20 dicembre 2016

L’Attila di Giuseppe Verdi al Teatro La Fenice

Forse Attila non è un capolavoro, tuttavia c’è in quest’opera acerba e ancora vincolata a stereotipi e rigidità formali più di una traccia di quello che sarà il Verdi della maturità. Il che non si limita a qualche suggestiva anticipazione degli sviluppi musicali e drammaturgici che verranno, ciò che piuttosto emerge già con chiarezza è il più grande talento del compositore: la sensibilità nell'esplorazione dell’animo umano e la capacità di metterlo in musica. Non si parla solamente del dato antropologico o sociale, che è probabilmente nell’Attila quello più affascinante e immediato (lo scontro tra la civiltà vergine, selvaggia, degli Unni e quella rosa dalle sofisticazioni politiche, ormai logora e decadente dei romani), quel che forse è meno lampante ma altrettanto intrigante è l’approfondimento psicologico dei caratteri, sia nei singoli (basti pensare all’ambiguità dapontiana di Odabella), sia nell’impianto generale dell’opera e nel suo costante oscillare tra la speranza e la disperazione.



Tuttavia, come molto del primo Verdi, anche Attila è una miniera di insidie in cui è assai più facile inciampare che esaltarsi. Non è solamente una questione di vocalità anfibia, a metà strada tra il modello belcantista e le suggestioni tardo-ottocentesche, che esige cantanti capaci di coniugare al virtuosismo, tempra e peso specifico. Ciò che, ad oggi, è quasi un miraggio, è restituire piena credibilità ai caratteri, esaltarne le sfumature senza scivolare nel mero esibizionismo vocale né, appunto, ignorarne le necessità in una malintesa esasperazione della drammaticità. E non è nemmeno sufficiente venire a capo delle insidiosissime scritture vocali per tratteggiare Attila nella sua barbarica esuberanza, che è soprattutto una disconoscenza delle regole sociali e politiche quasi parsifaliana, o restituire ad Ezio le ombre del marciume morale, proprie e della sua civiltà corrotta. Insomma che si tratti di personaggi di grande fascino e complessità è fuori di dubbio, che tali specificità riescano ad emergere invece rimane un miraggio nove volte su dieci.

Nello spettacolo appena andato in scena al Teatro La Fenice tutto ciò riesce in modo decisamente convincente, e non è poco.
Se lo spettacolo di Daniele Abbado ha un merito, è di aver in qualche modo riflettuto sulla figura di Attila e averne proposto una chiave di lettura non priva di efficacia, almeno sulla carta. Non c’è niente che riconduca alla figura storica, anzi, la vicenda è ambientata in una contemporaneità vicina e lo scontro tra Romani e Unni assume i tratti del conflitto tra un “sistema istituzionale” e un manipolo di oppositori. Più che un condottiero Attila è un guerrigliero, forse un rivoluzionario, forse un terrorista. Ed è questa l’idea incisiva: la barbarica impetuosità del re degli Unni diventa il cieco idealismo naif di chi vorrebbe minare e distruggere lo “Stato”. Cieco, si diceva, proprio perché disconosce al pari delle convenzioni sociali, nobili o corrotte, le ragioni altrui, e non teme di battezzare col sangue la propria crociata.

Purtroppo il lavoro di Abbado si ferma qui, lasciando il disegno a uno stato di suggestione, neppure immediatamente comprensibile, giacché per quanto riguarda recitazione, movimenti delle masse, rapporto gesto-musica, siamo dalle parti della più innocua a stereotipata tradizione. Peccato.
Scene, costumi e luci di Gianni Carluccio sono funzionali al disegno ma meriterebbero una regia più approfondita.

Sul versante musicale invece le cose vanno benissimo, a partire dal protagonista Roberto Tagliavini che possiede voce di basso piena e rotonda, di timbro affascinante, e una solida tecnica di emissione che gli consente di plasmare il canto con cura ed espressività.
Vittoria Yeo non ha lo spessore vocale necessario a risolvere Odabella in chiave drammatica e pertanto, saggiamente, sposa l’asse verso una liricizzazione della parte che giova non solo alla vocalità del soprano, che esce sempre morbida e mai forzata, ma anche alla credibilità drammaturgica del personaggio.
Stefan Pop è, sotto il profilo strettamente vocale, un eccellente Foresto: il tenore possiede uno strumento spavaldo e saldo in ogni registro, è vario nel fraseggiare e solidissimo nella tenuta.
Difficile trovare un difetto all’Ezio di Julian Kim, baritono dall’emissione sana e rigogliosa che mantiene sempre la linea di canto nei binari tracciati dalla musica, senza cedere alla tentazione di gonfiare le gote.
Completano degnamente il cast Mattia Denti (Leone) e Antonello Ceron, Uldino.

Riccardo Frizza, sul podio dell’Orchestra della Fenice, se possibile ancor più brillante del solito, ha offerto una prova maiuscola. Frizza non teme di sporcarsi le mani con il Verdi di galera e non cerca nell’Attila qualcosa che non c’è, ma esalta piuttosto quello che nella partitura è presente: contrasti, tensioni, impeto e una drammaticità bruciante, senza trascurare la morbidezza e la cantabilità dei momenti spiccatamente lirici. Ci riesce grazie al pieno controllo delle sonorità, dense e compatte ma sempre ben amalgamate, alla cura per il colore, alla brillantezza dei tempi (elettrizzante l’adrenalinica chiusa di secondo atto) e all’uso dell’intero spettro dinamico: i pianissimi sono dei veri pianissimi e autentici sono anche i forti, onesti e liberi dal timore di nascondere quel tanto di ruspante e “volgare” che caratterizza questa musica. La comunicazione col palco è perfetta e, nonostante il volume orchestrale importante, le voci sono ben sostenute e riescono sempre ad emergere con facilità.

Come accennato, l’orchestra si presenta in ottima forma così come è, al solito, eccellente il Coro del Teatro La Fenice preparato da Claudio Marino Moretti.

Successo pieno e meritato per tutti.



Lo Schiaccianoci di Cajkovskij al Verdi di Trieste

Oltre al contesto, c’è un’altra cosa che accomuna Lo Schiaccianoci di Pëtr Il’ič Čajkovskij al Natale: la capacità di contagiare, con il suo clima sospeso e magico, adulti e bambini. O almeno questo è stato l’effetto della produzione appena transitata sul palco del Verdi di Trieste, che si è guadagnata l’entusiasmo pressoché incondizionato del pubblico più eterogeneo e trasversale che si sia visto da queste parti negli ultimi tempi.

I meriti sono da dividersi equamente tra i bravi interpreti (su tutti la delicatissima Clara di Ashley Bouder, il Principe di Andrew Veyette e Valerio Polverari, Drosselmeier dalle linee eleganti) e il collaudato allestimento di Amedeo Amodio, che sigla coreografia e regia.

Tuttavia chi ha forse un poco di merito in più rispetto agli altri è Emanuele Luzzati, che a suo tempo firmò scene e costumi. Il disegno di Luzzati è un’esaltazione del fiabesco e del colore, un mondo poetico, onirico e lontano, che mescola con delicatezza un gusto illustrativo quasi “infantile” a risvolti dai tratti persino inquietanti.



Certo qualche ruga – l’allestimento ha trent’anni – emerge inevitabilmente, più evidente nella realizzazione che nel gusto, ma è poca cosa che poco o nulla inficia la riuscita dello spettacolo, anzi, gli dona una nota malinconica e decadente non priva di fascino.

I momenti topici del racconto sono ben risolti, la narrazione, pur con qualche libertà o riadattamento, è scorrevole e dinamica. La voce registrata di Gabriella Bartolomei ha poi una sua efficacia nel mascherare i tempi morti, sfruttandoli a favore di drammaturgia.

Drammaturgia che è altrettanto ben servita, soprattutto nelle tinte, dall’Orchestra del Verdi, guidata con attenzione e sensibilità ma forse eccessiva prudenza da Alessandro Ferrari.

E infine ci sono loro, i ballerini, che si rivelano all’altezza della situazione ad ogni livello, dalle parti più esposte fino all’ultimo della fila, e si guadagnano il trionfo tributato dal pubblico. La speranza è quella di ritrovare presto il balletto nel cartellone del Verdi, intanto a gennaio si riparte con Il Flauto Magico di Mozart.

1 dicembre 2016

Wayne Marshall e Filarmonica della Fenice

“Signor Gershwin, la musica è musica”. Così parlò Alban Berg che come molti ammirava profondamente il compositore americano e che godeva, forse più di ogni altro, di una sincera stima reciproca. Non deve sorprendere il fatto che uno dei padri della dodecafonia, tra i massimi esponenti della seconda scuola di Vienna, mostrasse posizioni tanto benigne verso un linguaggio senz’altro distante dal proprio ma al quale era accomunato dall’urgenza di esplorare nuovi orizzonti, sia pure in direzioni differenti.


