21 novembre 2021

Un Fidelio grigiastro inaugura la stagione della Fenice

Difficile immaginare una concretezza più impalpabile di quella che Joan Anton Rechi favoleggia nelle note di sala presentando il Fidelio che inaugura la stagione operistica del Teatro La Fenice. D’altronde se fosse semplice passare dalla teoria alla pratica faremmo tutti i registi, no? Si parla di libertà, di amore coniugale, di una fantomatica ambientazione sivigliana, tutte cose buone e giuste che però sul palco si intravedono appena o che restano dietro le quinte. Non fosse per la cornice di Gabriel Insignares, che è la più classica delle scenografie aspecifiche buone per tutte le stagioni, e quindi per nove decimi di repertorio, si assisterebbe a un tradizionalissimo Fidelio, ordinario nell’impostazione quanto nella recitazione.

Il primo atto gravita intorno a una grossa testa di statua rotante che sul finale svela l’ingresso alle segrete, il secondo a una serie di elementi circolari concentrici che vorrebbero richiamare la struttura cunicolare delle segrete stesse. La semplicità delle scene sarebbe ininfluente se l’azione mostrasse qualche guizzo di ingegno o fantasia, invece si limita al classico campionario di gesti teatrali ormai entrati per abitudine e stanchezza in quel vocabolario della regia d’opera che sarebbe ora di archiviare definitivamente. Un paio di esempi per chiarire il punto: che Leonore si disveli levandosi il cappello è una soluzione tanto prevedibile quanto vecchia e risibile e lo sono forse ancor di più gli applausi al rallentatore mimati dal coro nel tripudio che chiude l’opera.

Purtroppo non c’è molto altro da dire, se non che i costumi di Sebastian Ellrich sono particolarmente brutti e che il disegno luci di Fabio Barettin non riesce a valorizzare un quadro complessivamente troppo povero.


Lo stesso Myung-Whun Chung, che nel teatro veneziano è stato protagonista di serate indimenticabili, pare più compassato che mai, quasi non riuscisse a trascinarsi dietro l’orchestra nelle sue solite alchimie timbriche e nelle modulazioni dinamiche, inspiegabilmente appiattite fin dalla Leonore III ficcata a inizio spettacolo al posto dell’ouverture canonizzata. Per quanto si apprezzi la scelta di sgrassare l’opera dalle sedimentazioni tardoromantiche, dai turgori e dalle lentezze esasperanti, in modo da ricondurla alle sue radici classiche, la direzione sembra arenarsi in un limbo di rinunce. Da un lato quella ad assecondare le tinte fosche e drammatiche dell’orchestrazione, d’altro canto non riesce nemmeno a collocarsi sull’estremo opposto della trasparenza analitica, o quantomeno della leggerezza cameristica, da cui la separa un’opacità di fondo del suono orchestrale.

Quanto al cast, c’è una protagonista, Tamara Wilson, che ha tutte le note della parte e un solido controllo tecnico, ed è già dir molto, ma che fatica a costruire un personaggio realmente credibile. Il Florestan di Ian Koziara è un clamoroso errore di distribuzione. Scritturare un tenore scuro, dal canto muscolare e “di gola”, per una parte che insiste sul passaggio è il classico disastro annunciato che puntualmente si concretizza nella scena che apre il second’atto, in cui Koziara finisce per sputare i polmoni.

Tilmann Rönnebeck è un Rocco bonario e corretto, mentre Oliver Zwarg risolve Pizzarro più di temperamento che “di canto”. È viceversa ottima la coppia dei giovani, formata da una Ekaterina Bakanova che si conferma musicista e attrice di gran classe e da Leonardo Cortellazzi, Jaquino dallo strumento spavaldo e squillante.

È positivo anche il contributo di Bongani Justice Kubheka, Don Fernando, mentre pare stranamente incolore la prova del coro preparato da Claudio Marino Moretti, cui si aggiungono i due prigionieri solisti Dionigi D’Ostuni e Antonio Casagrande.

Buon successo per tutta la compagnia a fine recita, con picchi di entusiasmo alle uscite di Tamara Wilson e del maestro Chung.

8 novembre 2021

Il caso Webern

Chi è cresciuto in provincia ha ascoltato da nonni e genitori i racconti degli sviluppi collaterali della guerra, in una periferia remota in cui tentacoli della politica e la giustizia arrivavano a singhiozzo e spesso i disordini civili davano la stura a regolamenti di conti privati o crimini abietti di ogni sorta. Accadimenti che sono rimasti spesso irrisolti, impuniti o nascosti da una coltre di omertà collettiva. Anton Webern morì il 15 settembre del 1945 in un posto del genere, Mittersill, un paesello del Tirolo austriaco, con tutta probabilità per un errore del suo giustiziere, un soldato americano. È ragionevolmente certo che costui fosse coinvolto in un’imboscata al genero del compositore, Brenno Mattel, un personaggio ambiguo dai trascorsi nel partito nazista che sul finire del conflitto si era dato al traffico di dollari per arrotondare illegalmente. Ne esitò un malinteso, forse uno scambio di persona, che fu fatale a Webern, freddato da tre colpi di pistola.



Dario Olivieri nel suo “Il caso Webern. Ricostruzione di un delitto” (Edizioni Curci) ripercorre la vicenda, partendo dalle ultime ore per andare poi a ritroso, sulla scorta di un lavoro di ricerca iniziato negli anni ‘90 per la realizzazione di un documentario.

Probabilmente un vero e proprio caso Webern non esiste. Almeno, non per come lo si può intendere, insomma non intorno alla morte, la cui dinamica è grossomodo accertata. C’è invece un contesto sociale e culturale, si potrebbe dire anche storico, che vale la pena di ricostruire per farsi un’idea più chiara della biografia del compositore e del clima che si respirava in Europa in quegli anni. Il libro è un pretesto per allargare la visione su di un’epoca e una storia non prive di angoli reconditi e dissipare un briciolo dell’oscurità che aleggia ancora sugli eventi più tragici del secolo scorso.

