18 luglio 2011

Cornell MacNeil

Si è spento, nella totale indifferenza della stampa italiana, il baritono americano Cornell MacNeil, protagonista per decenni delle stagioni dei principali teatri d’oltreoceano. Nato a Minneapolis nel 1922, nella sua lunghissima carriera collezionò oltre seicento recite al Metropolitan di New York in un repertorio tutto sommato piuttosto ristretto.

Mac Neil fu interprete sensibile, moderno ed intelligente, adorato da pubblico, inspiegabilmente sottovalutato dalle case discografiche. Dotato di vera voce baritonale tra le più belle che si ricordino, seppe piegare la splendida natura al servizio dell’arte drammatica e del canto evitando di cedere al mero esibizionismo vocale che pure all’epoca era assai apprezzato e in cui non avrebbe avuto rivali.

Big Mac, com’era affettuosamente soprannominato dal pubblico, fu indimenticabile interprete dei principali ruoli della corda baritonale da Rigoletto a Tonio, da Jago a Simon Boccanegra, da Jack Rance a Scarpia che fu forse il suo cavallo battaglia.

Rimangono fortunatamente i dischi a testimoniare l’arte del baritono americano. La morbidezza d’emissione, l’eleganza del fraseggio, lo spessore interpretativo, il sapiente dosaggio delle dinamiche evidentemente consentito da un’eccellente cognizione tecnica pongono Mac Neil in scia ai grandi baritoni americani del secolo, da Tibbett, passando per Warren fino a Merrill di cui raccolse il testimone. L’ampia cavata, dominata agilmente in ogni settore, la spavalderia del registro acuto, lo splendore della mezzavoce lo restituiscono come esemplare prototipo di quella che dovrebbe essere la famigerata vocalità del “baritono verdiano”, tanto cara agli appassionati d’opera.

Paolo Locatelli
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9 luglio 2011

La Bohème di Karajan, breve recensione di un riascolto deludente

Mimì (Mirella Freni);
Rodolfo (Luciano Pavarotti);
Marcello (Rolando Panerai);
Musetta (Elizabeth Harwood);
Colline (Nicolai Ghiaurov);
Schaunard (Gianni Maffeo);
Benoit/Alcindoro (Michel Sénéchal);

Schöneberger Sängerknabeèn
Chor der Deutschen Oper Berlin

Berliner Philharmoniker - Herbert von Karajan

Nello sterminato panorama delle incisioni operistiche vi sono alcuni titoli che hanno fatto storia e che restano nella memoria quali misure di paragone per ogni altra esecuzione precedente o successiva. È il caso ad esempio de La Bohème portata in sala di registrazione da Herbert von Karajan nei primi anni settanta con un cast straordinario a coronamento di un percorso intrapreso dal maestro austriaco una decina di anni prima quando salì sul podio scaligero per lo storico allestimento firmato Zeffirelli. Ebbene, può capitare che a un riascolto tali miti escano ridimensionati o risultino quantomeno invecchiati.

Analizzando l'incisione, appaiono chiare le ragioni di tale fama sia per la straordinaria padronanza con cui ogni singolo membro del cast affronta la partitura pucciniana che per l'indiscutibile magistero tecnico del direttore austriaco, che plasma la musica pucciniana come non sarebbe riuscito più a nessuno. L'orchestra dipinge un'atmosfera mistica, Karajan estrae dai Berliner una ricchezza di colori e dinamiche all'epoca sicuramente inedita ed ancor oggi sorprendente, il canto è sostenuto al meglio con suono di morbidezza e bellezza insuperabili.

Certo oggi, dopo essere passati attraverso la vibrante lettura di Kleiber, la malinconia di Bernstein o l'interpretazione tesa e asciutta di Pappano, la cura maniacale per la bellezza del canto e del suono orchestrale di Karajan sembrano sostenere un sentimetalismo inattuale. Ciononostante va reso merito al direttore di riuscire a scongiurare il rischio, sempre dietro l'angolo, di scivolare nell'autocompiacimento o nel calligrafismo: la lettura di Karajan è coerente e perfettamente sostenuta, non vi sono cedimenti né alla tensione teatrale né musicali, semplicemente a quasi quarant'anni di distanza l'impostazione risulta distante nella sensibilità.