Gershwin, tornato a New York dall’Europa, fece incorniciare una foto di Berg che appese a una parete di casa accanto a quella di Jack Dempsey, pugile campione dei pesi massimi tra il 1919 e il ‘26, e a un sacco da boxe. Non solo, quando il compositore statunitense si diede al teatro con Porgy and Bess aveva ben chiara in testa la lezione dell’austriaco, in particolare il suo Wozzeck cui dedicò più di un riferimento.

Inutile dire che Berg vide lontano, ma non fu il solo. La prima di Rhapsody in blue alla Aeolian Hall di New York nel 1924 si guadagnò un consenso pressoché unanime – in sala erano presenti personalità del calibro di Stokowski e Rachmaninov, entusiasti – e non meno calorosa fu l’accoglienza nel Vecchio Mondo, ove i vari Stravinskij, Ravel, Schoenberg e, appunto, Berg, salutarono con favore questa musica nuova.

Al di là dell’approvazione, sia pur autorevolissima, dei suoi contemporanei, l’importanza dell’opera di Gershwin va riconosciuta anche per l’influenza che ha avuto sulla scuola compositiva americana, ma non solo, del XX secolo. Tra gli epigoni, benché con alterna costanza e convinzione, ci fu anche Leonard Bernstein che pur non risparmiando qualche critica al lavoro del suo ingombrante predecessore ne fu un autorevole interprete.

Pertanto abbinare in un unico programma le produzioni più note di questi due musicisti non può che rivelarsi una scelta vincente, sia per le relazioni storiche, sia per le palesi affinità di linguaggio.

Quella che potrebbe essere fraintesa come musica semplice, tanto per l’immediatezza e la spontaneità comunicativa quanto per il suo affondare le radici anche nei generi più popolari (si tratti di jazz, swing, o le Song di inizio Novecento), è in realtà una materia estremamente complessa da maneggiare e insidiosa, sia tecnicamente, sia per le peculiarità stilistiche che richiede all’esecutore.

Non solo, questa è musica in cui, per riuscire convincenti, bisogna credere profondamente. E Wayne Marshall ci crede con tutto se stesso. Anche per tale ragione il concerto che l’ha visto protagonista, nella doppia veste di pianista e direttore sul podio dell’Orchestra Filarmonica della Fenice, è esitato in un successo clamoroso.

Nella Rhapsody in blue Marshall ci mette molto di suo, omaggiando proprio la prima esecuzione del ‘24 con un Gershwin in veste di pianista facile all’improvvisazione. Non di meno riesce a trovare un pregevolissimo equilibrio dinamico tra il pianoforte solista e l’orchestra, ben sapendo che, come ci sono passaggi in cui il solista ha il dovere di emergere con forza, in altri dev’essere capace di farsi gregario e calarsi tra gli orchestrali, quasi confondendovisi. Se il calore del tocco e la plasticità dei tempi rivelano la perfetta consuetudine con le specifiche del jazz (il segreto del ritmo sta nel ritardo, diceva qualcuno, e in questo repertorio sembra più vero che altrove), mai c’è la concessione a un manierismo o ad effetti a buon mercato, anche quando Marshall si concede certi rallentandi tiratissimi. Dall’orchestra, che è solida spalla per tenuta ritmica e qualità di suono, emergono le ottime parti prime, in particolare l’eccellente il clarinetto di Vincenzo Paci.

Nel poema sinfonico An American in Paris, pur passando dal pianoforte al podio, l’approccio di Marshall rimane il medesimo: estrema vivacità, attenzione ai colori e agli impasti, il tutto unito ad una pregevolissima mutevolezza di dinamiche. Gli scarti ritmici sono netti, gli interventi dei singoli ben esposti ma soprattutto, al di là del grande mestiere nel tenere insieme il tutto, ci sono una vitalità e una gioia di suonare che rapiscono il pubblico.

Oltre a Gershwin, si diceva, c’è spazio anche per Leonard Bernstein e le sue Symphonic Dances, una selezione di danze estrapolate dal musical West Side Story, appositamente riorchestrate dal compositore stesso per una grande compagine sinfonica.

Dopo un Prologo piuttosto guardingo, Marshall si scatena e infiamma con un entusiasmo travolgente quell’orgiastica fusione di ritmi e colori che sono le Danze sinfoniche, in uno sviluppo sempre serrato, quasi burrascoso. Pur mantenendo invariate la tensione e l’energia per l’intera durata del lavoro, e concedendosi qualche sonorità di sfacciata esuberanza, tutto è sempre sotto controllo, gli attacchi puliti e precisi, i suoni ben amalgamati anche quando il volume è consistente. Qualche nota sporca qua e là, qualcuna sollecitata, qualcun’altra che ci scappa per sbaglio, non fanno che accrescere il fascino jazzistico della lettura. Ovviamente se ogni cosa riesce con tanta facilità i meriti principali sono dell’orchestra che, anche in un repertorio così distante dalle frequentazioni più abituali, si comporta alla perfezione.

Se non sorprendono la pulizia e il bel colore degli archi, che ormai sono una piacevolissima costante della Filarmonica della Fenice, lasciano di stucco le eccellenti percussioni, vera spina dorsale delle Danze Sinfoniche. Senza far torto ai colleghi di sezione, merita un elogio la splendida prova di Dimitri Fiorin, giustamente acclamato dal pubblico.

I legni e gli ottoni, sollecitatissimi, non sono da meno e concorrono all’ottima riuscita dell’esecuzione, dimostrandosi duttili nell’assecondare la peculiare tavolozza timbrica della scrittura, qualità che emerge forse ancor più nettamente in Gershwin.

Sulla stessa, entusiasmante linea l’infuocata Ouverture da Candide dello stesso Bernstein.

Biglietti esauriti, trionfo sacrosanto e pubblico in delirio. Dopo un primo bis (Promenade di Gershwin, in cui Marshall dà l’attacco e si defila lasciando i Filarmonici soli sul palco), direttore e orchestra si devono arrendere all’entusiasmo del teatro e replicare a furor di popolo l’Ouverture di Candide, prima di congedarsi tra gli applausi.

Rigoletto apre la stagione lirica del Verdi di Trieste

Il 28 aprile del 1950 Giuseppe Verdi scrive a Francesco Maria Piave “…avrei un altro sogetto che se la polizia volesse permettere sarebbe una delle più grandi creazioni del teatro moderno… è immenso, ed avvi un carattere che è una delle più grandi creazioni che vanti il teatro di tutti i paesi e di tutte le epoche. Il sogetto è Le Roi s’amuse, ed il carattere di cui ti parlo sarebbe Tribolet…”. Non solo. Poco più in là Verdi sollecita il librettista a “correre per la città” in cerca di una “persona influente” che possa consentire la messa in scena di un tema tanto delicato, o per meglio dire di “ributtante immoralità ed oscena trivialità” (parole del Governatore veneziano). Insomma che Rigoletto sarebbe stato qualcosa di scomodo è chiaro a tutti fin da subito e le note vicissitudini con la censura stanno lì a testimoniarlo.

Foto Fabio Parenzan

Cosa nel lavoro di Hugo appassionasse il compositore diventa lampante quando, pochi giorni più tardi (l’8 maggio), definisce Triboletto una creazione degna di Shakespeare. Infatti lo è. Lo è per la coesistenza di diversi registri, di tragico e grottesco, di orrido e sublime, per l’universalità di temi e sentimenti che vi sono racchiusi, i più bassi e vili assieme alle virtù più nobili. Lo stesso protagonista, mordace e spietato buffone deforme ma al contempo padre capace di una smisurata umanità tra le mura di casa, esemplifica al massimo livello la complessità shakespeariana del Rigoletto. E, si badi, tutto ciò emerge dalla musica come dal libretto.
Questa premessa è necessaria per chiarire il giudizio sulla produzione firmata da Jean-Luois Grinda che ha inaugurato la stagione lirica del Teatro Verdi di Trieste.

Se Rigoletto non è inquietante, disturbing, se non suscita nello spettatore un misto di pietà e disgusto, di empatia e ribrezzo, a cosa serve? Bisognerebbe chiederlo a Grinda, il quale annacqua e congela ogni emozione in una placida eleganza che può soddisfare forse il senso estetico ma che non riesce ad esplorare le pieghe più oscure di questo capolavoro.

Insomma, non fosse per le scene austere e atemporali di Rudy Sabounghi, né belle né brutte, saremmo di fronte all’ennesimo spettacolo di polverosa tradizione, ove ogni personaggio fa quello che ci si aspetta, ricalcando gli stereotipi più rassicuranti, con tutti i tic e i luoghi comuni operistici radicati nell’abitudine. Non che ci siano particolari demeriti nella conduzione degli artisti: la recitazione è convenzionale ma non trascurata, le masse sono ben manovrate (merito senz’altro di Vanessa d’Ayral de Sérignac che ha curato la ripresa triestina), eppure lo spettacolo non riesce a smuovere quella patina di superficialità e onesto mestiere su cui sembra adagiarsi. Le poche idee paiono raramente vincenti mentre più spesso risultano avulse o incoerenti.
Molto efficace il disegno luci di Laurent Castaingt, soprattutto nel primo atto.

