19 giugno 2016

Mario Brunello dirige la Filarmonica della Fenice

Sul fatto che suonare uno strumento e dirigere un'orchestra siano faccende diverse ci sono pochi dubbi. Per quanto eccezionali siano la sensibilità musicale e la cultura di un artista, il passaggio da un lato all'altro della barricata può presentare qualche problematicità, o quantomeno una disomogeneità di rendimento. Difficile che in entrambi i campi la maestria tecnica raggiunga il medesimo livello, tale da garantire la realizzazione dell'idea interpretativa e musicale con perfezione e forza persuasiva eguali.



Il caso di Mario Brunello, protagonista del terzo appuntamento stagionale dell'Orchestra Filarmonica della Fenice con un programma interamente schumanniano, è in tal senso emblematico. Impegnato nella doppia veste di solista e direttore, appare evidente la discrepanza degli esiti, non tanto nell'impostazione e nei propositi, quanto proprio nella compiutezza esecutiva.

L'approccio di Brunello al Concerto per violoncello sarebbe di per sé non dissimile da quello alla Prima sinfonia ma, mentre nel primo caso la solidità della tecnica strumentale gli consente di restituire un'interpretazione compatta e coerente, una volta posato l'archetto e impugnata la bacchetta (in questo caso metaforica, Brunello dirige con le mani) qualche limite nel tenere insieme i pezzi, qua e là emerge.

Come accennato, nel Concerto per violoncello e orchestra in la minore, op. 129 le cose vanno benissimo. Colpisce la cantabilità che Brunello sa trarre dallo strumento: tutto è estremamente fluido e spontaneo, gli espedienti retorici sono dosati con sapienza sicché ogni colore, ogni sfumatura trova un proprio significato all'interno del tutto. Anche i passaggi risolti con maggiore veemenza, persino i suoni sporchi, hanno una ragione in una lettura che è sì appassionata, ma mai esteriore. Allo stesso modo l'impeto del virtuosismo nel finale mantiene un'espressività che non è mai stucchevole o compiaciuta.

Brunello si pone di fronte alla Sinfonia n. 1 in si bemolle maggiore, op. 38 con la medesima passione – anche se con spirito diverso, decisamente più leggero e sereno - ma in questo caso il meccanismo si inceppa perché, pur restando invariate l'energia e la tensione già espresse nel concerto, qui non emerge un perfetto controllo della materia orchestrale. In una sostanziale correttezza, tuttavia ben lontana dalla perfezione, manca un salto di qualità nella concertazione che dia fluidità al discorso musicale e che riesca ad amalgamare con compattezza le sezioni. Né si può dire che il nitore del suono, soprattutto nei forti, e la pulizia degli attacchi, siano sempre irreprensibili. Si avverte insomma una prudenza di fondo che toglie spontaneità alla lettura e che, a tratti, lascia l'impressione di una certa artificiosità.

Certo nel complesso non mancano i bei momenti, anche perché la Filarmonica della Fenice si conferma all'altezza del grande repertorio sinfonico: alcuni colori degli archi e soprattutto le frasi dei legni nello Scherzo, paiono notevolissimi.

Inserita come bis, la Sarabanda bachiana dalla Suite n. 5 è un momento di grande suggestione e poesia.

Trionfo a fine concerto con ovazioni per tutti.

17 giugno 2016

Die Fledermaus al Verdi di Trieste

C'era una volta il glorioso Festival dell'operetta di Trieste. La sua progressiva e inesorabile dissoluzione ha senz'altro a che fare con la crisi economica che ha colpito le fondazioni liriche ma è anche, se non soprattutto, un problema di linguaggio, con buona pace degli instancabili laudatores temporis acti.



Per qualche ragione questa forma di spettacolo, che è terribilmente difficile da realizzare in modo convincente, sembra ricondurre a un mondo antico, fatto di meccanismi stereotipati e luoghi comuni, in cui il pubblico contemporaneo fatica a riconoscersi. Fatto sta che oggi l'operetta si fa molto meno che in passato e quando la si fa non richiama a teatro folle oceaniche. Non vanno diversamente le cose al Verdi di Trieste dove Die Fledermaus, ultimo titolo in cartellone per la stagione operistica, raccoglie un'affluenza, se non modesta, sicuramente al di sotto della media stagionale.

La scelta di proporre il celebre lavoro di Johann Strauss è un omaggio schietto alla tradizione cittadina, anche se l'esito della produzione si allontana in buona misura dallo spirito più autentico del genere, spostando l'asse verso una teatralità più “seria”, più operistica.

