5 dicembre 2011

Il Trovatore di Francesco Meli alla Fenice

In una Venezia ingoiata dalla nebbia andava in scena l’attesissimo Trovatore che chiude la stagione del teatro veneziano e conclude idealmente la trilogia popolare verdiana della Fenice aggiungendosi alla fortunatissima Traviata di Carsen e al più recente Rigoletto di Abbado. Attesissimo – si diceva – questo allestimento soprattutto in ragione del debutto nel title role, parte principe per il registro di tenore, di Francesco Meli, cantante tra i più apprezzati del momento.


Sia detto subito che lo spettacolo nel complesso non convince completamente, soprattutto a causa di un allestimento tutt’altro che indovinato. La scenografia, evocativa nelle intenzioni, pacchiana nella sostanza, non solo non riesce a destare nello spettatore una minima parte di quanto si prefiggerebbe di fare ma, peggio, ha la colpa di essere, laddove non sia velleitaria o confusa, quasi grottesca. Se lo scenario, nella sua grigia neutralità, dominato da una luna tanto grande quanto bruttina, potrebbe ben accomodarsi all’atmosfera notturna del dramma verdiano, davvero non si riesce a comprendere la presenza di generici orpelli che sarebbe inutile elencare. Avrebbe altrimenti giovato una regia che si incaricasse di dirigere solisti e coro con maggiore senso del teatro o perlomeno con un gusto più appropriato mentre Lorenzo Mariani ripropone l’obsoleto campionario di pose da teatro d’opera d’antan che ormai si vedono solo nelle pellicole in bianco e nero o nelle parodie del teatro d’opera fatte da chi d’opera sa ben poco.

Fortunatamente il versante musicale offriva motivi di soddisfazione decisamente superiori. Trionfatore della serata è stato il protagonista Francesco Meli, bella voce di tenore lirico che ha offerto una delle migliori interpretazioni di Manrico oggi immaginabili. Innanzitutto la voce, bellissima e sonora nel registro centrale si sposa alla perfezione con la scrittura della parte che insiste su questa zona del pentagramma. Meli ha inoltre il merito di porgere con gusto, forte di un’emissione morbida e rotonda figlia di un’organizzazione tecnica di prim’ordine. Pur trovando i suoi momenti più suggestivi nell’abbandono al lirismo di Deserto sulla terra o Ah, sì, ben mio, il tenore convince pienamente anche laddove sia richiesto il piglio eroico del condottiero ribelle. Ha voluto fare l’oteco, il tradizionale do non scritto in chiusura di terzo atto, che non è stato dei migliori, piccolo e non pulitissimo, sicuramente un peccato veniale che non inficia una prestazione da incornicare.

Il soprano uruguaiano Maria José Siri frequenta la parte di Leonora da qualche anno e ormai la conosce a fondo. La voce è bella e penetrante, talora un po’ oscillante in zona acuta ma senza mai dare l’impressione di essere forzata, l’interprete convincente e temperamentosa. Una prova nel complesso molto buona che ha regalato il momento migliore nell’aria del quart’atto D’amor sull’ali rosee, cantata con partecipazione ed eccellente linea di canto che avrebbe meritato più nobile sostegno da un orchestra che sembrava non rispondere alle suggestioni del soprano.

Troppo spesso capita di vedere Azucena risolta in una rassegna di effettacci da contraltoni, ascoltare cantanti intente ad esibire la maestà di un registro centrale tellurico affondando le note nel petto o gridare gli acuti il più forte possibile. L’eccellente Azucena di Veronica Simeoni, mezzosoprano di voce non enorme ma sonora ed uniforme in tutti i registri, ha il merito di rifuggire tutto ciò disegnando una zingara cantata con gusto e con il giusto scavo della parola. Poche volte si è sentita un’Azucena tanto curata nel canto come ispirata nel fraseggio.

Franco Vassallo, Conte di Luna, è stato molto applaudito dal pubblico ed effettivamente il bartiono è in possesso di una vocalità possente e di bel timbro drammatico. Ciò che può lasciare perplessi è l’impostazione monolitica che viene offerta: ci si trova di fronte a un conte ruvido, vociferante anche laddove, e il riferimento all’aria del secondo atto è d’obbligo, sarebbe auspicabile una maggiore morbidezza e la ricerca di una linea di canto che sappia piegarsi anche alla mezzavoce. Non immacolato nel canto ma efficace e autorevole il Ferrando di Giorgio Giuseppini. Tra le parti di fianco si segnalano le buone prove di Antonella Meridda, Inez e Carlo Mattiazzo nei panni di Ruiz.