Foto Fabio Parenzan
Sul fronte musicale le cose vanno decisamente meglio. Fabrizio Maria Carminati è un direttore che garantisce sempre una buona tenuta narrativa e musicale. Magari non emergono particolari finezze o dettagli illuminanti ma ci sono, in compenso, una sensibilità per il teatro ed un’attenzione alle necessità del palco – non intese come capricci, sia chiaro – assolutamente preziose. La concertazione è attenta: il suono è equilibrato, le sezioni orchestrali fuse con sapienza.
Si avverte tuttavia, nel complesso, un’eccessiva uniformità nelle dinamiche che alla lunga muta in piattezza (un po’ di coraggio in più nel volume, in certi momenti, non spiacerebbe). Merita sicuramente un plauso la rinuncia a molti vezzi di tradizione, purtroppo non tutti (l’insopportabile modulazione prima di “Sì vendetta” è ancora al suo posto illegittimo).
Risponde alla perfezione l’Orchestra del Verdi di Trieste, al solito affidabilissima per precisione e qualità.

Ascoltando e guardando Sebastian Catana si percepisce chiaramente un lavoro approfondito di studio della parte: l’accentazione, i colori, le dinamiche, tutto è ben pensato e rifinito. Ciononostante questo Rigoletto non convince totalmente, un po’ per la convenzionalità dell’interpretazione, che per quanto varia risulta troppo saputa e prevedibile, un po’ per certi limiti nell’emissione, soprattutto quando la tessitura si fa acuta, con la voce che tende a restare in gola e uscire opaca.

Antonino Siragusa ha senz’altro tutte le note della parte nonché una solidità tecnica che gli consente di affrontare ogni registro senza sbavature d’emissione né di intonazione, proiettando il suono con facilità. Certo la voce è, più per timbro che per peso, lontana dalla pienezza lirica che siamo abituati ad associare al Duca di Mantova e a tratti (duetto con Gilda nel primo atto, Aria nel secondo), pare soffrire un po’ la scrittura. Va detto che, trattandosi di un debutto assoluto, Siragusa avrà modo di aggiustare i minimi problemi, portando a completa maturazione la parte.

Aleksandra Kubas-Kruk, Gilda, alterna cose pregevolissime (un ottimo Caro nome) a momenti di difficoltà, soprattutto nel secondo atto. La voce è di bel colore e, benché leggera, corre con facilità in sala, ma non è sempre ben controllata: gli acuti ad esempio riescono a volte alla perfezione, altre striduli e fissi; il fraseggio andrebbe ulteriormente rifinito.

Lo Sparafucile di Giorgio Giuseppini è solido e imponente ma, complici alcune scelte registiche, a tratti eccessivamente ruvido. Vocalmente impeccabile la brava Antonella Colaianni, purtroppo mortificata da una regia che la costringe a ricalcare il trito stereotipo della Maddalena seduttrice caricaturale.
Pregevole il Monterone di Frano Lufi, all’altezza della situazione tutti gli altri.

Ottima la prova del Coro del Verdi che, sotto la guida di Francesca Tosi, pare aver ulteriormente guadagnato in compattezza e pienezza dell’amalgama.

Teatro pienissimo e pubblico entusiasta, bene così.

22 novembre 2016

Aquagranda apre la stagione del Teatro La Fenice di Venezia

Sono tempi bui per le fondazioni liriche italiane, ormai da troppo tempo. Così, mentre molti tirano a campare con un occhio al botteghino e l’altro fisso sul bilancio, alternando Tosche e Rigoletti come se non ci fosse un domani – e non è detto che ci sarà, alla luce degli sviluppi recenti – alla Fenice si inaugura la stagione con un’opera nuova, iniziativa più unica che rara di questi tempi e degna di ogni lode possibile.

Aquagranda, musica di Filippo Perocco, va in scena a cinquant’anni esatti dall’alluvione che il 4 novembre del 1966 sommerse Venezia e ne ricorda i tragici momenti.
Avendo lo spettacolo raccolto consensi pressoché unanimi da parte di pubblico e critica, con un certo imbarazzo riconosco di appartenere alla minima e sparuta schiera di quanti faticano a riconoscerne la grandezza.
Se non c’è dubbio sul fatto che la musica di Perocco abbia un suo fascino, soprattutto negli impasti timbrici e nell’uso delle percussioni, rimane qualche titubanza sull’efficacia teatrale, più che della musica in sé, del lavoro nel complesso. Il libretto di Roberto Bianchin e Luigi Cerantola infatti, nella ricerca estenuante della sfumatura fonetica, del suono, del colore, trascura la drammaturgia per virare verso un altro tipo di codice espressivo. 
È evidente che né la trama, né l’azione, né tanto meno la psicologia dei personaggi siano l’obiettivo centrale dei librettisti ma tale impostazione, per quanto legittima, una qualche ipoteca sulla riuscita del lavoro la pone. O meglio, Aquagranda non è un’opera convenzionale ma poggia su un linguaggio teatrale eterodosso, in cui non è sempre agevole entrare, o che non è quantomeno immediatamente traducibile. C’è senz’altro una qualche forza evocativa, a tratti di grande intensità, che tuttavia da sola fatica a sostenere l’intera durata dello spettacolo, soprattutto per la debolezza di molti versi e la tendenziale monotonia (nel senso di uniformità di ritmo e colori) della creazione.



Nessuna riserva invece su Paolo Fantin che si conferma genio tra i più brillanti del panorama contemporaneo. L’impianto scenico da lui pensato è semplice ma di straordinario effetto: una parete cava che si riempie lentamente d’acqua taglia il palcoscenico nella sua larghezza. Il progressivo accumulo, che segue il montare dell’alluvione, culmina in una poderosa cascata nel momento in cui crollano i murazzi di Pellestrina.
Un tavolo, qualche sedia e poco altro sono gli unici elementi su cui costruire una regia. Ai lati della scena, sotto i palchi di barcaccia, trova posto il coro, voce della laguna, il vero motore dell’opera.
Le proiezioni video di Carmen Zimmermann e Roland Horvath, che alternano immagini della Venezia attuale a documenti d’epoca, scadono nei momenti di eccessivo realismo, soprattutto nell’evitabilissimo finale. Di grande suggestione il disegno luci di Alessandro Carletti.

Damiano Michieletto è attualmente il più importante regista d’opera italiano. La sua forza, più che nelle idee (talvolta ingenue, altre volte illuminanti), sta nella capacità di dar loro coerenza e piena realizzazione: Michieletto è il tipo di regista che racconta una storia completamente diversa da quella che ci si aspetta ma che alla fine, tale è l’abilità nello sviluppare recitazione e ritmo, finisce per convincere. Il che non significa affatto essere un provocatore o un furbastro, sia chiaro.
Qui però non c’è nessuna prospettiva da ribaltare ma solo un’azione (lenta, lenta…) da raccontare o, a tratti, inventare, e il Michieletto dei giorni migliori ne esce depotenziato. Benché la gestione dei singoli sia ben risolta e la zampata del grande artista a tratti emerga (l’utilizzo dei pochi elementi, soprattutto delle sedie, per costruire una regia è cosa da vero maestro), l’abuso di pose plastiche, movimenti lenti, grandi gesti, lascia qualche perplessità. Senz’altro si tratta di una regia pensata sulla musica, per sua natura poco adattabile a una maggiore dinamica, ma qualche esitazione di troppo sul piano tecnico c’è. Non aiutano molto i movimenti coreografici di Chiara Vecchi che, pur nella raffinatezza, tradiscono un eccesso di manierismo.



Sul fronte musicale le cose vanno alla perfezione. Se la cavano benissimo i sette solisti, capaci di venire a capo di una scrittura vocale ostica, più versata alla ricerca timbrica che a servire la parola.
Solidissime le voci di basso di Francesco Milanese (Fortunato) e Vincenzo Nizzardo (Nane), le cui parti insistono sulle zone gravi del pentagramma. Giulia Bolcato si mangia con facilità le scomodissime acrobazie virtuosistiche di Lilli. L’Ernesto di Mirko Guadagnini è sicuro così come convince pienamente William Corrò, Luciano.
Marcello Nardis si disimpegna con onore nei panni (musicalmente) scomodissimi di Cester. Sicura nel canto e disinvolta sulla scena Silvia Regazzo, Leda.

Aquagranda conferma per l’ennesima volta il valore dei complessi della Fenice. Coro e orchestra, che si tratti di grande repertorio, di rarità novecentesche, di riscoperte o di musica sacra, viaggiano sempre su alti livelli. I meriti in questo caso vanno condivisi con Claudio Marino Moretti, ormai una garanzia alla guida del coro, e il bravo Marco Angius che si destreggia tra i ritmi e i colori dell’opera di Perocco senza un’esitazione.

