2 dicembre 2022

Viktoria Mullova torna al Giovanni da Udine

  Viktoria Mullova, una delle violiniste russe più brillanti degli ultimi decenni, ha un vissuto singolare. Nei primi '80, poco più che ventenne, riuscì ad abbandonare il Paese approfittando di un ingaggio in Finlandia, ben sapendo di lasciare indietro casa e famiglia, preda di possibili ritorsioni. Proprio per scongiurare il pericolo di fuga, il regime impediva alle coppie di viaggiare insieme, così il compagno di lei, il direttore Vakhtang Jordania, per poterla accompagnare dovette fingersi pianista. Da Helsinki i due ripararono a Stoccolma, che allora brulicava di spie del KGB, e dopo un paio di giorni nascosti in una camera d'albergo riuscirono ad ottenere un visto per gli Usa.

  Fa un certo effetto ascoltare la Mullova oggi, nel suo ritorno sul palco del Teatro Nuovo Giovanni da Udine, in un concerto di un altro russo che col regime ebbe un rapporto ancor più teso, tanto più che Dmitrij Šostakóvič iniziò la stesura del suo Concerto per violino e orchestra n. 1 in La minore op. 99 proprio mentre in Unione Sovietica andava imponendosi lo ždanovismo, la dottrina che dopo la Seconda Guerra inasprì il controllo statale sulla produzione culturale. Si tratta di un’opera che Viktoria Mullova conosce bene e che ha inciso a fine anni ‘80, sorprende dunque vederla sul palco con un leggio di supporto, come temesse di inciampare tradita da un qualche vuoto di memoria. Niente del genere. Mullova è una perfetta macchina di virtuosismo, ma non solo. Fa cantare il suo violino a mezzavoce, con un suono ambrato e appena graffiante, a tratti lamentoso, talora indemoniato. Quel che può permettersi in termini di sottigliezze dinamiche e sfumature è sì manifestazione di un bagaglio tecnico-artistico da grande strumentista, ma in parte sostanziale è merito del sostegno che Jonathan Nott le offre, lasciando presagire tutte le qualità che direttore e orchestra mettono completamente in mostra nella seconda parte della serata.

  È affascinante scoprire nella prova dell’Orchestre de la Suisse Romande una sorta di continuità storica con le testimonianze del passato, quasi il sound fosse determinato dal patrimonio genetico della formazione, che oggi, come ai tempi di Ansermet, è acquerellata e diafana. Non propriamente chiara, ma delicata, non flebile ma duttile e leggera. Quel che Jonathan Nott mette di proprio è una concertazione attentissima - che si perde solo qualche piccolo equilibrio tra archi e legni nel finale di Also sprach Zarathustra, con i secondi troppo arroganti sul pianissimo dei primi - e una qualità di legato orchestrale da grande direttore. È forse questa la caratteristica che colpisce maggiormente: lo sviluppo liquido e senza fratture del flusso musicale, la continuità delle arcate, ma anche il controllo millimetrico dell’orchestra in punta di bacchetta, quasi senza alcun anticipo, al netto di un’esecuzione strumentale non sempre perfetta, soprattutto in zona ottoni.

  Successo trionfale sia per Viktorija Mullova, al termine della prima parte di concerto, che per direttore e orchestra, che si congedano proponendo il quarto movimento del Concert Românesc di Ligeti.


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