Il tutto era coordinato dalla non ispiratissima bacchetta di Riccardo Frizza il quale ha offerto una direzione funzionale all’incedere teatrale della vicenda piuttosto che versata alla ricerca del preziosismo orchestrale. Se da un lato va apprezzato il fatto che il direttore abbia gestito al meglio gli equilibri buca-palcoscenico, senza risultare prevaricante sulle voci e conducendo l’eccellente orchestra veneziana senza sbavature (forse con qualche clangore di troppo), d’altro canto non si può non ravvisare l'assenza di poesia in un’opera che dovrebbe essere pervasa da un’atmosfera lunare e notturna come nessun’altra.

Paolo Locatelli
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7 novembre 2011

Lucia di Lammermoor in scena al Teatro Comunale di Pordenone

Riecco a quattro mesi di distanza la Lucia di Lammermoor che aveva chiuso la stagione del Verdi di Trieste riproposta dall’omonimo teatro pordenonese con cast quasi invariato e stesso direttore. Lo spettacolo che già aveva raccolto ampi consensi all’esordio triestino è stato salutato calorosamente dal pubblico del Comunale, che non ha lesinato applausi agli artisti impegnati nella produzione.

Lucia di Lammermoor è uno dei massimi vertici del romanticismo italiano, sempre che di romanticismo si possa parlare, ben sapendo che nel nostro paese il movimento non trovò suolo tra i più fertili, tant’è che il soggetto venne preso in prestito dal dramma The Bride of Lammermoor dello scozzese Walter Scott che Salvatore Cammarano ridusse a libretto per la musica di Gaetano Donizetti. 

Proprio nella Lucia il compositore bergamasco trova un'ispirazione che si materializza nella perfetta coerenza musicale come nella realizzazione di un particolare colore orchestrale straordinariamente confacente alle tinte cupe della trama. È proprio tale peculiarità compositiva a nobilitare un soggetto non tra i più originali in cui viene narrato l’amore irrealizzabile tra due giovani innamorati appartenenti a famiglie rivali.



Il bell'allestimento curato dal regista Giulio Ciabatti si serviva delle scene di Pier Paolo Bisleri nel creare un’atmosfera brumosa, spettrale, uno scenario desolato in cui si muovevano (non sempre agilmente) i protagonisti ed il coro. Molto efficace e pregnante l’impianto scenico che riusciva a rimandare attraverso la desolazione degli ambienti al tormento, alla malinconia e all’angoscia in cui versa la protagonista Lucia, condizione che non potrebbe che risolversi nell’ineluttabile follia. 
Sobria ed elegante la regia soprattutto per quanto riguarda i movimenti del coro, trasfigurato in un’entità immateriale, quasi una presenza, mentre meno curata è parsa la recitazione dei solisti che talora sembrava lasciata all’iniziativa personale piuttosto che seguire un disegno predefinito.

Sul versante musicale si imponeva Silvia Dalla Benetta che ha vestito ancora una volta i panni della sfortunata Lucia. Il soprano non ha voce tra le più belle ma sa compensare i propri limiti con un fraseggio sorvegliato, un sapiente dosaggio dei colori ed ottima musicalità. Risolta al meglio la pazzia, banco di prova per qualsiasi soprano che affronti il grande repertorio belcantistico, di cui la cantante, pur non possedendo la funambolica coloratura delle grandi, ha offerto un’eccellente realizzazione che gli è valsa un applauso prolungato.

Meno convincente l’Edgardo di Massimiliano Pisapia la cui voce suonava opaca e talora forzata nei centri salvo poi trovare sfogo in acuti voluminosi e squillanti. Poco vario il canto, costantemente tenuto tra il forte e il mezzoforte, come la recitazione risolta nella consueta rassegna di pose da tenore. Va dato atto al cantante di essere l’unico nuovo innesto nel cast rispetto alle recite triestine ed in tal senso può essere compresa la cautela con cui ha affrontato la parte.