Successo pieno.
Paolo Locatelli
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4 novembre 2016

Il Medico dei Pazzi al teatro Malibran

Napoli. Ciccillo è uno studente di medicina sfaticato e col vizio del gioco. Per ripianare i debiti chiede allo zio Felice Sciosciammocca una somma di denaro, fingendosi laureato e intenzionato ad aprire una clinica per malati di mente. Ovviamente arriva il giorno in cui lo zio vuole far visita al nipote per verificare di persona il frutto dei tanti “investimenti” e Ciccillo si trova costretto a macchinare un piano di salvataggio: cercherà di convincere Felice che la “Pensione Stella”, ove egli alloggia, sia in realtà la casa di cura da lui fondata e che gli avventori ne siano i pazienti.

Il gioco per un po’ riesce perché “visto da vicino nessuno è normale”, soprattutto se gli occhi di chi guarda sono influenzati da un pregiudizio, tanto più che gli ospiti della pensione sono tutti sedicenti artisti in bilico tra il disturbo narcisistico di personalità e quello istrionico.
Si scatena insomma una commedia degli equivoci che, tra rimandi, riferimenti, idee, diverte e, in un certo senso, porta avanti un messaggio nobile. Alla fine, quando lo zio Felice sembra definitivamente gabbato e truffato – le citazioni del Falstaff stanno lì a ricordarlo, con tanto di sberleffi che riprendono la gaia risata delle allegre comari – il meccanismo si inceppa e Ciccillo è costretto a confessare l’inganno.

È grossomodo questa la colonna portante de “Il medico dei pazzi”, azione musicale napoletana di Giorgio Battistelli, tratta dall’omonima commedia di Eduardo Scarpetta, alla sua prima italiana dopo il debutto assoluto a Nancy nel 2014.


La musica dello stesso Battistelli (che firma anche il libretto) ha una sua efficacia teatrale, persino una certa ironia, ma rischia, tra rimandi, reminiscenze verdiane, effetti buffi e allusioni, di riuscire un tantino manierata e lambiccata. Certo non si può negare che l’opera sia scritta con sapienza e mestiere: è fluida, ha buon ritmo, la fusione tra musica e testo è ammirevole.
Se lo spettacolo in scena al Teatro Malibran funziona, i meriti vanno equamente divisi tra il regista Francesco Saponaro, il maestro Francesco Lanzillotta e un cast ben assemblato.

Saponaro, che firma anche le scene, sa infondere un’apprezzabile vivacità all’azione. La recitazione rimanda chiaramente al teatro napoletano, con la sua gestualità sopra le righe e vagamente stereotipata, ma riesce efficace nel tratteggiare i caratteri sulla scena.

I costumi di Carlos Tieppo e il disegno luci di Cesare Accetta sono pregevoli e ben realizzati.

Come accennato, è bravissimo Francesco Lanzillotta a sostenere la narrazione con ottimo senso del ritmo, fondamentale per valorizzare la scrittura orchestrale, e attenzione ai dettagli strumentali senza mai perdere di vista il palcoscenico.
Il coro preparato da Claudio Marino Moretti è ancora una volta eccellente sia musicalmente sia sulla scena.
Meritano una lode tutti i cantanti, capaci di venire a capo di scritture che necessitano di una tecnica ibrida, in grado di sostenere passaggi di lirismo accanto ad altri di pura declamazione, parlato e virtuosismo “para-belcantista”.

Un plauso particolare se lo guadagnano Marco Filippo Romano, eccellente Felice, e la bravissima Milena Storti (Amalia). Se la cavano molto bene anche Sergio Vitale, esuberante Ciccillo, Damiana Mizzi (Rosina), Arianna Donadelli (Bettina/Carmela), Loriana Castellano (Concetta), Giuseppe Talamo (Michelino), Maurizio Pace (Errico), il sempre affidabilissimo Matteo Ferrara (Luigi), Filippo Fontana (Raffaele) e Clemente Antonio Daliotti (Carlo).

Yuri Temirkanov inaugura la stagione sinfonica della Fenice

Prendiamo “I Capuleti e i Montecchi”, forse il passo più celebre del balletto Romeo e Giulietta di Prokof’ev. Dopo quella manciata di battute spiritate dell’Andante, attacca un Allegro pesante cupo, dominato dall’incedere di ottoni e archi gravi. Su questo tappeto sinistro, violini e clarinetti intonano un motivo che alla seconda misura inciampa su una pausa di croma. Lì, su quella pausa apparentemente insignificante, Yuri Temirkanov indugia un respiro in più, non troppo, e il solfeggio diventa musica.

È tutto così con Temirkanov, nuovamente al Teatro La Fenice per l’apertura della stagione sinfonica: un imprevedibile fluire, un apparente dipingere la frase sul momento, come gli viene.



Per quanto riguarda la Sinfonia del Barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini le cose non cambiano. Nella sezione centrale, la melodia affidata a legni e corno si stira e si accorcia, come un elastico, mentre il crescendo che segue viene stretto progressivamente in modo quasi impercettibile.
Poi certo, se qualcuno si aspetta un Rossini “comme il faut”, filologicamente parlando, si sbaglia. Qui l’orchestra è ampia, il suono pure, però ci sono tanti colori e, soprattutto, quell’estrema libertà nel plasmare la musica che è prerogativa dei più grandi (rubar con garbo è il segreto dell’arte, dice bene Falstaff).

Anche l’Haydn della Sinfonia in re maggiore Hob. I:101 ovviamente non segue alcuno scrupolo filologico, e nessuno se ne aspetterebbe da Temirkanov, fiero superstite di un passato glorioso, ormai demodé e crepuscolare ma tanto, tanto affascinante. Il suo Haydn è brahmsizzato, spintonato verso il tardo romanticismo. L’incedere è placido, i tempi tendenzialmente comodi. C’è in compenso una dovizia di particolari e un gusto per il colore orchestrale assolutamente “russo”, con archi caldi e densi ma mai prevaricanti, e c’è una prodigiosa cantabilità.

Di Prokof’ev si è in parte già detto (Romeo et Juliette: estratti dalle Suite n. 1 e n. 2). Sonorità poderose ma sempre perfettamente bilanciate, estrema libertà nel fraseggiare senza scadere nello stucchevole. Non c’è mai invece, anche nei momenti più accesi, l’impressione che qualcosa sfugga al controllo del podio, né si avvertono sonorità confuse o pesanti. Inoltre qui, a differenza di Rossini e Haydn, lo stile è quello “giusto”.

L’Orchestra della Fenice segue alla perfezione Temirkanov, dimostrandosi capace di eccellente virtuosismo e ricchezza timbrica e soprattutto di saper tradurre il suo gesto imperscrutabile in dettaglio musicale, sfumature, articolazione. Le minime sbavature, in un simile quadro, paiono assolutamente irrilevanti.
Resta da dire del brano che ha, di fatto, aperto concerto e stagione: la Serenata per nove strumenti di Giovanni Salviucci. Qui Yuri Temirkanov non c’entra perché i protagonisti sono i Solisti del Teatro La Fenice ma il risultato non cambia, si vola sempre alto.

Anche se il Nonetto di Salviucci non è mai riuscito a guadagnarsi un posto di rilievo nel repertorio (forse non del tutto ingiustamente), i Solisti della Fenice gli rendono onore, restituendone un’esecuzione di assoluto prestigio, sia per qualità strumentale dei singoli, sia per trasparenza dell’amalgama.
Giova senz’altro alla riuscita del pezzo la differenza timbrica tra il violino luminoso e brillante di Roberto Baraldi e quello più caldo e pastoso di Alessandro Cappelletto, che ben si fondono al velluto della viola di Alfredo Zamarra e del violoncello di Francesco Ferrarini. Meritano di essere citati a uno a uno anche gli altri eccellenti musicisti:  Angelo Moretti (flauto), Rossana Calvi (oboe), Vincenzo Paci (clarinetto), Marco Giani (fagotto) e Piergiuseppe Doldi (tromba).

Trionfo sacrosanto.
Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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Il barbiere di Siviglia al Verdi di Pordenone

Li abbiamo contati come Butterfly questi tre anni, tanto è durata l’assenza dell’opera dal palcoscenico del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, e l’attesa è stata ripagata da un Barbiere di Siviglia esotico. Esotico non nella sostanza, beninteso, quanto nell’insolita provenienza.

La nuova produzione del Teatro Verdi di Trieste infatti, che pure è prevista nella stagione lirica a fine inverno, proviene direttamente da Dubai, ove i complessi triestini hanno da poco inaugurato il teatro dell’opera. Rispetto alle recite negli Emirati l’allestimento è stato rimaneggiato e probabilmente, da qui a febbraio, qualche altra modifica ci sarà ancora, ma già allo stato attuale lo spettacolo funziona e convince, soprattutto nel secondo atto.


Giulio Ciabatti non ripensa il libretto, anzi, si inserisce nel filone dell’onesta tradizione ma lo fa con più di un merito: innanzitutto scansa sistematicamente certa comicità deteriore d’avanspettacolo che in simili spettacoli è merce comunissima e, non di meno, infonde una pregevole scorrevolezza all’azione. La recitazione non è trascendentale me è sempre ben condotta, soprattutto nelle scene d’insieme, e raggiunge i massimi livelli durante un temporale gestito con ottimo mestiere e fantasia. Qualche trovata inedita, come la tresca tra Berta e l’ufficiale, risulta piacevole e garbata.