4 novembre 2021

Poschner e Skride aprono la stagione udinese

Scorrendo il programma di sala del concerto che ha aperto la venticinquesima stagione sinfonica del Giovanni da Udine, la curiosità cadeva sull’annuncio della nuova edizione critica della Quinta di Čajkovski a cura di Christoph Flamm, scelta che oltre a perseguire la massima fedeltà possibile alle intenzioni del compositore sottende una dichiarazione d'intenti: dare una sferzata alla sua storia esecutiva. Come? Riportando l'asse, che la tradizione ha spinto passo dopo passo verso la “monumentalità”, a un intimismo cameristico in cui l'espressione del dettaglio prevalga sull'impeto dell'insieme. Si potrebbe malignare che in tempi di distanziamento, con conseguenti sfoltimenti d'organico, la mossa sia strategica per giustificare qualche sfrondata alla massa orchestrale, non fosse che l'Orchestra della Svizzera Italiana schierata sul palco del teatro udinese è tutto fuorché sparuta. Il che dissipa ogni dubbio sulla genuinità delle intenzioni del maestro Markus Poschner, che trovano poi riscontro anche nella pratica stessa .

Non che il suo sia un Čajkovski “in piccolo”, anzi, è solo un po’ smagrito nel suono e ribilanciato a favore dei fiati, in modo che gli archi non si prendano la scena con quella tipica iper-espressività “cuore in mano” da tardoromanticismo russo. Quel che si ascolta è dunque una Sinfonia n. 5 in Mi minore op. 64 incalzante e analitica, dipanata su tempi tendenzialmente più svelti di quanto consolidato nella tradizione e asciugata di drammaticità e patetismo.

Che Poschner sia direttore incline alla sfumatura e alla concertazione in sottrazione lo si capisce sin dall’inizio di concerto, con Blumine, il brano apolide di Mahler rimasto senza casa dopo l’espunzione dalla stesura originale della Prima sinfonia, quando ancora aveva il proposito di essere un poema sinfonico.

Pare insomma il genere di maestro che riuscirebbe a condurre un porto qualsiasi nave. Fuor di metafora: dategli un'orchestra e saprà cavarne qualcosa di buono. Lo si evince dalla cura nella concertazione degli equilibri e soprattutto dei volumi, tenuti sempre verso il soffuso in favore di chiarezza. Il che a tratti eccede nell'estremo opposto, in un’attenzione alla singola cellula che va a inficiare il senso complessivo, o meglio, a rapsodizzare la scrittura in tanti piccoli frammenti che si avvicendano. È come se certe frasi iniziassero e morissero da sole, enucleate dal flusso musicale, un tratto che balza all’orecchio soprattutto in Čajkovski.

Nella prima parte di concerto Poschner accompagna Baiba Skride nel Concerto per violino di Korngold, offrendo un buon servizio alla solista, meno all’orchestrazione, che è forse il dato più interessante dell’opera per le sue peculiari alchimie, tant’è che si coglie anche qualche sbilanciamento nel dialogo con la violinista. Lei ha infatti gran tecnica e estrae dal suo Stradivari un suono di impagabile bellezza e omogeneità, e sa altresì evitare quel fraseggiare melenso che la scrittura facilmente sollecita, ma sconta una pecca comune agli strumenti di questa famiglia: la piccolezza del suono, che fatica terribilmente a superare l’ampia orchestra.

Calorosissimo successo per lei e, a fine concerto, per l’orchestra, che saluta con l’Ouverture dal Barbiere di Siviglia.

18 ottobre 2021

Note su note: la Seconda definitiva di Blomstedt

Nel pantheon dei “grandi vecchi” del podio, affollato di giganti dalle personalità più diverse, Herbert Blomstedt fa storia a sé. Nato nel Massachusetts da genitori svedesi, europeo per radici e formazione, ha rappresentato per decenni il prototipo della bacchetta “all’americana” capace di macinare repertorio di ogni genere, preparare solidamente un’orchestra e reggerne con autorità le sorti. Un routiner di lusso, si sarebbe detto, semplificando e mancando di rispetto a una sensibilità musicale d’eccezione. E soprattutto sbagliando, perché quello che l’ormai novantatreenne Blomstedt è stato capace di raggiungere negli ultimi lustri di una carriera tutt’ora gloriosamente in corso ha del prodigioso. Chi non ci crede provi a confrontare i due cicli delle sinfonie di Beethoven, il primo inciso con la Staatskapelle Dresden negli anni ‘80, l’ultimo una manciata d’anni fa con la Gewandhausorchester. Li separa un abisso.

Non manca della grandezza di un musicista giunto all’estrema maturazione questa Seconda di Brahms registrata per Pentatone, che segue una Prima pubblicata pochi mesi fa e si spera preceda le due restanti. Un Brahms sorgivo e spontaneo, ora pennellato con tenerezza, ora infiammato dall’entusiasmo di un ragazzino-novantenne capace di vivificare il discorso musicale senza sofisticarlo inutilmente. Non c’è prosopopea ma autentica sostanza in questo Brahms, impreziosita da una densità di colore che, pur intenso, non diviene mai melmoso.





1 ottobre 2021

Il quarto atto di Rigoletto

Nella Parigi in cui Victor Hugo abbozzava Le roi s'amuse, s’era da poco spento Philippe Pinel, uno dei padri della psichiatria moderna, colui che per primo descrisse quella condizione di aliénation psicotica scatenata da eventi traumatici o luttuosi. Andando a ritroso con il gusto di giocare con le nostre radici culturali, si può ricondurre ad allora il battito d’ali di farfalla che ha generato il Rigoletto-uragano di Damiano Michieletto, che da Amsterdam è sbarcato al Teatro La Fenice con un paio d’anni di giustificato ritardo.


Uno spettacolo forte e polarizzante che si sviluppa come flashback di un protagonista sconnesso dalla realtà, costretto tra le mura di un ospedale psichiatrico dopo aver cagionato la morte della figlia. In questo limbo fisico e mentale, lo divora un delirio in cui si mescolano frammenti di vissuto a incubi, spettri e proiezioni su quel poco di personale che si prende cura di lui. Una prigione senza vie di fuga ma spalancata ad allucinazioni che non hanno quasi mai un volto, se non quello replicato all’infinito del Duca, il quale tormenta ossessivamente Rigoletto rinfocolando il dolore della perdita e il senso di colpa, in un eterno, straziante presente che si nutre dei traumi del passato.