Giorgio Caoduro offriva un’ottima lettura del monolitico Enrico, personaggio da cui è difficile cavare qualcosa che vada oltre la ruvida arroganza. Il baritono ha voce non grande ma di bel colore che sa ben piegarsi alle necessità del canto sempre risolto con eleganza e pregnanza stilistica. Convincente lo ieratico ed austero Raimondo di Giovanni Furlanetto, solido nel canto e misurato nella recitazione. 
Buone le parti di fianco.

Julian Kovatchev è musicista sensibile e maestro affermato tuttavia ancora una volta ha dimostrato di non trovare nel belcanto il proprio repertorio d’elezione. L’accompagnamento al canto risultava monotono, metronomico, il suono prevaricante su solisti e coro, i momenti di forte esplodevano nel più incontrollato fragore mentre nei passaggi più intimi sono mancati la trasparenza e l’abbandono che ci si aspetterebbe di ascoltare. In particolare il finale primo ed il sestetto, che sono pagine tra le più belle dell’intero repertorio, suonavano confuse e disordinate mancando quello slancio e quell’equilibrio tra le componenti che la musica donizettiana richiederebbe. Del tutto ingiustificata la scelta, che sarebbe stata obsoleta già negli anni settanta, di mutilare la partitura di ampie porzioni compreso il duetto tra Lucia e Raimondo del secondo atto e la celebre scena della torre in apertura di terzo atto. 
Ciononostante va segnalata la prova positiva di coro e orchestra del Teatro Verdi di Trieste che si confermano compagini di eccellete livello.

Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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17 ottobre 2011

Le Nozze di Figaro alla Fenice, secondo capitolo della trilogia di Michieletto

Recensione - Seconda tappa del ciclo dapontiano alla Fenice con Le Nozze di Figaro dopo il fortunatissimo Don Giovanni recentemente riproposto e aspettando il Così Fan Tutte che a febbraio 2012 chiuderà il cerchio. 

Le nozze di Figaro è l’opera perfetta. Lo è nella sublime leggerezza della musica di Mozart come nel libretto, in cui Da Ponte sa mascherare la malinconia e le inquietudini d’ironia. Non è una semplice commedia dunque questo racconto della folle giornata in cui dovrebbero celebrarsi le nozze tra il protagonista e la cameriera Susanna, ma un affresco di vita, un’analisi dei rapporti interpersonali nonché degli affetti e delle meschinità che li regolano.



Dopo le entusiastiche risposte di pubblico e critica al precedente Don Giovanni le aspettative per questo nuovo allestimento erano altissime e, benché il regista Damiano Michieletto abbia allestito un ottimo spettacolo, è innegabile che alla fine rimanga nello spettatore un fondo di delusione nel trovarsi di fronte ad un fratello minore del precedente lavoro. 

Le perplessità non possono certo riguardare la tecnica registica che Michieletto possiede e padroneggia con classe, quanto piuttosto la sensazione che tutto si fermi alla superficie. Certo si parla di una superficie tirata a lucido, la costruzione dello spettacolo è formalmente impeccabile, la trama dipanata con sapienza e, al solito, curatissima la gestione degli artisti in scena. Si avverte però la mancanza di una lettura che scavi più in profondità tra le pieghe di questo capolavoro. 
Non giova poi allo spettacolo la somiglianza delle scene con il precedente Don Giovanni di cui queste Nozze sono, più che una prosecuzione, un calco. Benché la scelta possa sottintendere l’intenzione di mettere in relazione ancor più stretta le due opere, il risultato non solo non convince ma, peggio, finisce per limitare l’effetto dello spettacolo in chiunque abbia già visto il precedente. 

Se il Cherubino-Eros che muove le azioni dei personaggi non sembra un’intuizione così originale, più indovinato è il lavoro sul personaggio della Contessa, in scena dall’inizio fino al colpo di teatro finale. Una contessa malinconica più dell’uso che vive nell’incubo del tradimento quanto nella consapevolezza di aver perso l’amore del marito, un incubo da cui cerca di svegliarsi, di fuggire trovando nella fuga la tragica fine.