Le scene cupe di Aurelio Barbato rendono bene il clima claustrofobico della “prigionia” di Rosina ma soffrono di una certa monotonia, restando pressoché invariate per l’intera durata dell’opera.

Domenico Balzani, Figaro, ha tanta voce, un’emissione sana e si destreggia con consumato mestiere sul palco. Si avverte però qualche limite stilistico sia nei recitativi, che spesso scivolano nel parlato, sia nel canto, meno morbido e cesellato di quanto si vorrebbe.

Aya Wakizono è una Rosina eccellente. La voce è bella, ampia, omogenea e viene manovrata con facilità quasi irridente: le agilità sono limpide e impeccabili, il registro acuto luminoso, il legato di alta scuola. Il personaggio è tratteggiato con convenzionalità ma c’è tutto e funziona alla perfezione.

Convince a metà il Conte d’Almaviva di Bogdan Mihai il quale alterna autentiche prodezze a tante problematicità. La voce è piccola di natura ma soprattutto dà sovente l’impressione di non essere sostenuta a sufficienza dal fiato, soprattutto nelle agilità che, per quanto ben dipanate, paiono spoggiate. Di contro c’è una pregevolissima morbidezza del canto nelle frasi più lunghe e legate, anche in zone scomode della tessitura. La sensazione insomma è che il tenore abbia una naturale predisposizione per affrontare il repertorio rossiniano e tutte le carte in regola per diventarne un affidabile interprete ma che la consapevolezza tecnica vada ulteriormente rifinita. C’è poi una certa leziosità “barocca” nel porgere e nel recitare che alla lunga risulta stucchevole. Spiace il sacrificio del Rondò.

Filippo Polinelli è invece un Don Bartolo straordinario. Davvero non è comune ascoltare una parte di buffo risolta con tale raffinatezza e ricchezza di inflessioni, scansando ogni effettaccio o cialtroneria per risolvere tutto nel canto. La sensibilità con cui il baritono colora ogni parola e la pulizia della recitazione sono un ottimo punto di partenza per dare vita a un Bartolo che è al contempo pavido e meschino, spocchioso ma in fondo non privo di una certa bonomia e che, proprio perché non ricerca la risata ad ogni costo, risulta estremamente divertente e sottile. La voce del baritono è poi di pregevolissima grana e la musicalità eccellente.

Il Don Basilio di Giorgio Giuseppini pare una maschera della commedia dell’arte in cui, al di sotto della superficie comica, erompe qualcosa di inquietante. La vocalità, benché matura, è ancora ampia e ben sostenuta in ogni registro.

Maria Cioppi è una Berta convincente e simpatica.

Molto bravo Giuliano Pelizon, Fiorello. Hektor Leka è un ufficiale vocalmente solido e disinvolto sulla scena.

Francesco Quattrocchi, sul podio di un’Orchestra del Verdi di Trieste in ottima forma, infonde buon passo alla narrazione e concerta con mestiere, prestando la necessaria attenzione agli equilibri interni e al palco. Le uniche riserve riguardano un’eccessiva prudenza nelle dinamiche, che risultano appiattite (sgonfiando così parte dell’effetto nei crescendo), e la tendenza a calcare la mano in certi punti, eccedendo nelle sonorità.

Si comporta benissimo il coro del Verdi per il debutto della sua nuova maestra Francesca Tosi, fresca di nomina alla successione di Fulvio Fogliazza.

Calorosa l’accoglienza del pubblico pordenonese.


10 ottobre 2016

Mitteleuropa: inaugurazione della stagione musicale Contrasti

Giunta alla sua seconda edizione, Contrasti, la stagione musicale del Teatro Gustavo Modena di Palmanova che vede protagonista la Mitteleuropa Orchestra, raddoppia, passando da sei a dodici appuntamenti. Un cartellone che spazia tra generi e linguaggi, saltando dal grande repertorio sinfonico al crossover, dalla musica cameristica all’opera.

L’appuntamento inaugurale vede protagonista, accanto alla violinista Laura Bortolotto, proprio l’orchestra di casa, impegnata in un programma che pesca tra i grandi classici dell’Ottocento, il tutto sotto l’attenta guida dell’olandese Jan Willem de Vriend.

L'apertura di concerto, affidata all'Ouverture da Die Zauberharfe, D. 644 di Franz Schubert, dopo qualche momento di assestamento, evidenzia un’ammirevole libertà nella gestione della agogica e nel fraseggiare da parte del podio nonché un apprezzabile amalgama del suono orchestrale.

Laura Bortolotto è una giovane violinista già artefice di una carriera notevolissima ma soprattutto si rivela, ad ogni occasione, in progressiva crescita. Rispetto agli ascolti passati si avverte chiaramente un’evoluzione che non è solo tecnica (il suono si è fatto più morbido e caldo, la musicalità più fluida) ma che riguarda soprattutto la personalità, sia nell'affrontare l’orchestra, sia come interprete.

Nel Concerto per violino in la minore Op. 53 di Antonín Dvořák il fraseggio è estremamente cantabile e limpido, non c'è una ricerca estenuante dell'effetto ma nemmeno quell’eccesso di pulizia che potrebbe raffreddare eccessivamente l’interpretazione. L'intonazione è sempre impeccabile, la tenuta ritmica nei passaggi più virtuosistici saldissima.
Anche la Passacaglia di Biber, proposta come bis, conferma le buone impressioni restituite in Dvořák.

Jan Willem de Vriend, aiutato senz'altro dalle dimensioni dell'orchestra, sa sostenerla senza eccessi di enfasi, rispondendo puntuale alla linea disegnata dalla solista.

Il vero banco di prova per la Mitteleuropa arriva tuttavia nella seconda parte di concerto, quando Schubert torna protagonista con la Sinfonia n. 9 in do maggiore "La grande" D. 944.

Già il primo movimento della Grande conferma le impressioni suscitate dall’Ouverture: de Vriend gioca molto sulla dinamica il che, unito a una apprezzabile flessibilità nella gestione del tempo, scansa il rischio di monotonia e rende lo sviluppo fluido. È uno Schubert luminoso e sorridente il suo, di una serenità quasi bucolica. I tempi sono tendenzialmente svelti ma non frenetici, le sonorità sempre sotto controllo.

L’Andante con moto dà modo di apprezzare la qualità dei legni (ottimo il primo oboe). Lo Scherzo è staccato con brillantezza, così come il quarto movimento, infuso di una bella energia che monta progressivamente senza sgonfiarsi.
L’orchestra si rivela all’altezza dell’impegno, dimostrandosi capace di esprimere sonorità equilibrate e morbide. Qualche sbavatura nell’intonazione degli archi è poca cosa.
Meritano una lode gli ottoni, settore sempre delicatissimo e, in questo caso, assolutamente affidabile.

Molto calorosa l'accoglienza del pubblico in sala a fine concerto.

20 settembre 2016

Leticia Moreno e Gianluigi Gelmetti inaugurano la stagione sinfonica del Verdi

C’è la bella Leticia Moreno – scuderia Deutsche Grammophon, ne sentiremo parlare a lungo – ad aprire la stagione sinfonica del Verdi di Trieste. Violinista dal gusto sofisticato, plateale forse nell’approccio “teatrale” allo strumento ma non nella sostanza. Le sue carte vincenti (Concerto in mi minore per violino e orchestra op. 64 di Mendelssohn) sono infatti la pulizia della linea, il bel legato e un delicato lirismo che non viene mai eccessivamente inzuccherato, anzi, che pare infuso di una tensione sottile, a tratti quasi nervosa. Il suono è piccolo ma estremamente caldo, le dinamiche non impressionano per varietà eppure sono dosate con buonsenso, per servire la musica piuttosto che impressionare il pubblico.

Prima di lei l’apertura di concerto è affidata al Lied mit Chor da Ein Sommernachtstraum op. 61 dello stesso Felix Mendelssohn-Bartholdy, brano per coro femminile (quello del Verdi, sempre ben preparato da Fulvio Fogliazza) e soprani: le brave Elisa Verzier e Lucrezia Drei.



Ciò detto, il ruolo di assoluti protagonisti del concerto va riconosciuto all’orchestra di casa e al Maestro Gianluigi Gelmetti che, se in Mendelssohn si limitano a un galante accompagnamento, nel Mahler della Quinta sinfonia in do diesis minore danno prova di grande virtuosismo e affiatamento.
L’Orchestra del Verdi suona splendidamente, con notevole compattezza e qualità di suono, e altrettanto bene sa prestarsi alle richieste del direttore, il quale dimostra di conoscere la materia e di avere un’idea ben definita sul taglio da dare all’opera.

