27 febbraio 2013

Shostakovich e Beethoven al Verdi di Pordenone

Guardare al passato per parlare del presente, della Russia e di se stesso. Basterebbe pensare all’impiego crittogrammatico che Dmitrij Šostakovič fece del proprio nome nel motto che viene a più volte ripreso durante il concerto. 

Scritto nel 1959 per Mstislav Rostropovic, il Primo concerto per violoncello op.107 di Šostakovič non è solamente un capolavoro di linguaggio musicale, è il manifesto di un’opposizione alla dittatura, sottintesa e parodiata nei continui richiami al folklore russo, citato e deformato a più riprese in partitura.
Al Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, il concerto di Šostakovič era affidato a Mischa Maisky, violoncellista tra i più celebri e stimati al mondo e all’Orchestra Arturo Toscanini, guidata da Asher Fisch.

Il Šostakovič di Maisky è elettrico, tellurico, quasi sgarbato. L’artista non ricerca la bellezza del suono ma la verità. Ci riesce. Un discorso musicale ricco di inflessioni, di colori, di fantasia, persino di violenza e ripiegamenti di un’intimità ritenuta. Il primo movimento è caratterizzato da un’urgenza espressiva esplosiva, perfettamente assecondata dal corno della Toscanini, il secondo è un profluvio di colori, nella cadenza Maisky dà sfogo a un virtuosismo tecnico al servizio della musica che va a risolversi in un allegro incalzante corrusco, ritmicamente travolgente.

Il violoncellista, salutato trionfalmente a fine concerto, ha ricambiato l’affetto del pubblico con tre bis, tra cui non poteva mancare il suo celeberrimo Bach.

Dallo straordinario, con la Settima di Beethoven, si rientra nell’ordinario. La lettura di Fisch, alla guida di un’Orchestra Arturo Toscanini precisissima, è decisamente tradizionale. Un Beethoven in salsa romantica che guarda più al passato piuttosto che al presente, fuori tempo massimo potrebbe sostenere qualcuno. Il suono è denso, cupo, i tempi rilassati, la trasparenza sacrificata in favore della compattezza. Ne esce una prova dal forte impatto drammatico benché povera di colori e prudente nell’agogica, solida ma routinaria.

18 febbraio 2013

Un'ottima Bohème alla Fenice

Ritorna al Teatro La Fenice di Venezia La Bohème pucciniana nel fortunato allestimento di Francesco Micheli già proposto durante le scorse stagioni, spettacolo che piaceva all’esordio e continua a conservare le sue buone ragioni.



Circa l’allestimento ricordo quanto scritto in passato:

“Lo spettacolo è fresco, giovanile, coinvolgente nella sua bozzettistica semplicità. Non una Bohème sconvolgente o che si proponga chissà quali orizzonti interpretativi ma, cosa forse ancor più difficile, originale senza sconvolgere drammaturgia ed ambientazione. Le scene firmate da Edoardo Sanchi propongono una Parigi da vendere ai turisti, immaginata piuttosto che veritiera, uno sfondo fumettistico che accompagna e racconta da vicino le sfortunate storie dei Bohémiens pucciniani. La vicenda è incastonata in una cornice di simboli che rimandano alla Ville Lumière, dalla Tour Eiffel alle Folies Bergère, il tutto a costellare i luoghi che prescrive il libretto e che si è abituati ad associare all’opera. Insomma c è tutto quello che ci si aspetterebbe di trovare in una Bohème, dalla soffitta alla neve del terzo atto, ma non solo. Anche il secondo atto è magnificamente risolto senza scadere nei zeffirellismi in sedicesimo di facile effetto che si vedono un po’ dappertutto. La Parigi da cartolina, stereotipata, che viene proposta tende necessariamente a mitigare la pulsione naturalista dell’opera, spostandola su un livello favolistico o quantomeno romanzesco. La regia di Micheli, in perfetta sintonia con l’ambientazione, è scorrevole, spontanea ed immediata, coinvolgente e simpatica pur concedendosi alcuni siparietti di forzata comicità di cui non si sarebbe sentita la mancanza.”

Da Diego Matheuz era lecito attendersi una direzione di spessore sinfonico e così è stato. Il maestro venezuelano sapeva scovare nella partitura dettagli nascosti, ripensando i rapporti tra strumenti o le sezioni orchestrali così che alcune pagine, tra le più celebri del repertorio, parevano animate da nuova luce. Piaceva immensamente un secondo atto vibrante, sostenuto da una tensione pulsante e culminato con un valzer delizioso per leggerezza ed elasticità, piacevano le scene d’assieme della soffitta del primo e del quarto atto, di frenetico virtuosismo; alterna invece la resa delle grandi arie (ottimi i momenti solistici del primo atto, meno convincente “donde lieta uscì” dove si avvertiva qualche perfettibile scollamento tra solista ed orchestra). L’approccio sinfonico alla materia operistica, spinto alle estreme conseguenze, comportava qualche isolato bisticcio col palcoscenico quando i solisti non riuscivano a seguire od assecondare i repentini giochi agogici del podio. Peccati veniali che non rovinavano una direzione ricca di fascino e vita.