Quello di cui si racconta è uno spettacolo di eccellente realizzazione, con tante buone idee, alcune delle quali brillantissime quando non illuminanti, ma anche un po’ furbetto. In fondo sotto all’ombrello della psicosi, e quindi della fantasia più sfrenata e irrazionale, è facile celare una comoda via di fuga da ogni quadratura drammaturgica e rendere accettabile qualsivoglia forzatura o conto aperto col libretto. È altresì vero che al “concetto”, debole o solidissimo che sia, devono seguire i fatti, e sotto questo punto di vista Michieletto è una macchina da guerra.

Qui una regia c’è e si vede, ed è una regia di gran livello. L’azione è sempre perfettamente coordinata, non ci sono buchi o cali di tensione nel ritmo e l’inventiva nelle soluzioni sceniche è più rigogliosa che mai. Ci mettono il carico il solito, impagabile, Paolo Fantin (scene, che sono meravigliose), Agostino Cavalca, che disegna i costumi, e Alessandro Carletti alle luci.

Tuttavia, a voler spaccare il capello in quattro, c’è un po’ di michielettismo di maniera anche in questo lavoro, con il ricorso a molti dei riempitivi ricorrenti del suo modo di fare teatro (coriandoli luccicanti, terra e sangue colante, nevrosi alla rinfusa nei momenti in cui c’è da caricare di patetismo la recitazione, simboloni “grandi così” a mo’ di spiegone per il pubblico più svanito) che hanno il difetto di spingersi sempre un passo più in là del necessario, tracimando nel didascalico o nella ridondanza. Le proiezioni realizzate da Rocafilm, che per l’intera durata dell’opera ricordano l’infanzia di una Gilda costretta controvoglia agli arresti domiciliari per scampare al mondo brutto e cattivo, entrano in questo scatolone del “too much”.


Non meno netta ed estrema, e dunque divisiva, è la regia musicale. Daniele Callegari fa piazza pulita della tradizione, e probabilmente è un bene, anche se non manca qualche “però”. Niente puntature, corone, alternative spurie, nessuna coccola all’abitudine di pubblico e interpreti né tempi “comodi” su cui adagiarsi, ma una fedeltà al testo rigorosa, financo nelle indicazioni metronomiche. Il risultato è una narrazione implacabile e anti-consolatoria, soprattutto nei momenti di maggiore concitazione o in cui l'azione accelera. Dall'altro lato la scansione stretta e inflessibile del battito mette alla frusta i solisti quando necessiterebbero di un più ampio spazio di manovra per dare sviluppo e legato alle frasi, o semplicemente per prendere fiato senza annaspare, cioè nei passaggi più distesi (Veglia, o donna, Caro nome, Tutte le feste al tempio). Non sembra invece soffrire l’anticonformismo delle indicazioni l’Orchestra della Fenice che segue il podio alla perfezione anche negli stacchi più arditi, senza mai perdere di precisione e compattezza.

Nel ruolo del titolo, Luca Salsi è ormai uno degli interpreti più accreditati a livello internazionale e se ne comprendono le ragioni. La voce ha maturato un’ampiezza di volume che pure il baritono sa modulare in un canto chiaroscurato e molto, forse iper-espressivo, che esita in momenti di grande suggestione o persino rivelatori, come quell’ “è follia” a chiudere il primo monologo attaccato in pianissimo. C'è di contro un'enfasi nello scolpire la parola che col passare degli atti si fa sempre più estrema, fino a rasentare un declamato quasi prosaico, vizio che nulla aggiunge all'interpretazione ma molto le toglie, sporcando una linea che si gioverebbe di un maggiore contegno.

Buonissima la prova di Claudia Pavone, che ha timbro luminoso e ottime intenzioni nel cesellare sia i colori, sia la dinamica, sia la recitazione stessa. Ne emerge una Gilda cresciuta e ormai emancipata, che guarda al padre se non con rabbia, con il disincanto di una figlia che ha pietà dei suoi errori e delle sue fragilità.

Ivan Ayon Rivas è un Duca di Mantova giovanile e insolente, di bellissimo timbro e gran disinvoltura scenica e tecnica.

Soffre un po’ nel duetto del primo atto Mattia Denti, Sparafucile, mentre Valeria Girardello è una Maddalena tanto misurata nel canto quanto esuberante nella caratterizzazione. Non è privo di ruvida efficacia Gianfranco Montresor, Monterone cui la regia riserva particolare attenzione ponendolo a specchio di fronte al protagonista, così come è positivo il contributo di Carlotta Vichi nei panni di Giovanna.

All’altezza dell’appuntamento l'apporto delle tante parti di fianco: Armando Gabba (Marullo), Marcello Nardis (Matteo Borsa), Matteo Ferrara e Rosanna Lo Greco, rispettivamente Conte di Ceprano e consorte, Emanuele Pedrini (usciere) e il paggio di Sabrina Mazzamuto.

Il coro di casa preparato dal solito Claudio Marino Moretti sembra non patire i mesi di lontananza dalle scene e riprende da dove aveva lasciato, senza abbassare l’asticella della qualità.


A fine recita è trionfo per tutta la compagnia.

26 settembre 2021

Double Wang

Come gli altri massimi esponenti del pianismo per così dire “internazionalizzato” che è andato imponendosi negli ultimi decenni, Yuja Wang sta bene in ogni vestito. Metaforicamente parlando, sia chiaro, le divagazioni circa i suoi cambi di outfit su cui si sono spesi fiumi di inchiostro al pubblico dei concerti interessano il giusto, cioè molto poco. È invece ben altrimenti interessante osservarla balzare di repertorio in repertorio, mutando di stile com’è ormai scontato, ma senza perdere l’identità che la definisce. Così se l’abito-Bach (Concerto n. 5 in fa minore BWV 1056) se lo cuce addosso senza asciugare troppo l'espressività ⎼ tratto appunto comune a questo filone di musicisti contemporanei, che pur consapevoli della lezione filologica non rinunciano a prendersi qualche libertà nell’avvicinare i compositori più antichi, senza fingere che nel mezzo non ci sia stato l’Ottocento con le sue rivoluzioni ⎼ anche il Šostakóvič del Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra in fa maggiore op. 102 ha un'impronta più ibrida e "globalizzata", in sostanza più facilmente esportabile in modo da ingraziarsi ogni palato. È per certi versi addolcito e solare, poco disturbante e poco "sporco", ma suonato divinamente.

