata, calcando la mano sulla rigidità formale della scrittura – “Sehr trotzig” (molto ostinato) indica Mahler – al punto che l'anticipazione del tema portante dell'Adagio irrompe con una morbidezza che chiarisce ulteriormente l'entità della distanza tra artificiale e naturale.

Il dolorosissimo processo dialettico trova nell'Adagio finale non solo il culmine della tensione ma sorprendentemente una soluzione ottimistica: colori, fraseggi e dinamiche che Tate chiede all'orchestra disegnano un distacco sereno, un'ascensione beata, quasi anestetizzata, in progressivo allontanamento dalle asprezze della vita terrena. Si tratta di un'interpretazione profondamente religiosa che asseconda la scrittura e, probabilmente, le intenzioni del compositore stesso.

Molto bene si è comportata l'Orchestra del Teatro La Fenice, capace di ridurre al minimo le imperfezioni e di assecondare il podio in ogni suggestione; pregevole sia la qualità del suono prodotta dai professori d'orchestra, sia la varietà di dinamiche, particolarmente nel quarto movimento.
Entusiastica ma sbrigativa l'accoglienza del pubblico veneziano che ha concesso solamente una manciata di minuti di applausi, invero calorosi, a orchestra e direttore.

5 aprile 2015

Temirkanov e Gadjiev alla Fenice

L'artista è figlio del suo tempo. Yuri Temirkanov ha 76 anni e una carriera quasi cinquantennale alle spalle, discende della gloriosa scuola russa dei Musin, dei Mravinskij, non sorprende quindi che il suo gusto diverga nettamente da quelle che sono le “tendenze” interpretative contemporanee, ergendosi a baluardo di un modo di fare musica che oggi in molti ritengono fuori tempo massimo, che altri rimpiangono ma che sicuramente ha segnato il suo tempo.


Lo si avverte chiaramente in quell'Haydn voluttuoso e magmatico, dalla straordinaria compattezza ma lontano anni luce dalle sonorità leggere e trasparenti che siamo ormai abituati ad apprezzare nel repertorio classico; risulta forse ancor più evidente nel suo Brahms dalla tragicità esasperata, fatto di sonorità dense e e cupe, di accenti violenti ed abbandoni estatici alla cantabilità.

Il concerto tenuto dal maestro russo al Teatro La Fenice, alla guida dell'orchestra di casa, è stato innanzitutto la celebrazione di una grande personalità artistica, capace non solo di imprimere un proprio marchio, chiaro e personalissimo, sul programma ma soprattutto di infondere nella musica una vitalità ed una coerenza interpretativa rare. Tanto più che l'evento è stato anticipato dall'assegnazione del Premio “Una vita nella musica” allo stesso maestro. Molte luci dunque ma anche qualche ombra, imputabile innanzitutto ad una prestazione sottotono dell'orchestra, meno brillante e precisa del solito. Il riferimento non è tanto alla pura qualità del suono - che parrebbe non rientrare tra le prime preoccupazioni del direttore, considerando certe sollecitazioni a contrabbassi e violoncelli o agli ottoni che, se da un lato esasperano la forza drammatica della musica, dall'altro tolgono molto alla bellezza dell'impasto - quanto alle molte sbavature ed imperfezioni, forse dovute ad una padronanza non ottimale delle opere in programma.

Non convince pienamente la Sinfonia in sol maggiore Hob. I: 94 La sorpresa di Franz Joseph Haydn in cui si percepisce la cura della concertazione nella ricerca di colori e fraseggi come nella differenziazione delle sfumature dinamiche ma che evidenzia in taluni momenti, principalmente nel minuetto, una pesantezza eccessiva dell'amalgama.

Ben più a fuoco e rifinito il Concerto per pianoforte, orchestra d’archi e tromba in do minore op. 35 di Dmitri Shostakovich sia per l'ottima prestazione dei maestri d'orchestra, capaci di trovare una morbidezza ed una trasparenza che in Haydn erano mancate, sia per la buona prova del giovane pianista Alexander Gadjiev e di Piergiuseppe Doldi (tromba). Il primo, nonostante la personalità interpretativa non sia ancora pienamente maturata, convince per perfezione tecnica e musicalità mentre Doldi si impone per gusto e finezza espressiva.

La Sinfonia n. 2 in re maggiore per orchestra, op. 73 di Johannes Brahms secondo Yuri Temirkanov non ha nulla di pastorale né di tenero, gaio o innocente, come ebbe a scrivere il compositore stesso; il direttore pare prendere per buona piuttosto un'altra affermazione che Brahms indirizzò al proprio editore: «Non ho mai scritto nulla di altrettanto triste… la partitura deve uscire listata a lutto». Ne scaturisce una lettura a senso unico, tetra e pessimistica ma estremamente coerente e compatta. Al di là di alcune fastidiose imperfezioni di legni ed ottoni, concentrate prevalentemente nel primo movimento, l'orchestra risponde alle sollecitazioni del podio trovando una pienezza ed una ricchezza d'impasto notevoli. Pur sacrificando certi preziosismi della scrittura che restano nascosti, come nell'ombra rimane la leggerezza cameristica di molti passaggi della sinfonia, l'impostazione di Temirkanov esalta i tratti più oscuri e malinconici del lavoro. Sin dall'attacco dell'Allegro non troppo il suono è cupo ed avvolgente, sul tessuto ricco e pastoso degli archi si stagliano con veemenza gli ottoni, non senza eccessi di intemperanza. Di estenuante bellezza i rubati e le sottilissime inflessioni ritmiche suggerite dal podio nell'Adagio non troppo. Temirkanov conduce la sinfonia in un crescendo di tensione che culmina in un quarto movimento infuocato e travolgente, pervaso da un'energia ed una vitalità entusiasmanti: la scansione bruciante richiesta all'orchestra produce qualche imbarazzo nella tenuta ritmica ma si traduce in una forza drammatica impressionante.

Molto calorosa l'accoglienza del pubblico in sala che ha salutato direttore ed orchestra con lunghi e convinti applausi.