Maria Agresta era un’eccellente Mimì, per bellezza della voce, per la linea immacolata, per la finezza del fraseggio, per varietà di colori, per intensità. Una prova maiuscola che impone il soprano come interprete di riferimento, nel panorama attuale, del ruolo pucciniano. Di rado capita di ascoltare un’aria del primo atto tanto morbida ed intensa, risolta in un carezzevole canto a mezzavoce o un finale quarto tanto partecipe benchè miniaturizzato nel gusto.

Corretto Massimiliano Pisapia, Rodolfo di lungo corso, chiamato a sostituire l’annunciato Aquiles Machado. Il tenore può vantare voce di timbro piacevole nel medium e buon volume, l’interprete è convenzionale ma convincente.

Marcello era il baritono Simone Piazzola, cantante dotato di ottima natura e interprete valido, capace di enfatizzare il lato infantile e impulsivo del giovane pittore.

Ekaterina Bakanova, Musetta, esibiva voce di bel colore perfettamente gestita in un canto sicuro e partecipe nonché invidiabile verve. Impeccabile il momento solistico del secondo atto, ottimamente sostenuto dall’orchestra di Matheuz.

Sergey Artamonov era un Colline di buon gusto che sapeva risolvere l’aria del quarto atto con la richiesta intensità, evitando il protagonismo primadonnesco in cui è facile inciampare. Convinceva l’esuberante Armando Gabba, Schaunard con tutte le carte in regola, tutte all’altezza le parti minori.

10 febbraio 2013

La Carmen di Bizet al Verdi di Trieste

A Trieste è il momento della Carmen di Bizet, l’opera delle opere, capolavoro tra i più frequentati (e fraintesi) dell’intero repertorio. L’opera che tutti credono di conoscere e dicono di amare. Da tale miscomprensione parte lo spettacolo di Carlos Saura, già passato per Valencia e Firenze prima di approdare a Trieste. L’idea, meritoria, sarebbe quella di sottrarre l’opera ad una delle tradizioni più incrostate e dure e morire, fatta di malintesi e rimaneggiamenti del lavoro di Bizet, stratificati l’uno sull’altro sin dall’esordio. In tal senso sorprende la scelta dell’edizione Choudens con i recitativi musicati da Guiraud, emblema di tutto ciò che si vorrebbe lasciare al passato.

Le scene di Laura Martinez rinunciano all’oleografia spagnoleggiante che si è abituati ad associare a Carmen, calando la vicenda in un contesto astratto, forse fin troppo. Una serie di pannelli mobili, animati da luci od ombre, sono lo scenario in cui deve svolgersi la regia, ripresa per l’occasione da Elisabetta Brusa, al solito attenta alle esigenze del teatro. Una regia curata, con buone idee e gusto sorvegliato, che ha dovuto fare i conti con uno spettacolo nato asettico e statico, distante mille miglia dalla teatralità esuberante della musica di Bizet.

Luciana d’Intino era una Carmen convincente a metà. Se è vero che il canto era risolto al meglio, sia in ragione della stupefacente freschezza del mezzo sia per la pulizia e la sobrietà della linea, meno a fuoco è parsa l’inquadratura del personaggio, che richiederebbe altra personalità e presenza. La d’Intino aveva il merito di restituire alla vocalità di Carmen la leggerezza e l’ironia che le sarebbero proprie, rinunciando alle derive veriste e agli effettacci più biechi, non quello di realizzare le medesime intenzioni sul piano attoriale e scenico.
Convinceva il Don José di Andrea Carè. La voce, di bel colore, suonava sicura e brillante nei passaggi drammatici mentre faticava nella mezzavoce. Il tenore si è reso protagonista di una prova in crescendo, culminata con un quarto atto intenso e coinvolgente. L’attore si impegnava a fondo nel tratteggiare un José immaturo ed irragionevole, vittima di se stesso ancor prima che di Carmen, incapace di relazionarsi con il mondo in cui si trova catapultato.

Molto buona la prova di Serena Gamberoni, Micaëla di inedita personalità nonché cantante dotata di bel timbro ed ottima tecnica. Il soprano ha pienamente convinto sia nel duetto del primo atto che nell’aria del terzo. Deludeva invece l’Escamillo di Lucio Gallo, impreciso nell’intonazione e in difficoltà in una parte che sembra avere una scrittura troppo grave per la sua voce.

Molto buone le prove di Yukiko Aragaki e Cristina Damian, rispettivamente Frasquita e Mercédès. Al pari convincenti Gianluca Sorrentino (Il Remendado) e Dario Giorgelè (Il Dancaïre), all’altezza della situazione Nicolò Ceriani e Federico Benetti nei panni di Moralès e Zuniga.

Donato Renzetti, sul podio di un’orchestra impeccabile, dava del capolavoro francese una lettura olimpica, scansando, di concerto con l’impostazione registica, ogni eccesso od enfasi. La direzione è piaciuta nei momenti in cui è la leggerezza (musicale beninteso) a prevalere, il quintetto del secondo atto su tutti, mentre qualcosa è mancato nei passi più tesi e drammatici. Ne è risultata una Carmen piacevole all’ascolto ma coinvolgente a fasi alterne, ben suonata ma non sempre attenta alle ragioni del teatro. Sugli scudi il coro del teatro triestino preparato da Paolo Vero.

Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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