©JuliaWesely


Wang incarna infatti un pianismo prodigioso per controllo, sia del suono che di fraseggio e dinamiche, ha mani leggere e, come si arguisce al solo osservarne l’aspetto gracile, si gioca le sue carte migliori nei piani e pianissimi, controllati quasi senza affondare le dita nei tasti, piuttosto che nei passaggi di forza che sono sì brillanti, ma difettano di un briciolo di muscolatura. O meglio, ne difettano in una situazione in cui la direzione è nominalmente affidata alla pianista stessa, ma nei fatti la agisce in delega la spalla della Mahler Chamber Orchestra, Matthew Truscott, che chiaramente dal primo leggio può solo dare qualche attacco o aggiustare il tiro con un cenno del capo laddove qualcuno perda l’orientamento, ma certo non bilanciare i volumi, che non sono sempre favorevoli alla pianista. Tecnica a parte, in Wang c'è anche una consapevolezza assoluta dello sviluppo musicale, che pare sì computerizzato, tanto è perfettamente misurato, ma non al punto da risultare algido o distaccato. Le frasi di sortita dell'Andante ad esempio, oltre alla purezza miracolosa del tocco, sono articolate con una libertà ritmica e dinamica in cui è davvero difficile non riconoscere l'intelligenza musicale della grande artista, indipendentemente dai gusti individuali. È un modo di suonare fortemente improntato al virtuosismo non privo di detrattori, le cui ragioni sono intuibili ma difficilmente oggettivabili. Che si possa ravvisare in questo “gusto” un velo di freddezza è lecito come ogni punto di vista soggettivo, tuttavia è difficile non restare stregati di fronte a cotanta onnipotenza tecnica.

I minimi problemi di concertazione che appesantiscono il concerto di Šostakóvič non si palesano nella Sinfonia n. 31 in re maggiore di Haydn, né tantomeno nell'Ottetto per strumenti a fiato di Igor Stravinskij, replicati pari pari nei due concerti in serie che ormai sono diventati l’abitudine nella stagione estiva del Teatro Nuovo Giovanni da Udine.

La prima, condotta dallo stesso Truscott, chiaramente non può essere illuminata dalla zampata di una bacchetta terza, ma è perfettamente dipanata e suonata, nell'accezione più nobile del termine. Un Haydn senza sottotesti, limpido e vivace, oltre che ineccepibile dal punto di vista strumentale. L’Ottetto mette in vetrina un ensemble di fiati di prim'ordine che enfatizza l'impronta neoclassica del lavoro, piuttosto che avventurarsi nelle sue arditezze jazzistiche, ma non per questo lo priva di spirito e giocosità.

Il teatro, decisamente più gremito nel secondo concerto, saluta trionfalmente Yuja Wang, cordialmente tutti gli altri.

15 settembre 2021

Doppietta di Valerij Gergiev

Tra i maggiori beneficiari dei due concerti che Valerij Gergiev e “i suoi” del Mariinskij hanno dato al Giovanni da Udine ci siamo noi che abbiamo avuto la fortuna di ascoltarli entrambi, uno dopo l’altro. Non tanto perché ci è stato risparmiato il cruccio di scegliere a scatola chiusa tra una Grande che si è poi rivelata trascendentale e un’Italiana più ordinaria, ma per avere potuto ammirare a poche ore di distanza gli stessi musicisti nella stessa pagina: una breve suite del Romeo e Giulietta di Prokof’ev. Solamente quattro brani del balletto in realtà, che direttore e orchestra suonano insieme da decenni e conoscono a menadito, cosa che non li tenta nemmeno per un attimo di adagiarsi sulla comoda routine. Lo prova il fatto che tra la prima esecuzione - più limpida e per certi versi distesa, al punto che il durante le Maschere il direttore si trova a dare qualche gomitata mancina per ringalluzzire gli archi - e la seconda, incalzante e nervosa, le differenze non si contano: nei tempi, nel carattere, nei volumi. Gergiev non è insomma il tipo di direttore che attacca il pilota automatico e aspetta la fine, ma vive la pagina lì per lì, in preda a una sorta di enthousiasmós, o semplicemente abbandonandosi all’istinto.


Dello Schubert s’è già detto tutto con un solo aggettivo. Provando ad andare oltre la laconicità, c’è da raccontare di un’interpretazione sorprendente e imprevedibile, a tratti rivelatrice, che palpita dall’attacco agli accordi conclusivi. Certo alcuni potranno preferire un approccio più sobrio e analitico all’espressività brada di Gergiev, che pare trasformare l’Andante in una danza infernale che s’avvita su se stessa, con tanto di fiati che s’alzano in piedi sul finale di movimento ad aggredire a pieni polmoni le rispettive parti. Non è dunque uno Schubert pudico o “perbene”, quello di Gergiev, ma estremo, coloratissimo e delirante, a tratti in preda ai furori, a tratti straniante. 

Eppure il suo non è il radicalismo musicale di chi vuole stupire a tutti i costi o trovare nell’eccentricità la propria ragion d’essere, ma procede piuttosto assecondando un’urgenza narrativa che non perde coerenza nemmeno negli sviluppi più audaci: dal terzo movimento in avanti il susseguirsi di temi e intrecci è impastato con tale audacia da rasentare la trasfigurazione in una “Grande Symphonie fantastique”.

