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26 marzo 2018

Lucia di Lammermoor al Teatro Verdi di Trieste

Punto primo, fondamentale: la Lucia di Lammermoor al Verdi di Trieste è finalmente integrale, o quasi, forse per la prima volta nella storia del teatro. C’è quindi il cantabile del basso, c’è la scena della torre, ci sono i “da capo” nelle cabalette. Punto secondo, lo spettacolo di Ciabatti/Bisleri, che rivive a sette anni dal debutto, ha ancora molto da dire e da dare, anche perché è stato rimontato come si deve, senza dimenticare pezzi per strada, anzi, guadagnandone persino qualcuno. Punto terzo: canto e direzione non sono affatto spregevoli, tutt’altro, a partire dal podio.


Fabrizio Maria Carminati non è un direttore mediaticamente “sexy”, non muove le folle e non scatena le fantasie operomanicali, però è bravo. E poi il belcanto pare essere davvero la sua isola felice, già ne aveva dato prova nella Norma di due anni fa. Carminati conosce il repertorio, conosce il canto e ha un’idea concreta e personale di teatro. Ciò significa che sa dare significato alla musica in rapporto all’azione e sa sostenere il palco con mano leggera ma non servile. Inoltre, con il passare degli anni, ha di molto affinato le sue abilità di concertatore, lo si apprezza inequivocabilmente dalla pulizia esecutiva e dal balancing degli equilibri interni, ma anche dalla qualità intrinseca del suono orchestrale. Certo nella Lucia è già tutto scritto in partitura, ma il salto dal pentagramma alla pratica non è affatto facile, soprattutto se si tratta di restituire a pieno quel colore e quell’atmosfera peculiari dell’opera. Con Carminati c’è tutto.

E va così anche per merito dell’Orchestra del Verdi, che è in forma smagliante.



Tra i cantanti si impone l’Edgardo di Piero Pretti. Voce sana e squillante da autentico tenore romantico, controllo e intonazione impeccabili e, cosa tutt’altro che scontata, la brillantezza necessaria per arrivare in fondo fresco come una rosa. A voler spaccare il capello in quattro, proprio perché Pretti ha le qualità per essere un interprete di rilievo della parte, si potrebbe chiedere qualche sfumatura in più, soprattutto nelle dinamiche, che sono tendenzialmente bloccate sul mezzo forte. 

Aleksandra Kubas-Kruk è la classica Lucia in scia alla tradizione dei lirico-leggeri. Voce penetrante e flessibile, buone agilità e un approfondimento del personaggio, musicale e attoriale, convenzionale ma efficace. Insomma la  Kubas-Kruk c’è e porta a casa la serata in modo convincente, non fosse che cicca malamente i due mi bemolli sopracuti della pazzia. Peccato.

Bene Devid Cecconi, Enrico esuberante nel fisico e nella vocalità, per altro di bella pasta schiettamente baritonale, che mantiene la sua brunitura lungo tutta l’estensione. 

Deve invece maturare ancora Carlo Malinverno (Raimondo), il quale, pur avendo mezzi ragguardevoli, soffre di qualche défaillance nel sostegno e, conseguentemente, nell’intonazione.
Sono all’altezza le parti minori. L’Arturo di Giuseppe Tommaso forza un po’ ma ha volume e tiene bene il palco, Giovanna Lanza (Alisa) ha voce e mestiere, come sappiamo bene. Il Normanno di Andrea Schifaudo parte in sordina ma si riscatta in corso d’opera. 

Il Coro di Francesca Tosi non delude mai e, anche in questa occasione, firma un’eccellente prova.



Sullo spettacolo si potrebbe dire, in estrema sintesi, che è ben fatto. C’è un regista che fa il regista (Giulio Ciabatti) e un impianto scenico (Pier Paolo Bisleri) pensato per raccontare una storia e non per remarle contro. Il taglio che Ciabatti dà allo spettacolo è tendenzialmente classico, sia nella risoluzione della drammaturgia – la vicenda è posposta di qualche secolo, per il resto non ci si discosta dal libretto – sia nella recitazione. Una Lucia dark in cui si respira molta angoscia e poca speranza, e che, nonostante le riaperture dei tagli, ha buon ritmo e non soffre di momenti buttati via o risolti sbrigativamente.

Insomma dopo un avvio di stagione con più ombre che luci, questa Lucia raddrizza il timone del Verdi.

Alla fine è successo pieno, e meritato, per tutti.

Paolo Locatelli
© Riproduzione riservata

7 maggio 2017

La Sonnambula al Verdi di Trieste

Pochi mesi fa, una fetta cospicua e rumorosa di pubblico triestino sotterrò di fischi un Flauto magico (tutto sommato interessante) a firma di Valentina Carrasco, colpevole di empietà, lesa maestà, eresia e tutto il resto. Sua colpa l’avere ambientato il Singspiel mozartiano in una casa di bambole. Ora al Verdi sbarca La Sonnambula di Bellini, in un allestimento di Giorgio Barberio Corsetti proveniente dal Petruzzelli di Bari. Indovinate dove viene calata la vicenda? Esattamente, in una casa di bambole. Esito: successo unanime. 