Tale proposito appare evidente innanzitutto in orchestra giacché l'impronta che Gianluigi Gelmetti dà allo spettacolo va esattamente in questa direzione. Sembra infatti che il maestro cerchi di emancipare Il Pipistrello dalla frivolezza più effimera, e soprattutto dalla necessità di far ridere a tutti i costi, puntando piuttosto verso un'ironia disincantata e malinconica. Gelmetti prende molto sul serio il lavoro straussiano, il che non si traduce affatto in seriosità o pedanteria ma in una lettura che sacrifica la vivacità esteriore in favore di un tono sorridente, vagamente crepuscolare, scelta che si rivela, a conti fatti, molto interessante.

La partitura esce ripulita dalle stratificazioni di ornamenti e vezzi, più o meno garbati, depositati dal tempo, senza che questo processo di restauro annienti la teatralità o si risolva in un atteggiamento compassato.

L'Orchestra del Verdi segue il maestro con precisione e buona qualità d'esecuzione, fatto salvo qualche limite nella brillantezza che emerge nei momenti esclusivamente strumentali (più nella non impeccabile Ouverture che nella polka Unter Donner und Blitz, abusivo ma piacevolissimo omaggio alla tradizione esecutiva).

Non si discosta dalle linee guida del podio, benché le segua con più elastica osservanza, il regista Daniel Benoin, il quale disegna un Pipistrello che è sì vivace e dinamico nella recitazione, ma che scansa – forse non del tutto ma in misura soddisfacente - quel insopportabile, volgare e frusto campionario di soluzioni che spesso mortificano il repertorio operettistico. C'è, pur nella convenzionalità dell'impostazione, una regia curata che non è travolgente ma scorrevole senz'altro e che non soffre cedimenti. Certo questo spettacolo non piacerà a chi si aspetta dall'operetta una comicità esuberante e ritmo incandescente che qui non ci sono né paiono rientrare tra i propositi del regista.

Benoin opera un innocuo e tutto sommato indovinato spostamento dell'ambientazione, trasferendo la vicenda da Vienna ai confini dell'Impero austro-ungarico, nella stessa Trieste. Il gioco riesce senza particolari forzature e giustifica il “bilinguismo” dei recitativi (l'aristocrazia parla in tedesco, la servitù in italiano), scelta dalle implicazioni sociali forse un po' pretenziose ma non insensata. Porta la sua firma anche l'efficace disegno luci.

Le scene di Jean-Pierre Laporte ben definiscono il contesto: siamo inequivocabilmente a Trieste, tra salotti pacchiani di una borghesia che ama lo sfarzo e la ricchezza ma che fatica a distinguere l'eleganza dal kitsch. Meno felici, almeno per quanto riguarda la realizzazione, paiono le proiezioni video realizzate da Paulo Correia. Belli i costumi di Nathalie Bérard-Benoin.

In un cast complessivamente convincente emerge prepotentemente Mihaela Marcu. Il soprano rumeno dà vita a una magnifica Rosalinde in cui verve, carattere e bellezza del canto si coniugano ad alto livello. La voce ha ormai un medium corposo e brunito che riempie la sala mentre il registro acuto si espande con facilità quasi insolente. L'attrice non vale meno della cantante e domina il palco con disinvoltura e personalità.

Christoph Strehl, Eisenstein, ha timbro non indimenticabile e tende a forzare al di sopra del passaggio ma compensa i limiti vocali con un'apprezzabile caratterizzazione del personaggio. Convince la Adele di Lina Johnson, sufficientemente spigliata sulla scena e corretta nel canto.

Merto Sungu è una piacevolissima sorpresa: il suo è un Alfred da tenore di classe, sempre morbido e sorvegliato nell'emissione. Il dottor Falke di Zoltan Nagy trova la giusta misura nel coniugare la precisione del canto a una recitazione all'altezza della situazione. Manca un briciolo di temperamento e peso vocale a Daniela Baňasová per convincere pienamente nei panni del Principe Orlofsky, soprattutto nei Couplets. Brillante la prova di Horst Lamnek, Frank dalla vocalità solida e dalla presenza autorevole.

C'è una strizzata d'occhio un po' ruffiana alla tradizione cittadina nella scelta di risolvere la parte di Frosch in dialetto, non di meno Fulvio Falzarano si conferma eccellente attore in possesso di invidiabili tempi comici. Simonetta Cavalli ben si comporta nei panni di Ida così come si fa apprezzare l'avvocato Blind del bravo Andrea Binetti.

Positiva la prova del coro del Verdi preparato da Fulvio Fogliazza.

Calorosa l'accoglienza del pubblico a fine recita per tutta la compagnia.