Confesso di non aver trovato altrettanto illuminante il Mendelssohn della Sinfonia n. 4 in la maggiore del concerto delle 21, l’Italiana appunto, forse troppo lontano dalla sensibilità del maestro, forse dalla mia. È sì suonato divinamente, e ci mancherebbe, pennellato a colori accesi che vanno ora addensandosi, ora sfumando, ma anche per certi versi rapsodico, quasi mancasse la reductio ad unum dei frammenti o la volontà di allontanare l’obiettivo dai tanti dettagli timbrici per catturarli in una visione allargata. Certo non difetta l’energia, anzi, il Saltarello pare una cavalcata a perdifiato nelle steppe, ma quale sia l’identità di questo Mendelssohn, oltre alla pregevolissima fattura, non saprei dirlo.

Meritano una menzione i due bis. Il primo concerto si chiude con un’Ouverture dal Pipistrello di Strauss tra le più folli che si siano mai ascoltate, una corsa danzante che va stringendosi con tale forsennatezza da suscitare l’ilarità stupita dei violinisti stessi e l’esplosione, si potrebbe dire programmata, del pubblico. A Mendelssohn invece fa seguito un finale dell’Uccello di fuoco da togliere il fiato. Basti questo dettaglio: nel passaggio dalla Berceuse alla chiusa vera e propria il suono orchestrale si fa talmente piccolo e immobile che sembra arrivare da qualche angolo remoto del teatro, come l’orchestra lo stesse mimando in playback sopra un’omologa nascosta dietro le quinte. Prodigioso.

15 luglio 2021

Riccardo Muti dirige Schubert

Com’è la Grande in do maggiore di Riccardo Muti? Lenta, molto lenta almeno per tre quarti della sua durata, solenne e severa, a tratti crepuscolare, a tratti quasi lugubre. Il suono è tanto e, manco a dirlo, tirato a lucido come ci si aspetta da un grande artigiano del podio, pur nell’imponenza dei volumi. Ma è soprattutto sapientemente concertata, sicché il pregio più caratterizzante, quello davvero balza all’orecchio, è la chiarezza costruttiva, l’intelligibilità dell’intelligenza creatrice in ogni sua diramazione. Anche all’apice della concitazione – perché questo Schubert è denso, sia nell’organico che nell’espressione sonora – ogni linea resta in vista, talvolta esposta con un pizzico di compiacimento. Però è una Grande senza umore. È suonata, celebrata a messa, venerata e presa tremendamente sul serio.


In un’intervista di qualche giorno fa, Muti affermava che la musica è rapimento anziché comprensione. È una posizione per certi versi condivisibile, la cui sincerità ben si comprende ascoltandolo all’opera. Perché in questo Schubert non c’è e non vuole assolutamente esserci un significato, un messaggio che trascenda la pregevolissima esecuzione strumentale.

L’obiezione è la seguente. La musica è sì indescrivibile a parole, ma per qualche oscura ragione può suggerire moti dell’animo condivisi tra chi li produce e chi li ascolta, siano essi di gioia, tristezza, estasi, ironia, paura, serenità e via andando.

Muti non sembra cercare, se non marginalmente, questa dimensione allusiva, ma persegue piuttosto una quadratura strumentale ostensiva il cui fine ultimo è il “Bello”. Bel suono, bell’equilibrio, belle proporzioni architettoniche. Pare esibirsi nella produzione e nell’ammirazione estatica di un manufatto che volta per volta viene scolpito nel marmo, a gloria dell’autore e, incidentalmente, per il piacere edonistico del pubblico. È uno Schubert insomma avulso dal tempo, che assomiglia molto a quello che si suonava ieri ma che probabilmente andrà bene anche domani o dopo. Uno Schubert poco problematico, che non svela niente di recondito, se non della sapienza orchestratrice del compositore.

Ciò detto, lo si ammira in silenzio, perché Muti conosce il mestiere. La concertazione è quadratissima, la direzione vera e propria inappuntabile e l’orchestra, la sua Cherubini, sa seguirlo al millimetro, mostrando anche una buona qualità complessiva, soprattutto tra i legni.

Una chiosa finale. È curioso che si celebri un anniversario di nozze escludendo uno dei festeggiati. Riccardo Muti debuttò sul podio dell’orchestra della Fenice cinquantun'anni fa, poi vi tornò per una manciata di appuntamenti, ultimo dei quali la riapertura del teatro dopo l’incendio. Il concerto di cui si racconta vorrebbe celebrare le nozze d’oro tra direttore e teatro veneziano. Però il teatro non è solo un edificio, ma un ecosistema di cui le maestranze sono il polmone. Forse avrebbero meritato di essere coinvolte nell’appuntamento, senza nulla togliere all’ottima Cherubini.

A fine concerto è trionfo personale per Muti, che sa ingraziarsi ulteriormente il pubblico con qualche battuta da consumato intrattenitore prima di salutarlo con una Sinfonia di Norma decisamente esuberante proposta come bis.

14 luglio 2021

Martha Argerich e Charles Dutoit di nuovo insieme

Ci sono concerti che sono più di un semplice concerto e musicisti che sono più di semplici musicisti, perché si portano dietro una storia. Trionfi, tribolazioni, incontri e scontri con artisti più o meno grandi, tradizioni e innovazioni, talvolta rivoluzioni. È come se nel corso di una carriera lunga una vita avessero accumulato su di sé, strato dopo strato, una tal carica di amore dato e ricevuto che di fronte a un pubblico si estrinseca come energia carismatica.

Per questo dare conto di una performance di Martha Argerich con la speranza di aggiungere qualche spunto interessante alle centinaia di cronache che negli ultimi decenni hanno raccontato una delle artiste iconiche del pianismo contemporaneo sarebbe presuntuoso. Probabilmente ne uscirebbe un elenco di superlativi, per una volta non abusati, a condire banalità, luoghi comuni e motti di stupore di fronte al talento sconfinato di una virtuosa che, a dispetto dell'età, non ha perduto un'unghia della grazia e dell’agilità sulla tastiera. Ma Argerich ormai è qualcosa in più. È l'incarnazione umana della libertà che ha sempre infuso nella musica, è una donna senza maschere o pose, né musicali, né di attitudine. Martha Argerich è così pragmatica e sincera nell’esternare il proprio animo che, non fosse per il rispetto che le si ascolta mettere al servizio dell'arte, parrebbe rasentare il cinismo. Sembra trattenere a fatica una spontaneità quasi infantile, che conquista definitivamente quando decide di trascinarsi dietro le quinte l'intera orchestra per sedare un applauso che pare interminabile, perché si è fatta una certa e lei deve andare a cena, che alle 21 si replica il Concerto n. 3 in do maggiore op. 26 per pianoforte e orchestra di Prokof’ev.