In merito alla prova dei cantanti possiamo fare due tipi di considerazione. Potremmo fermarci alla mera analisi dell'esecuzione vocale e ci sarebbe ben poco da dire, Mirella Freni canta splendidamente, con voce lirica piena, bella, in grado di spiccare nel canto spigato come di piegarsi in sublimi mezzevoci, mostrando una perfetta comunione d'intenti con il direttore. Pavarotti, che pure aveva una gran voce, cristallina e giovanile, rimane un passo indietro risultando più avaro di colori, a favore di un canto estroverso, sicuramente aiutato da un mezzo vocale ineguagliato per squillo e facilità. Restando in tema di pregio vocale e consapevolezza tecnica il Marcello di Panerai e la Musetta di Elisabeth Harwood risultano perfettamente calati in un simile contesto, così come eccellenti sono il Colline di Ghiaurov, lo Schaunard di Gianni Maffeo e quasi tutti i comprimari.

Ad ogni modo, se sotto il profilo vocale non si può evitare di entusiasmarsi, non altrettanto convincente è l'impianto interpretativo, la caratterizzazione dei personaggi che risulta almeno per quanto riguarda i due protagonisti, piuttosto datata e superficiale. Al Rodolfo di Pavarotti manca un reale approfondimento drammatico, il fraseggio è, come spesso accadeva, banale ed indifferente, la musicalità imperfetta. Mirella Freni, che come detto canta benissimo, è una Mimì se non generica, insipida, le fa completamente difetto quella sensualità travestita d'innocenza che caratterizza il personaggio, come avevano ben capito prima di lei Maria Callas e in modo diverso Victoria De Los Angeles. Panerai è invece un Marcello convincente pur non evitando qualche eccesso di estroversione mentre è davvero deliziosa la Musetta dell'inapputabile Harwood.
Michel Sénéchal è Alcindoro e Benoit con tutti i cachinni, le vocine e i versetti che all'epoca (o meglio nei decenni precedenti) piacevano molto e che pure oggi non è raro sentire nei teatri italiani. Peccato.

La registrazione infine è di ottima qualità, da standard Decca, pur con qualche abuso di effetti stereofonici.

7 luglio 2011

Rigoletto al Carnera di Udine

Rigoletto, lavoro tra i più noti ed amati dal pubblico, è andato in scena a Udine il 5 e il 7 luglio per l’ormai consueto appuntamento con l’opera lirica promosso dal progetto culturale “Il Carro di Tespi”. Dopo le date udinesi lo spettacolo verrà replicato in altre località regionali e non tra cui Pordenone, Venzone, Fagagna, Gorizia e Zara.
Lo spettacolo, inizialmente destinato ad un’esecuzione all’aperto è invece andato in scena al Palasport Carnera. Il buon senso avrebbe suggerito che tale spostamento comportasse lo spegnimento dell’impianto di amplificazione che, se in una piazza può evitare che il suono si disperda, in un luogo chiuso compromette pesantemente la riuscita musicale e teatrale dell’opera. L’amplificazione pone una pesante ipoteca sulla riuscita della recita poiché azzera le dinamiche, normalizza i volumi e peggio ancora, crea una divergenza tra lo svolgimento dell’azione e la provenienza del suono in modo da far sembrare solisti e coro dei mimi doppiati.

L’allestimento è tradizionale nelle scene create dagli studenti dell’Istituto d’Arte “G.Sello” e nella regia di Giampaolo Zennaro che talora è parsa lasciata all’iniziativa dei solisti, almeno questo verrebbe da pensare data la diversa disinvoltura e cognizione con cui gli stessi si muovevano sul palcoscenico. Inserita nella medesima tradizione è stata l’esecuzione musicale, completa di tutti gli acuti e gli effetti non scritti da Verdi che sortiscono sempre sicuro effetto sul pubblico, tuttaltro che fuoriluogo in un simile contesto.

Più che buone le prove dei solisti principali. Protagonista era il baritono Vasile Chisiu, Rigoletto di impostazione tradizionale, sicuro nel canto benchè avaro di colori. Eccellente la prova del tenore Ivan Magrì nei panni del Duca di Mantova, parte impegnativa affrontata con sicurezza e spavalderia. Il cantante siciliano ha dimostrato di possedere vocalità adatta al ruolo cui ha offerto fraseggio appropriato e convincente espressività. Corretta la Gilda di Linda Kazani dotata di voce squillante, sicura nel registro acuto messo alla frusta dalla scrittura verdiana e buona tecnica di canto mentre è apparsa piuttosto impacciata nella recitazione. Bravo lo Sparafucile di Abramo Rosalen, non memorabili le parti di fianco.

Positiva la prova dell’Orchestra Filarmonica diretta da Alfredo Barchi che ha saputo evitare eccessivi clangori ed effetti bandistici optando per una lettura attenta alle esigenze del palcoscenico. Il maestro è inoltre riuscito a bilanciare adeguatamente orchestra e cantanti nonostante l’impianto di amplificazione privilegiasse sfacciatamente questi ultimi. Al pari lodevole la prova del Coro Filarmonica diretto da Giuliano Fabbro.