23 marzo 2020

Il Čajkovskij di Vladimir Jurowski

Ci pensavo l'altra sera ascoltando il terzo atto di quella bella Frau ohne Schatten che Vladimir Jurowski diresse ad Amsterdam parecchi anni fa. Si può storcere il naso di fronte al suo modo eccentrico di fraseggiare e articolare, così libero rispetto allo scritto e alla tradizione - nella Frosch si prende certe licenze curiose che non aiutano nemmeno i cantanti, tant'è che pronti via e Barak si perde una frase intera - però la personalità è innegabile. Il suo Čajkovskij, che sto passando a setaccio in questi giorni, non è diverso. Sviluppa le linee con un piglio anticonvenzionale che ora mi entusiasma, ora mi turba, forse proprio perché sono abituato a qualcosa di completamente diverso, ma che almeno rende appetitosa l'ennesima integrale sinfonica dopo altre mille tutte identiche. Più che un epigono del romanticismo, questo Čajkovskij è il padre dei sinfonisti russi del Novecento: cupezze timbriche tenebrose, tutti gli spigoli bene in vista, secchezza meccanica nei passaggi marziali (Prokof'ev è lì, dietro l'angolo), una tensione sbrigativa quando l'orchestra dovrebbe cantare appassionata, certo scalpitare nervoso, se non ironico, nei momenti in cui siamo abituati ad ascoltare la bellezza in trionfo. Non immagino una Quinta più antiedonistica e scorbutica di questa: nel quarto movimento sembra che tutto sia sul punto di saltare per aria, è quasi irritante fisicamente, proprio nel senso che trasmette irrequietezza.
L'effetto è spiazzante, almeno su di me lo è stato, al punto che non so dire se il Čajkovskij di Jurowski mi piaccia del tutto. Di sicuro ci avverto la mancanza di qualcosa, ne colgo la frammentarietà e la parzialità, le forzature, però ne sono anche molto affascinato. Uno degli ascolti più stimolanti in queste giornate piene di musica.