Infatti la soluzione del Giovanni da Udine al contingentamento dei posti è la più semplice ed efficace: doppio concerto, uno dopo l'altro. Ottimo per il pubblico, forse non altrettanto per i musicisti che debbono farsi carico di un programma bello pesante a ciclo continuo.

Musicisti capeggiati da un grande vecchio della professione, anch’egli di ritorno, come Argerich stessa, sul palco del teatro udinese. Look da star del rock ‘n’ roll invecchiata, di quelle che nella terza età si ritirano nell’esilio dorato di Las Vegas, con la sua bella chioma corvina impomatata e un savoir faire da uomo di mondo, Charles Dutoit nel corso delle sue quasi ottantacinque primavere non si è mai dimenticato di essere un entusiasta e ancora effonde una freschezza di gesto (d'una chiarezza esemplare, tra l'altro) e spirito da fare invidia. Lui e Martha Argerich suonano insieme da oltre sessant'anni e per un certo periodo sono stati una coppia anche nella vita. Ecco perché ci sono concerti che sono più di un concerto. Perché i due, quando fanno musica uno accanto all’altro, non producono solo delle meravigliose combinazioni di note, raccontano una vita, la storia dell’intesa di due caratteri complementari che si spalleggiano e spronano a vicenda. Schiva e introversa lei, solare e assertivo lui. Che si sa, è anche un gran direttore, magari non di quelli che sorprendono per vivacità e imprevedibilità d'invenzione, ma inappuntabili nello standard esecutivo. Si trascina dietro la Orkester Slovenske Filharmonije nei Jeu de cartes, che pur nella sostanziale pulizia e correttezza mancano un po’ di reattività, mentre sale in cattedra in una Suite dall’Uccello di fuoco, purtroppo abbastanza scorciata, che sciorina e pennella a memoria. Come si diceva, a differenza di Martha Argerich non ha nelle sue corde quella fantasia spiazzante di chi sembra sia sempre pronto a lanciarsi nel vuoto, ma è un concertatore sapiente e tiene ancora ben salde le redini di un’orchestra, calibrandone equilibri e colori con la disinvoltura del grande maestro.

Trionfo per tutti, osanna interminabili per la pianista.

28 giugno 2021

La Fenice riapre con Faust: anche all'Inferno si sonnecchia

La buona notizia è che siamo vivi, si potrebbe dire. Vivi ma non al massimo della forma, per quella toccherà aspettare ancora qualche tempo. Il Faust prima programmato, poi riprogrammato e ancora rinviato dal Teatro la Fenice, che finalmente alza il sipario dopo le montagne russe degli ultimi mesi, ha un indiscutibile valore simbolico perché segna di fatto un reboot del sistema, eppure, scava scava, non è niente di indimenticabile.

Certo, c'è del lavoro e lo si vede, sia nell'organizzazione della recitazione che in quella di una buca insolitamente distribuita di sbieco, così che Frédéric Chaslin, spalle alla barcaccia, possa dirigere assieme all'orchestra i cantanti che si muovono un po' alla sua destra, in palcoscenico, e un po' – anzi soprattutto – nella platea vuota a manca. Il motivo non è di immediata comprensione, fatto sta che la soluzione non produce meraviglie, né sceniche, né acustiche.


Chaslin è sì un buon mestierante, che conosce a menadito la materia e sa fare tornare i conti, ma non ci va molto per il sottile e cava da un'orchestra dimidiata negli archi meno di quello che potrebbe. Accompagnamento “karaoke” senza troppa cura per il canto, poche sfumature, dinamiche non piattissime ma in costante orbita gravitazionale intorno al mezzoforte e la conseguente tendenza a coprire spesso le voci. Voci diseguali per caratura, va detto.

Ad esempio il protagonista, Ivan Ayon Rivas, possiede uno strumento dal timbro argenteo e buona padronanza dello stesso, ma è per caratteristiche intrinseche e per maturazione ancora acerbo di fronte a cotanta parte. Sicché spesso soccombe sotto il peso del suono e della scrittura, pur avendo in gola tutte le note necessarie.

Ha ben altra verve e peso specifico Alex Esposito, che ormai può vantare una bella collezione di diavolacci in repertorio. Non gli manca certo l’istrionismo mefistofelico, né, si sa, il volume, ma come talora accade ha la tendenza a calcare la mano anche dove non servirebbe.

Carmela Remigio è una Marguerite di lungo corso e lo si apprezza da come domina la parte, vocalmente e musicalmente, però è ormai (a sindacabilissimo giudizio di chi scrive) interprete di tali dimensione tragica e maturità forse non incompatibili ma stridenti con la freschezza adolescenziale del personaggio, soprattutto nei primi atti.

È quasi tenorile nel timbro il Valentin di Armando Noguera, vocalità Martin schietta ma non sempre immacolata, che pur sa tenere assai bene il palco o qualsiasi porzione della sala ne assolva la funzione.

Paola Gardina ha tutte le qualità necessarie per venire a capo nel migliore dei modi di Siébel, così come regge a meraviglia sia nel canto che nella recitazione Julie Mellor (Marthe Schwertlein). Ben caratterizzato anche il Wagner pusillanime e alcolizzato di William Corrò.

Se lo spettacolo non decolla, parte della colpa va a Joan Anton Rechi, che firma quasi tutto il firmabile. Parte ma non tutta, perché le restrizioni varie e assortite un'ipoteca sull’esito finale ce la mettono. La chiave di volta del Faust di Rechi è la religione, intesa più che altro come cornice ambientale e valoriale, tant’è che tutto gira intorno a una decina di banchi da chiesa, di fatto gli unici elementi in scena per tre ore di spettacolo, che ruotati, trascinati o traslati, ne garantiscono un minimo di varietà. Banchi che però a tratti fanno comicamente a pugni con l’effetto disco floor che produce il pavimento della platea ricoperto di carta argentata riflettendo le luci di Fabio Barettin.