Gelmetti non stempera quel lato abnorme e mostruoso, persino grottesco, che in Mahler c’è, ma lo fa senza scivolare nella retorica o in un’eccessiva seriosità, né si abbandona a languori e struggimenti dove è facile cedere al lirismo più esteriore, come nell’Adagietto. Il direttore punta piuttosto verso una tragicità poderosa e serrata di forte impatto. Pochi fronzoli ma tanta sostanza, sia nella precisione strumentale, sia nella tenuta dello sviluppo.
C’è tanto suono insomma, soprattutto nella Marcia funebre e nel Rondo, ma sempre equilibrato e sotto controllo, anche nei fortissimi a pieno organico. Il terzo movimento è poi giustamente Nicht zu schnell (non troppo veloce), come prescritto e come di rado si ascolta. Solo le prime battute dell’Adagietto tradiscono qualche imperfezione di intonazione e struttura, per il resto tutto quadra e riesce con onore.
Benissimo ottoni e legni, archi sugli scudi per colore e varietà di dinamiche. Davvero una prova da incorniciare per l’orchestra triestina.

Successo pieno e meritatissimo.

Jordan, Gerhaher e la Gustav Mahler Jugendorchester a Pordenone

Dimenticatevi il Mahler mistico, trascendente, se non in distacco dal mondo almeno in ascensione, della Nona come l’abbiamo spesso o quasi sempre conosciuta. Per Philippe Jordan la Sinfonia n. 9 in re maggiore è faccenda umana, di terra e sangue, di passioni e tormenti devastanti. Una lotta titanica o metafora di una vita che combatte, soffre, si dà fino allo stremo delle forze e, inesorabilmente, si spegne nel grande Adagio finale. Davvero una Nona così non la si era ancora ascoltata, un prodigio di tensione e calore, a tratti persino ustionante, violenta ma densa di una poesia e di una verità rarissime. Né mancano momenti di dolcezza o di malinconico abbandono in uno sviluppo che è narrativo, avvincente.




Tutto ciò non sarebbe minimamente pensabile se di fronte a un maestro di tali personalità interpretativa e carisma non ci fosse uno strumento del livello della Gustav Mahler Jugendorchester la quale è sì, di fatto, una compagine giovanile, ma non fosse per la debordante presenza di bellezza e gioventù schierata sul palco, nessuno potrebbe sospettarlo.

Un’orchestra che non è solamente prodigiosa (ma prodigiosa davvero!) sul piano tecnico e qualitativo, ma è ancor più guidata da un entusiasmo – e forse da giovanile incoscienza - che la spoglia di ogni prudenza, così da offrirsi al podio con generosità e coraggio da lasciare a bocca aperta. Tali sono la ricchezza di dinamiche (quei pianissimi eterei), gli scarti brucianti, l’articolazione rivelatrice che Jordan disegna, che a tratti si ha davvero l’impressione di assistere a mirabolanti peripezie sul vuoto, senza rete di protezione. Eppure non c’è passaggio che metta in difficoltà questi musicisti e anche i passi più indiavolati (su tutti un Rondo-Burleske vorticoso che si stringe battuta dopo battuta) riescono con un virtuosismo disarmante.

Non di meno, a dispetto delle dimensioni mastodontiche dell’organico, la Gustav Mahler Jugendorchester è capace di raffinatezze cameristiche, di sussurrare, ma anche di scatenarsi in ondate di suono talmente scintillante e compatto da far tremare le pareti della piccola sala del Verdi. Il suono è poi di straordinaria ricchezza, pastoso ma sempre morbido, i timbri hanno calore e densità stupefacenti (cosa sono quell’ingresso dei secondi violini nel primo movimento o l’attacco degli archi nell’Adagio!).

Non bastasse l’estremo capolavoro di Mahler, che già da solo farebbe serata, nel programma del concerto inaugurale della stagione del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone rientra anche Das Abschied da Das Lied von der Erde, primo capitolo della “trilogia dell’addio al mondo” e perfetto preludio a quanto finora raccontato.

Rispetto al fuoco della sinfonia qui c’è un Jordan tutto vapori e trasparenze, capace di tessere un cuscino di velluto per sostenere il meraviglioso artista che è Christian Gerhaher. Il baritono assapora ogni parola, la colora, fino a quegli ewig bisbigliati, sempre più piano. La voce è un miracolo di duttilità, il timbro rimane sempre carezzevole anche nelle aperture più audaci, quasi al limite del parlato, l’emissione a tratti pare rinunciare all’impostazione senza che questo comporti stimbrature o disomogeneità tra i registri.

Quando a fine concerto si spegne nel silenzio quel Re bemolle impalpabile e minuscolo degli archi, il teatro piomba in un silenzio eterno, commosso. Jordan posa la bacchetta e il pubblico esplode. 

Trionfo oceanico che si placa solo quando il maestro congeda l’orchestra. 

Il Trovatore all'Arena di Verona

È un Trovatore al quadrato quello areniano di Franco Zeffirelli, un melodrammone-colossal ove tutto risulta ingigantito ed esagerato, pensato per perseguire un obiettivo su tutti: stupire. La spettacolarità delle dimensioni e la piacevolezza estetica dell’imponente costruzione scenografica, invero appaganti per l’occhio, costituiscono il principale motivo di interesse dell’allestimento, al punto che a tratti si ha l’impressione che in essi si risolva gran parte del linguaggio espressivo del regista-scenografo.


Non di meno, fatta la tara degli eccessi che tutto sommato nel contesto veronese hanno una loro ragion d’essere, quello che rimane è uno spettacolo scorrevole, agile sia nei movimenti che nei cambi di scena, e, in fondo, anche nella tradizionalissima impostazione della recitazione.

A suo modo funziona dunque ancora questo Trovatore – già recensito su queste pagine in più occasioni  – nonostante l’età e il cospicuo numero di riprese. Funziona innanzitutto perché il tutto è realizzato con molta cura: l’impianto scenografico è pensato per servire la drammaturgia notturna dell’opera e in tal senso si adatta come un guanto alle tinte orchestrali, sia nell’atmosfera cupa e vagamente barbarica dei tre torrioni che costituiscono la scenografia, sia nei colori delle stesse scene e delle luci. Va poi riconosciuto al regista che, per quanto ingenua o banale possa essere l’impostazione del lavoro, alcuni momenti riescono talmente grandiosi e impressionanti da non lasciare indifferenti. È a tal proposito ammirevole la gestione sorprendentemente fluida delle masse, anche nei momenti di maggiore affollamento, al di là di un certo manierismo zeffirelliano nell’ostentazione delle dimensioni.

Ben calate nel disegno le coreografie di El Camborio (riprese da Lucia Real) e i combattimenti curati dal Maestro d’armi Renzo Musumeci Greco. Al pari delle scene sono assai belli i costumi di Raimonda Gaetani.
Oltre alla magniloquenza del quadro purtroppo lo spettacolo ha ben poco da offrire e le idee nel tratteggiare i personaggi ricalcano stereotipi triti e ritriti.

Se l’allestimento, pur nei limiti ravvisati, ha una sua coerenza, più controversa e disomogenea risulta l’esecuzione musicale.

Serata infelice per il protagonista Marco Berti, probabilmente appesantito dalla fittissima agenda recente. La voce del tenore fatica a trovare la giusta morbidezza – e spesso anche la perfetta intonazione - soprattutto nel passaggio, eccessivamente aperto e forzato, e di conseguenza anche fraseggio e varietà di dinamiche risultano piatti e poco incisivi.

Non meno problematica la prova di Hui He, Leonora spesso approssimativa nell’intonazione e anarchica nel solfeggio: il soprano arranca sia nel registro acuto, frequentemente calante, sia nella gestione dei fiati.

Vanno decisamente meglio le cose per quanto riguarda le voci gravi. Artur Rucinsky tratteggia un ottimo Conte Di Luna in cui splendore vocale e attenzione alle necessità espressive della musica si fondono ad alto livello. Nell’aria in particolare colpisce la cura per le sfumature e la dinamica, non meno dell’impressionante ampiezza dei fiati.

Al di là di qualche tensione negli estremi acuti, Violeta Urmana disegna un’Azucena vocalmente poderosa e finemente rifinita nel fraseggio e negli accenti.

Nella norma la prova di Sergey Artamonov, Ferrando dai mezzi vocali ragguardevoli ma dal canto non immacolato. Convincono Elena Borin (Ines) e Antonello Ceron (Ruiz). All’altezza della situazione il vecchio zingaro di Victor Garcia Sierra e Cristiano Olivieri (un messo).

Sul podio di un’Orchestra dell’Arena di Verona in buona forma, Daniel Oren firma una direzione precisa e appassionata cui si perdonano certi ammiccamenti fin troppo scoperti, soprattutto nei frequenti compiacimenti ritmici.
Positiva la prova del coro preparato da Vito Lombardi.

Meritano una considerazione le discutibili scelte editoriali: se non stupiscono più di tanto le interpolazioni abusive di brani dei balletti della versione francese, evidente concessione alle necessità del clima areniano, davvero non si comprendono le ragioni che spingono ancora oggi a falcidiare la partitura con una serie di tagli che speravamo appannaggio di un passato ormai tramontato.

Trionfale ma sbrigativa l’accoglienza del non foltissimo pubblico.