Foto Fabio Parenzan


Due pesi e due misure si direbbe, e non se ne capisce la ragione, anche perché il lavoro della povera Carrasco reggeva su una coerenza drammaturgica e su una solidità tecnica di ben altro spessore rispetto alla ricontestualizzazione, tutto sommato velleitaria e stantia, operata da Barberio Corsetti.

La Sonnambula diventa, per l’appunto, una storia di bambole. I personaggi prendono vita da tre (orribili!) pupazzi, e come pupazzi si muovono “lillipuzianamente” in un mondo sospeso tra sogno e veglia, tra pezzi d’arredamento in macroscala. 
L’idea però si arena qui e lo spettacolo, per il resto, si articola secondo i crismi della più rassicurante tradizione. Cambia lo sfondo, quello sì, dal momento che in luogo di mulini e monti  svizzeri spuntano un lettone, una poltrona gigantesca, un comò nei cui cassetti riesce a nascondersi il soprano stesso e altro ancora. Insomma il taglio drammaturgico, che vorrebbe esaltare un certo infantilismo di Amina, si trasforma in un mero dato di contesto che nulla aggiunge a quanto sappiamo già della Sonnambula, del linguaggio belliniano, di Elvino e dei rapporti tra i protagonisti.

Può farci poco Fabio Cherstich, il quale rimonta lo spettacolo senza riuscire ad infondervi un dinamismo che riscatti la pochezza del disegno originale.

Scene e costumi di Cristian Taraborrelli hanno un grave difetto: sono molto rumorosi nei movimenti, il che fa a pugni con la delicatezza della musica belliniana, rovinando più di un momento.
Il disegno luci di Marco Giusti non riserva particolari sorprese.

Foto Fabio Parenzan

Sul fronte musicale non si ascoltano meraviglie ma le cose vanno decisamente meglio. Aleksandra Kubas-Kruk sa difendersi negli scomodi panni di Amina. La voce non è grande né particolarmente accattivante ma è ben emessa, le note e le agilità ci sono, pur con qualche fissità di troppo in acuto, e anche il personaggio nel suo complesso è tratteggiato in modo convincente. Ciò che manca è una maggiore incisività nell’accentare, nel fraseggiare e soprattutto nel tenere il palco.

Bogdan Mihai è un Elvino pallido, musicalmente corretto ma debole per temperamento e vocalità.

Filippo Polinelli non replica le eccellenti prove della scorsa stagione: il suo Conte Rodolfo, pur esibendo una spiccata sensibilità nel dare colore ed espressività alle parole, in particolar modo nei recitativi, soffre di qualche increspatura nella linea e, stranamente, anche di volume ridotto.

Positiva la prova della brava Olga Dyadiv, Lisa squillante e ben calata sulla scena. Marc Pujol è un Alessio rivedibile. Ottimo il contributo di Namiko Kishi, Teresa, e di Motoharu Takei, Notaro.

Guillermo García Calvo firma una direzione talmente attenta al palco e agli equilibri da risultare sì garbata e pulita ma, a tratti, eccessivamente piatta, soprattutto nello spettro dinamico. L’Orchestra del Verdi si conferma, al solito, formazione di assoluto affidamento.

Bene il coro preparato da Francesca Tosi.

Applausi per tutti, qualche isolata contestazione per il tenore.


Foto Fabio Parenzan

1 dicembre 2016

Rigoletto apre la stagione lirica del Verdi di Trieste

Il 28 aprile del 1950 Giuseppe Verdi scrive a Francesco Maria Piave “…avrei un altro sogetto che se la polizia volesse permettere sarebbe una delle più grandi creazioni del teatro moderno… è immenso, ed avvi un carattere che è una delle più grandi creazioni che vanti il teatro di tutti i paesi e di tutte le epoche. Il sogetto è Le Roi s’amuse, ed il carattere di cui ti parlo sarebbe Tribolet…”. Non solo. Poco più in là Verdi sollecita il librettista a “correre per la città” in cerca di una “persona influente” che possa consentire la messa in scena di un tema tanto delicato, o per meglio dire di “ributtante immoralità ed oscena trivialità” (parole del Governatore veneziano). Insomma che Rigoletto sarebbe stato qualcosa di scomodo è chiaro a tutti fin da subito e le note vicissitudini con la censura stanno lì a testimoniarlo.