Rechi fa un buon lavoro nella coordinazione di recitazione e movimenti, che sono sempre ben concertati, ma pur inserendo qualche elemento di rottura rispetto alla linea tracciata dal libretto, fondamentalmente ci va dietro. Il problema è che ad assecondare la drammaturgia, pur con qualche piccola variazione sul tema, dovendo rinunciare allo sfarzo del grand opéra, si finisce per liofilizzare la narrazione perché da un lato manca la grandeur – in certo repertorio le dimensioni contano eccome! – , dall'altro non c'è mai un twist inatteso che risollevi la palpebra dello spettatore quando fatalmente inizia ad abbassarsi. L’esito è un Faust che odora più di borotalco che di zolfo.

Torna all'opera come se non si fosse mai fermato l'ottimo coro di Claudio Marino Moretti mentre l'orchestra di casa, dopo qualche sbavatura iniziale, si assesta sul livello di garanzia dei giorni migliori.

29 maggio 2021

Note su note: Bruckner, sinfonie 2 e 8

Andris Nelsons è ormai uno degli artisti di punta della scuderia Deutsche Grammophon, forse il primo della lista, quello cui si affidano i cicli sinfonici del grande repertorio, da Šostakóvič a Beethoven. Con questa registrazione, che si suppone costituisca il penultimo capitolo, si avvia a conclusione anche l’integrale bruckneriana che si arricchisce di Seconda (versione 1877, edizione Carragan) e Ottava Sinfonia (versione 1890, edizione Nowak), anch’esse accompagnate da un brano wagneriano, scelta ricorrente nel progetto: un’Overture dai Maestri Cantori di Norimberga di struggente bellezza, in cui flessibilità, malinconia e amore per il dettaglio si fondono in un inestricabile tutt’uno.




Quanto a Bruckner, Nelsons si accoda al filone mitteleuropeo, rinfrescandolo con maggior propensione alla discorsività e alla brillantezza, a soppiantare certa retorica sussiegosa che suonerebbe ormai fuori tempo massimo. Evita così di prostrarsi nella contemplazione dell’imponenza architettonica, ma non arriva nemmeno all’estremo opposto, quello del Bruckner analitico di scuola nordica, scomposto e ricomposto mattone dopo mattone a sviscerarne la costruzione. 

È un Bruckner, quello di Nelsons, che pare voler fare il punto della situazione sul percorso della storia interpretativa dell’autore fino ad oggi, ma che rinuncia a spingersi oltre. Ci si ritrova dunque tutta la tradizione tardo-romantica, ammorbidita in una fluidità meno incline all’enfasi di quanto sia comune ascoltare ma con tutte le turbolenze, le impennate poderose e le tenerezze al posto giusto. E tutto sommato, con una macchina meravigliosa come la Gewandhausorchester di Lipsia davanti, che ha saputo preservare nel tempo il fuoco di una storia secolare, sarebbe difficile immaginare qualcosa di diverso. Quel che manca è un po’ di spregiudicatezza, forse anche un pizzico di cattivo gusto, insomma il coraggio di rompere i legami con il passato per provare a dire qualcosa di davvero nuovo.

21 maggio 2021

Note su note: Beethoven, Sinfonia No.7 e Concerto per pianoforte e orchestra No.4

Carriera fulminante quella di Lahav Shani (classe 1989), nato pianista, cresciuto contrabbassista e divenuto poi in un batter di ciglia direttore d’orchestra di prima fascia. Il primo premio alla Mahler Competition del 2013 gli è valso un tutto-e-subito impressionante: Wiener Philharmoniker, Israel Philharmonic, che ha scelto di affidargli la pesante eredità di Zubin Mehta, e Rotterdam Philharmonic Orchestra, di cui da un paio d’anni è direttore principale. 



È proprio con l’orchestra olandese che Shani realizza un disco, il suo primo dal podio, che è un viaggio nel Beethoven “di mezzo”, con la Settima sinfonia e il Quarto concerto per pianoforte, affrontato nella doppia veste di solista e direttore. Un biglietto da visita completo di una personalità eclettica ma ancora in fieri, che ha pregi e difetti della giovane età (artistica): tanta esuberanza e freschezza, un’energia urticante, ma anche una certa propensione al calligrafismo e alla discontinuità. O forse ha la sola colpa di avvicinare due opere dalle implicazioni mastodontiche senza averne ancora maturato una visione organica totalmente convincente. Ne esitano due splendide esecuzioni strumentali, impreziosite da un lavoro capillare di cesello delle linee, esposte e rifinite con chiarezza cameristica sia dal pianoforte che dalle voci orchestrali, ma che mai scavallano dall’ottima routine alla grande interpretazione, pur sfoggiando di momenti di grande impatto e una cura per il suono di tutto rispetto.


29 aprile 2021

Note su note: Tod und Verklärung, Don Juan, Sechs Lieder, Op. 68

Robin Ticciati si rivelò al mondo come straussiano di talento in un Rosenkavalier che diresse a Glyndebourne qualche anno fa, appena trentenne. Nel frattempo è cresciuto e quell’inclinazione che allora si intravedeva espressa solo in parte sta giungendo, passo dopo passo, a piena maturazione. 


Il pot-pourri sinfonico-liederistico monografico registrato per Outhere music nel 2019 è la quinta incisione del direttore sul podio della “sua” Deutsche Symphonie-Orchester di Berlino, formazione che per caratteristiche timbrico-espressive pare adattarsi alla perfezione all’intenzione di proporre uno Strauss meno pomposo e vellutato di quanto voglia certa tradizione mitteleuropea, ma inquieto e tagliente, in cui la trasparenza della concertazione e la razionalità dell’analisi sono vivificate da un incedere rapsodico in continuo fermento. Ne emergono delle letture a tinte sgargianti, in cui Ticciati esalta il virtuosismo e la frammentarietà della scrittura caratterizzando ogni tema, ogni cellula melodica o ritmica di una tensione diversa, con l’abilità di ricondurre tanta vulcanica inventiva a una sintesi coerente. Se si parla di opere abusate dalla sala di registrazione come Don Juan o Tod und Verklärung, non è affatto banale aggiungere la propria voce a una discografia affollatissima realizzando un prodotto originale. Ebbene, questo lo è senz’altro. Meno frequentati sono invece i Sechs Lieder, affidati alla voce di Louise Adler, lirico leggero dalla musicalità sopraffina e dalla voce flessibile e luminosa, ancorché meno doviziosa di colori di quanto richiederebbe il genere.