3 agosto 2016

Aida in piazza grande

San Vito al Tagliamento ospita ormai da diversi anni un appuntamento estivo con l’opera, accogliendo produzioni itineranti che non avranno forse le velleità delle realtà teatrali ma cui va riconosciuto il merito di promuovere una diffusione capillare della lirica sul territorio. Per la quattordicesima edizione di “Opera in piazza” la scelta è caduta su Aida, capolavoro assoluto di Verdi da sempre ritenuto, probabilmente più a torto che a ragione, opera perfetta per i grandi spazi all’aperto.

Difficile pretendere da simili operazioni finezze musicali o drammaturgiche che necessiterebbero di sforzi produttivi assai maggiori, tuttavia talvolta questi spettacoli dalla chiara impronta nazionalpopolare possono riservare delle sorprese inattese anche allo spettatore più prevenuto. Nel caso specifico il colpo che non ti aspetti si chiama Kristina Kolar ed è un soprano croato sulla quarantina, chiamata a sostituire la prevista Rebeka Lokar, nel ruolo eponimo. La Aida della Kolar si impone per la bellezza della voce e per la non comune morbidezza di emissione nonché per l’incisività del fraseggio. In un contesto ove tutti cedono alla tentazione di gonfiare il petto, risolvendo la gamma dinamica tra il forte e il mezzoforte, questa Aida non rinuncia al canto a fior di labbra, dimostrandosi per altro in possesso di splendide mezzevoci.

Se la cava con mestiere e con la solidità dei mezzi vocali Renzo Zulian, Radames affidabile e squillante ma poco incline alle sfumature. Non impeccabile Patrizia Patelmo, Amneris, che, soffrendo forse l’ampiezza degli spazi, tende spesso a forzare, perdendo così di saldezza della voce e pulizia della linea.
L’Amonasro di Mauro Buda è eccessivamente sopra le righe sia nella recitazione, sia nella vocalità che, pur impressionante per volume, è governata con esiti discutibili.
Shi Zong è un Ramfis fin troppo pallido e intimorito, Frano Lufi un Re corretto.

Sorprende la Sacerdotessa di Maria Vittoria Paba per la proiezione della voce.

Eddi De Nadai guida la non sempre irreprensibile Orchestra Città di Ferrara, che alterna ottimi momenti a qualche pasticcio di troppo, badando soprattutto a far tornare i conti e a sostenere il palco. Ben figura il Coro lirico del triveneto, soprattutto per quanto riguarda le voci femminili.

Encomiabile la prova della Filarmonica di San Vito al Tagliamento diretta da Simone Comisso.

L’allestimento firmato da Serenella Gragnani può essere ascritto nel novero dell’onesta tradizione, con una regia essenziale e tendenzialmente statica ma al sicuro dal rischio di immobilismo.

Le scene (siglate Fantasia in Re) riscoprono un’ennesima declinazione dell’Egitto da cartolina già raccontato da centinaia e centinaia di Aide prima di questa ma hanno, pur nella modestia dei mezzi, una loro piacevolezza. Molto belli i costumi, anch’essi a firma Fantasia in Re.

Pubblico festante e franco successo per tutti.

4 luglio 2016

Mirandolina di Martinů alla Fenice

La Mirandolina in scena al Teatro La Fenice è uno spettacolo da vedere. Senz’altro per la rarità del titolo – anche se, detto onestamente, è difficile intravedere in quest’opera paragoldoniana di Bohuslav Martinů i tratti del capolavoro – ma soprattutto perché la compagnia cui è affidata funziona in ogni sua componente.

Gianmaria Aliverta ha forse “un poco di più merto” rispetto agli altri, anzi, si potrebbe dire che i suoi meriti siano fondamentalmente due. Il primo sta nel capire che Mirandolina fatica a reggere sulle proprie gambe, non tanto nella drammaturgia quanto nella definizione dei caratteri, e necessita pertanto di una stampella che ne aiuti l’incedere. La soluzione è semplice ma vincente. Il regista ridisegna i personaggi secondo stereotipi da B-movie, così il conte d’Albafiorita diventa un coatto arricchito, il marchese di Forlimpopoli un bauscia – una sorta di “milanese imbruttito”, per parlare social – Ortensia e Dejanira sono due sgallettate di periferia. Il risultato sorprendentemente centra il bersaglio perché parla un linguaggio che è fulminante e chiaro a tutti.

Questa fauna dei sobborghi, sgradevole e volgare, fatta di burini e millantatori, incidentalmente si ritrova nella Spa di Mirandolina ove si scatena la furibonda tamarreide. Le agili scene di Massimo Checchetto sono perfette nel tracciare le coordinate e aiutano la dinamicità dello spettacolo.

La seconda carta vincente di Aliverta, si diceva, è squisitamente tecnica: il regista fa il regista, cosa non scontata nel mondo operistico, e lo fa benissimo. Ritmo, recitazione, rapporto con la musica, tutto è finemente calibrato e tutto funziona alla perfezione. Persino le uscite per gli applausi. Lo aiuta un cast che è composto da artisti che sono, ancor prima che bravi cantanti, eccellenti attori.



Non è meno efficace la regia sonora John Axelrod il quale, pur sacrificando qualcosa in termini di bellezza del suono e leggerezza, non inciampa in cali di tensione ma punta dritto a una narrazione brillante e tesissima.

Dei cantanti si è già accennato. Silvia Frigato è una protagonista di tutto rispetto, sicurissima vocalmente e capace di tenere bene il palco. Emerge per qualità del canto il bravo Leonardo Cortellazzi, Fabrizio.
Omar Montanari, cavaliere di Ripafratta, si conferma eccellente artista a tutto tondo. Il conte d’Albafiorita è un Marcello Nardis esuberante, il marchese di Forlimpopoli un irresistibile Bruno Taddia.

Centratissime la Ortensia della bella Giulia Della Peruta e la Dejanira di Laura Verrecchia. Se la cava bene anche Christian Collia, servitore.

Lo spettacolo piace al pubblico ed è giusto così.
Paolo Locatelli
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19 giugno 2016

Mario Brunello dirige la Filarmonica della Fenice

Sul fatto che suonare uno strumento e dirigere un'orchestra siano faccende diverse ci sono pochi dubbi. Per quanto eccezionali siano la sensibilità musicale e la cultura di un artista, il passaggio da un lato all'altro della barricata può presentare qualche problematicità, o quantomeno una disomogeneità di rendimento. Difficile che in entrambi i campi la maestria tecnica raggiunga il medesimo livello, tale da garantire la realizzazione dell'idea interpretativa e musicale con perfezione e forza persuasiva eguali.



Il caso di Mario Brunello, protagonista del terzo appuntamento stagionale dell'Orchestra Filarmonica della Fenice con un programma interamente schumanniano, è in tal senso emblematico. Impegnato nella doppia veste di solista e direttore, appare evidente la discrepanza degli esiti, non tanto nell'impostazione e nei propositi, quanto proprio nella compiutezza esecutiva.

L'approccio di Brunello al Concerto per violoncello sarebbe di per sé non dissimile da quello alla Prima sinfonia ma, mentre nel primo caso la solidità della tecnica strumentale gli consente di restituire un'interpretazione compatta e coerente, una volta posato l'archetto e impugnata la bacchetta (in questo caso metaforica, Brunello dirige con le mani) qualche limite nel tenere insieme i pezzi, qua e là emerge.

Come accennato, nel Concerto per violoncello e orchestra in la minore, op. 129 le cose vanno benissimo. Colpisce la cantabilità che Brunello sa trarre dallo strumento: tutto è estremamente fluido e spontaneo, gli espedienti retorici sono dosati con sapienza sicché ogni colore, ogni sfumatura trova un proprio significato all'interno del tutto. Anche i passaggi risolti con maggiore veemenza, persino i suoni sporchi, hanno una ragione in una lettura che è sì appassionata, ma mai esteriore. Allo stesso modo l'impeto del virtuosismo nel finale mantiene un'espressività che non è mai stucchevole o compiaciuta.

Brunello si pone di fronte alla Sinfonia n. 1 in si bemolle maggiore, op. 38 con la medesima passione – anche se con spirito diverso, decisamente più leggero e sereno - ma in questo caso il meccanismo si inceppa perché, pur restando invariate l'energia e la tensione già espresse nel concerto, qui non emerge un perfetto controllo della materia orchestrale. In una sostanziale correttezza, tuttavia ben lontana dalla perfezione, manca un salto di qualità nella concertazione che dia fluidità al discorso musicale e che riesca ad amalgamare con compattezza le sezioni. Né si può dire che il nitore del suono, soprattutto nei forti, e la pulizia degli attacchi, siano sempre irreprensibili. Si avverte insomma una prudenza di fondo che toglie spontaneità alla lettura e che, a tratti, lascia l'impressione di una certa artificiosità.

Certo nel complesso non mancano i bei momenti, anche perché la Filarmonica della Fenice si conferma all'altezza del grande repertorio sinfonico: alcuni colori degli archi e soprattutto le frasi dei legni nello Scherzo, paiono notevolissimi.

Inserita come bis, la Sarabanda bachiana dalla Suite n. 5 è un momento di grande suggestione e poesia.