Foto Fabio Parenzan

Cosa nel lavoro di Hugo appassionasse il compositore diventa lampante quando, pochi giorni più tardi (l’8 maggio), definisce Triboletto una creazione degna di Shakespeare. Infatti lo è. Lo è per la coesistenza di diversi registri, di tragico e grottesco, di orrido e sublime, per l’universalità di temi e sentimenti che vi sono racchiusi, i più bassi e vili assieme alle virtù più nobili. Lo stesso protagonista, mordace e spietato buffone deforme ma al contempo padre capace di una smisurata umanità tra le mura di casa, esemplifica al massimo livello la complessità shakespeariana del Rigoletto. E, si badi, tutto ciò emerge dalla musica come dal libretto.
Questa premessa è necessaria per chiarire il giudizio sulla produzione firmata da Jean-Luois Grinda che ha inaugurato la stagione lirica del Teatro Verdi di Trieste.

Se Rigoletto non è inquietante, disturbing, se non suscita nello spettatore un misto di pietà e disgusto, di empatia e ribrezzo, a cosa serve? Bisognerebbe chiederlo a Grinda, il quale annacqua e congela ogni emozione in una placida eleganza che può soddisfare forse il senso estetico ma che non riesce ad esplorare le pieghe più oscure di questo capolavoro.

Insomma, non fosse per le scene austere e atemporali di Rudy Sabounghi, né belle né brutte, saremmo di fronte all’ennesimo spettacolo di polverosa tradizione, ove ogni personaggio fa quello che ci si aspetta, ricalcando gli stereotipi più rassicuranti, con tutti i tic e i luoghi comuni operistici radicati nell’abitudine. Non che ci siano particolari demeriti nella conduzione degli artisti: la recitazione è convenzionale ma non trascurata, le masse sono ben manovrate (merito senz’altro di Vanessa d’Ayral de Sérignac che ha curato la ripresa triestina), eppure lo spettacolo non riesce a smuovere quella patina di superficialità e onesto mestiere su cui sembra adagiarsi. Le poche idee paiono raramente vincenti mentre più spesso risultano avulse o incoerenti.
Molto efficace il disegno luci di Laurent Castaingt, soprattutto nel primo atto.

Foto Fabio Parenzan
Sul fronte musicale le cose vanno decisamente meglio. Fabrizio Maria Carminati è un direttore che garantisce sempre una buona tenuta narrativa e musicale. Magari non emergono particolari finezze o dettagli illuminanti ma ci sono, in compenso, una sensibilità per il teatro ed un’attenzione alle necessità del palco – non intese come capricci, sia chiaro – assolutamente preziose. La concertazione è attenta: il suono è equilibrato, le sezioni orchestrali fuse con sapienza.
Si avverte tuttavia, nel complesso, un’eccessiva uniformità nelle dinamiche che alla lunga muta in piattezza (un po’ di coraggio in più nel volume, in certi momenti, non spiacerebbe). Merita sicuramente un plauso la rinuncia a molti vezzi di tradizione, purtroppo non tutti (l’insopportabile modulazione prima di “Sì vendetta” è ancora al suo posto illegittimo).
Risponde alla perfezione l’Orchestra del Verdi di Trieste, al solito affidabilissima per precisione e qualità.

Ascoltando e guardando Sebastian Catana si percepisce chiaramente un lavoro approfondito di studio della parte: l’accentazione, i colori, le dinamiche, tutto è ben pensato e rifinito. Ciononostante questo Rigoletto non convince totalmente, un po’ per la convenzionalità dell’interpretazione, che per quanto varia risulta troppo saputa e prevedibile, un po’ per certi limiti nell’emissione, soprattutto quando la tessitura si fa acuta, con la voce che tende a restare in gola e uscire opaca.

Antonino Siragusa ha senz’altro tutte le note della parte nonché una solidità tecnica che gli consente di affrontare ogni registro senza sbavature d’emissione né di intonazione, proiettando il suono con facilità. Certo la voce è, più per timbro che per peso, lontana dalla pienezza lirica che siamo abituati ad associare al Duca di Mantova e a tratti (duetto con Gilda nel primo atto, Aria nel secondo), pare soffrire un po’ la scrittura. Va detto che, trattandosi di un debutto assoluto, Siragusa avrà modo di aggiustare i minimi problemi, portando a completa maturazione la parte.

Aleksandra Kubas-Kruk, Gilda, alterna cose pregevolissime (un ottimo Caro nome) a momenti di difficoltà, soprattutto nel secondo atto. La voce è di bel colore e, benché leggera, corre con facilità in sala, ma non è sempre ben controllata: gli acuti ad esempio riescono a volte alla perfezione, altre striduli e fissi; il fraseggio andrebbe ulteriormente rifinito.

Lo Sparafucile di Giorgio Giuseppini è solido e imponente ma, complici alcune scelte registiche, a tratti eccessivamente ruvido. Vocalmente impeccabile la brava Antonella Colaianni, purtroppo mortificata da una regia che la costringe a ricalcare il trito stereotipo della Maddalena seduttrice caricaturale.
Pregevole il Monterone di Frano Lufi, all’altezza della situazione tutti gli altri.

Ottima la prova del Coro del Verdi che, sotto la guida di Francesca Tosi, pare aver ulteriormente guadagnato in compattezza e pienezza dell’amalgama.

Teatro pienissimo e pubblico entusiasta, bene così.