27 aprile 2021

Argerich e Ntokou: Beethoven Symphony No. 6 & Piano Sonata No. 17

Le trascrizioni per pianoforte dei grandi lavori sinfonici hanno spesso il merito di svelarne, già all’ascolto più superficiale, la complessità d’inventiva e l’organizzazione, poiché la privazione delle alchimie timbriche e della ripartizione tra le diverse voci orchestrali rende immediatamente intelligibile il processo di costruzione e lo sviluppo delle cellule tematiche. L’effetto è pressappoco quello di una radiografia in cui ogni elemento organico viene ridotto a diverse gradazioni di grigio.




Certo quando queste versioni in sedicesimo nacquero avevano il ben più umile proposito di diffondere le composizioni per orchestra nelle realtà più piccole piuttosto che arricchire l’esegesi delle stesse. Eppure, benché oggi tradiscano un certo anacronismo, le trascrizioni si rivelano molto più interessanti di quanto si possa immaginare, e non solo per il loro valore di testimonianza storica.

È un “effetto sorpresa” che suscita anche la Pastorale di Beethoven da poco uscita per Warner Classics, che, trasposta sulle quattro mani della versione di Selmar Bagge, certamente perde qualcosa del suo clima bucolico, ma svela tutta la sapienza del compositore tedesco nell’elaborazione del materiale. Una riduzione-calco che non ha la pretesa di mettere in vetrina il virtuosismo pianistico degli interpreti, ma di stampare una copia carbone il più fedele possibile all’originale.

Sarebbe tuttavia ingeneroso lasciar passare l’idea che il lavoro di cui si dà conto, ennesimo ottimo prodotto dell’anno beethoveniano appena concluso, sia una sorta di esercizio d’accademia o compromesso al ribasso. Innanzitutto per le ragioni sopra esposte, che si possono per brevità ricondurre alla possibilità di osservare un caposaldo del repertorio da un’ottica inedita e per certi versi illuminante. In seconda battuta perché due delle quattro mani in azione sono quelle di Martha Argerich, che oltre ad essere il solito prodigio di “meccanica pianistica” in termini di tocco, colore e tecnica, sa trattare il discorso musicale con la grazia e la liberà di pennellata della grande interprete, plasmando la frase con un’espressività romantica che non contrasta affatto con l’accuratezza dell’analisi, anzi, la enfatizza,.

Al suo fianco la giovane pianista greca Theodosia Ntokou parla il medesimo linguaggio ma soprattutto condivide con Argerich una visione comune dell’opera, il che assicura omogeneità e compattezza all’esecuzione.

È Ntokou a farsi carico anche della Sonata per pianoforte in re minore n. 17, nota come "La Tempesta", che chiude il disco. Scelta peculiare ma sensata se la si inquadra nell’ottica in cui nascono molti dei prodotti discografici odierni per debuttanti o artisti in rampa di lancio: fornire un ritratto il più dettagliato possibile delle qualità e della visione di un interprete, in questo caso spese su diverse declinazioni del medesimo autore.

Ntokou ne dà una lettura molto irruente e decisa, sia nel carattere che nel suono. Non c’è forse quella fantasia sapiente che si apprezza nella nella Pastorale a quattro mani, né la stessa morbidezza, ma un approccio energico e secco, giocato più sui contrasti dinamici e la chiarezza di scansione che sulle sfumature.

9 febbraio 2021

Note su note: un nuovo Tabarro. Ce n'era davvero bisogno?

Prima l’excusatio non petita, per addolcire la pillola: Pentatone è una delle migliori case discografiche sul mercato per qualità e quantità della proposta. Ma c’è un ma: l’opera la bucano spesso, un po’ perché i cast non sono sempre all’altezza della sala di registrazione, un po’ perché nove volte su dieci la bacchetta finisce in mano a Marek Janowski, che forse quello che aveva da dire l’ha bello che detto. E chissà che in Puccini qualcosa da dire non ce l’abbia neanche mai avuto.


Se nel Tabarro non “passano” quella calura e quel tanfo di sudore di un fine turno di manovali, abbiamo un problema. Se il 6/8 ansioso e furtivo che apre l’incontro clandestino dei due amanti (O Luigi, Luigi) lo stacchi compassato, i problemi sono già due. Se quel “è lui?” che dovrebbe suonare come un colpo al cuore – e non perché lo dico io ma perché Puccini lo scrive chiaramente: “sussultando” – scivola via come niente fosse, be’, ci siamo capiti. Potrei andare avanti a lungo. Insomma se in quest’opera non sai creare un contesto intorno a ogni parola, che è sempre la punta di un iceberg di sensi di colpa, risentimenti, angosce, speranze tumulate o deluse, di nostalgie e sofferenze cronicizzate, tanto vale lasciarla perdere. Ce ne facciamo poco dei piani sonori meravigliosamente distinti dai tecnici – davvero, i primi venti minuti sulla Senna sono un gioiello di regia audio – o del bel suono della Filarmonica di Dresda (occhio, non la Staatskapelle!), che fa tutto come si deve. Così come ce ne facciamo poco del bel do di Melody Moore se poi sciupa ogni sillaba, aggiustandosi il libretto come le viene più comodo.

Poco da dire sul resto: Brian Jagde è il classico Luigi col vocione grosso da macho che non ci va tanto per il sottile, Lester Lynch (Michele) stessa cosa, solo che anziché essere tenore è baritono. I comprimari fanno il loro compito con diligenza, chi più chi meno, forse meglio dei tre cantanti principali.

Lo ascolti e ti chiedi: perché? Occasione sprecatissima.