Trionfo a fine concerto con ovazioni per tutti.

17 giugno 2016

Die Fledermaus al Verdi di Trieste

C'era una volta il glorioso Festival dell'operetta di Trieste. La sua progressiva e inesorabile dissoluzione ha senz'altro a che fare con la crisi economica che ha colpito le fondazioni liriche ma è anche, se non soprattutto, un problema di linguaggio, con buona pace degli instancabili laudatores temporis acti.



Per qualche ragione questa forma di spettacolo, che è terribilmente difficile da realizzare in modo convincente, sembra ricondurre a un mondo antico, fatto di meccanismi stereotipati e luoghi comuni, in cui il pubblico contemporaneo fatica a riconoscersi. Fatto sta che oggi l'operetta si fa molto meno che in passato e quando la si fa non richiama a teatro folle oceaniche. Non vanno diversamente le cose al Verdi di Trieste dove Die Fledermaus, ultimo titolo in cartellone per la stagione operistica, raccoglie un'affluenza, se non modesta, sicuramente al di sotto della media stagionale.

La scelta di proporre il celebre lavoro di Johann Strauss è un omaggio schietto alla tradizione cittadina, anche se l'esito della produzione si allontana in buona misura dallo spirito più autentico del genere, spostando l'asse verso una teatralità più “seria”, più operistica.

Tale proposito appare evidente innanzitutto in orchestra giacché l'impronta che Gianluigi Gelmetti dà allo spettacolo va esattamente in questa direzione. Sembra infatti che il maestro cerchi di emancipare Il Pipistrello dalla frivolezza più effimera, e soprattutto dalla necessità di far ridere a tutti i costi, puntando piuttosto verso un'ironia disincantata e malinconica. Gelmetti prende molto sul serio il lavoro straussiano, il che non si traduce affatto in seriosità o pedanteria ma in una lettura che sacrifica la vivacità esteriore in favore di un tono sorridente, vagamente crepuscolare, scelta che si rivela, a conti fatti, molto interessante.

La partitura esce ripulita dalle stratificazioni di ornamenti e vezzi, più o meno garbati, depositati dal tempo, senza che questo processo di restauro annienti la teatralità o si risolva in un atteggiamento compassato.

L'Orchestra del Verdi segue il maestro con precisione e buona qualità d'esecuzione, fatto salvo qualche limite nella brillantezza che emerge nei momenti esclusivamente strumentali (più nella non impeccabile Ouverture che nella polka Unter Donner und Blitz, abusivo ma piacevolissimo omaggio alla tradizione esecutiva).

Non si discosta dalle linee guida del podio, benché le segua con più elastica osservanza, il regista Daniel Benoin, il quale disegna un Pipistrello che è sì vivace e dinamico nella recitazione, ma che scansa – forse non del tutto ma in misura soddisfacente - quel insopportabile, volgare e frusto campionario di soluzioni che spesso mortificano il repertorio operettistico. C'è, pur nella convenzionalità dell'impostazione, una regia curata che non è travolgente ma scorrevole senz'altro e che non soffre cedimenti. Certo questo spettacolo non piacerà a chi si aspetta dall'operetta una comicità esuberante e ritmo incandescente che qui non ci sono né paiono rientrare tra i propositi del regista.

Benoin opera un innocuo e tutto sommato indovinato spostamento dell'ambientazione, trasferendo la vicenda da Vienna ai confini dell'Impero austro-ungarico, nella stessa Trieste. Il gioco riesce senza particolari forzature e giustifica il “bilinguismo” dei recitativi (l'aristocrazia parla in tedesco, la servitù in italiano), scelta dalle implicazioni sociali forse un po' pretenziose ma non insensata. Porta la sua firma anche l'efficace disegno luci.

Le scene di Jean-Pierre Laporte ben definiscono il contesto: siamo inequivocabilmente a Trieste, tra salotti pacchiani di una borghesia che ama lo sfarzo e la ricchezza ma che fatica a distinguere l'eleganza dal kitsch. Meno felici, almeno per quanto riguarda la realizzazione, paiono le proiezioni video realizzate da Paulo Correia. Belli i costumi di Nathalie Bérard-Benoin.

In un cast complessivamente convincente emerge prepotentemente Mihaela Marcu. Il soprano rumeno dà vita a una magnifica Rosalinde in cui verve, carattere e bellezza del canto si coniugano ad alto livello. La voce ha ormai un medium corposo e brunito che riempie la sala mentre il registro acuto si espande con facilità quasi insolente. L'attrice non vale meno della cantante e domina il palco con disinvoltura e personalità.

Christoph Strehl, Eisenstein, ha timbro non indimenticabile e tende a forzare al di sopra del passaggio ma compensa i limiti vocali con un'apprezzabile caratterizzazione del personaggio. Convince la Adele di Lina Johnson, sufficientemente spigliata sulla scena e corretta nel canto.

Merto Sungu è una piacevolissima sorpresa: il suo è un Alfred da tenore di classe, sempre morbido e sorvegliato nell'emissione. Il dottor Falke di Zoltan Nagy trova la giusta misura nel coniugare la precisione del canto a una recitazione all'altezza della situazione. Manca un briciolo di temperamento e peso vocale a Daniela Baňasová per convincere pienamente nei panni del Principe Orlofsky, soprattutto nei Couplets. Brillante la prova di Horst Lamnek, Frank dalla vocalità solida e dalla presenza autorevole.

C'è una strizzata d'occhio un po' ruffiana alla tradizione cittadina nella scelta di risolvere la parte di Frosch in dialetto, non di meno Fulvio Falzarano si conferma eccellente attore in possesso di invidiabili tempi comici. Simonetta Cavalli ben si comporta nei panni di Ida così come si fa apprezzare l'avvocato Blind del bravo Andrea Binetti.

Positiva la prova del coro del Verdi preparato da Fulvio Fogliazza.

Calorosa l'accoglienza del pubblico a fine recita per tutta la compagnia.


31 maggio 2016

L’Amico Fritz di Mascagni al Teatro La Fenice

L’Amico Fritz non è opera dalle grandi finezze psicologiche e drammaturgiche: tutto è facile facile, di un’immediatezza che a tratti sconfina nella banalità e che, probabilmente, al pubblico odierno ha poco da dire. Applicare in blocco questa sensibilità remota e distante, senza porsi il problema di rinfrescarne i tratti o cercare una chiave di lettura che la renda più facilmente digeribile, è una prassi che difficilmente renderà il lavoro di Mascagni più popolare e “invitante”.

Tutte queste questioni non sembrano sfiorare minimamente Simona Marchini, regista dello spettacolo in scena al Teatro La Fenice. Ne esce l’ennesimo Fritz da cartolina, coloratissimo nella confezione ma dalle emozioni in bianco e nero, stereotipato e manierato nella cornice e nei contenuti.
Anziché cercare di sfumare i contorni ridefinendo questi personaggi tutti cuore e buoni sentimenti con un taglio più moderno, la Marchini esalta la dimensione idilliaca e arcadica dell’opera, rendendo il quadro ancor più ingenuo di quanto non sia già. La recitazione poi, ridotta al minimo indispensabile, è convenzionale e completamente slegata dalla musica e tende, non di rado, a scivolare nella caricatura. Nella piattezza generale emerge qualche momento di comicità involontaria.
Il bozzettismo delle scene di Massimo Checchetto, non ispiratissimo, è funzionale all’impostazione. Da dimenticare i costumi di Carlos Tieppo.



Se lo spettacolo regge il merito va soprattutto all’esperto Fabrizio Maria Carminati, il quale concerta con mestiere e ammirevole senso del teatro. Non ci sono particolari finezze né una ricerca di suoni ammalianti ma tanta concretezza: il palco è sostenuto con attenzione, la narrazione procede serrata e senza cali di tensione. Carminati ci crede e non teme di sporcarsi le mani con qualche sonorità ruvida e sfuocata, che ci scappa ma trova un suo senso nel disegno generale. L’Intermezzo che introduce il terzo atto, ad esempio, non esce come un prodigio di raffinatezze musicali ma è pervaso di una sincerità che conquista il pubblico. L’Orchestra della Fenice lo asseconda al meglio.

Se la cava complessivamente bene il cast, pur con qualche riserva. Alessandro Scotto Di Luzio è un Fritz dal timbro accattivante e di bella presenza. Carmela Remigio è la grande musicista e fraseggiatrice che conosciamo ma probabilmente non trova in Suzel il terreno migliore per mettere in luce le proprie doti. Non irreprensibile nel canto ma ben calato nel personaggio Elia Fabbian, David.

Teresa Jervolino si disimpegna con onore nei panni di Beppe. Convincono William Corrò, Hanezò, il Federico del giovane Alessio Zanetti (al debutto, bravo!) e la Caterina di Anna Bordignon.
Ineccepibili gli interventi del coro della Fenice preparato da Claudio Marino Moretti.

Merita un elogio il bravo Roberto Baraldi, primo violino, eccellente protagonista nel solo del primo atto e giustamente festeggiato da pubblico e colleghi.