Complessivamente più che buona l’esecuzione musicale. Alex Esposito offre corpo e voce al protagonista Figaro e lo fa molto bene. La vocalità è sicura, spavalda, l’artista fantasioso. Una lieta sorprese la Susanna di Rosa Feola, giovane soprano di belle speranze che colpisce, più che per la bellezza timbrica e la consapevolezza tecnica, per il gusto nel porgere ed uno scavo della parola sorprendente per la giovane età (e nei quali si intravede, con le dovute cautele, la lezione della maestra Renata Scotto). 
Markus Werba era il Conte dopo essere stato un eccellente Don Giovanni risultando nel complesso meno convincente in ragione di una certa rigidità nel canto nei momenti in cui la scrittura richiederebbe un abbandono e una morbidezza maggiori, come il duetto con Susanna o la scena finale del perdono. Discorso non dissimile può essere fatto per Carmela Remigio che non riesce  a replicare l’eccellente Elvira soprattutto a causa di una partenza non felicissima nella cavatina che apre il secondo atto. 
Molto brava Marina Comparato nei panni di Cherubino, sicura in scena quanto nel canto. Non del tutto soddisfacenti le parti di fianco, soprattutto sul versante maschile. 

Ottima viceversa la concertazione di Antonello Manacorda che conferma di avere una particolare sensibilità per la musica del genio salisburghese. Direzione vibrante, travolgente eppure rispettosa dei cantanti, poco incline al compiacimento anche laddove sarebbe facile strappare l’effetto a buon mercato.

Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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2 ottobre 2011

Alla Fenice di Venezia trionfa il Don Giovanni di Michieletto

Chi è Don Giovanni? È un eroe, un simbolo di libertà o un immorale dissoluto? È l’allegoria della vita, della materia che sfida lo spirito e la morale? Il regista Damiano Michieletto, nel pluripremiato allestimento che ha esordito alla Fenice di Venezia nel 2010, recentemente riproposto dal teatro veneziano, non prende una posizione netta e definitiva in merito, Don Giovanni è tutto ciò e molto altro, egli è la parte più abietta o quantomeno inaccettabile di ciascun individuo, una componente al cui fascino è impossibile non cedere.



Michieletto ambienta la vicenda in un palazzo tra le cui stanze si muovono freneticamente i personaggi quasi in fuga gli uni dagli altri ma principalmente in fuga da sé stessi, incapaci di trovare una via d’uscita, come ingabbiati in un labirinto. Questo effetto è reso con un elaborato impianto scenico costituito da una serie di pareti in continuo movimento che consentono all’ambiente di mutare incessantemente rendendo l’ipercinesia della vicenda, l’irrefrenabile velocità con cui scorre la vorticosa vita di Giovanni il quale trascina con sé chiunque abbia la sventura di incontrarlo. 

Il palazzo è Don Giovanni, è la prigione in cui sono costretti i personaggi della vicenda, sedotti e rapiti dal dissoluto. Egli è l’immorale, colui che non sa coltivare affetti (chi nulla sa gradir), il crudele seduttore, eppure il disgusto che desta nel prossimo si accompagna ad un inevitabile fascino perverso che si impossessa delle anime altrui. Egli si insinua negli altri diventando parte essenziale delle loro vite che infatti, nella concezione di Michieletto, non sopravviveranno alla morte di Giovanni. Le donne che hanno incontrato Giovanni non sanno dimenticarlo (egli appare come un’ombra nei duetti tra Anna ed Ottavio ed in quelli tra Zerlina e Masetto, insoffocabile desiderio erotico femminile) ma anche gli uomini ne sono sopraffatti, Leporello in particolare. 
Si potrebbe quindi dire che Don Giovanni sia l’inaccettabile rivelazione della parte più animalesca e istintiva che chiunque nasconde in sé e che invano cerca di soffocare inorridito dall’immoralità cui si accompagna. 
In un simile contesto si spiega la centralità che Michieletto affida alla sessualità, continuamente esplicitata fino al finale secondo con la mensa trasformata in un’orgia sfrenata in cui i bocconi sono giovani ragazze atte a soddisfare l’appetito di Giovanni e del suo servo.
Quando irrompe il Commendatore, non come statua ma come fantasma che tormenta la coscienza del protagonista, la fine è segnata per tutti: il palazzo viene sommerso da un’atmosfera spettrale, le stanze ricoperte da corpi esangui. Don Giovanni è destinato alla morte ma non si tratta di una morte liberatoria, una giusta punizione per i crimini compiuti in vita, bensì di una condanna per tutti gli abitanti del palazzo che sono a tal punto impregnati e caratterizzati da Giovanni stesso da non poter evitare di seguirlo. Così durante il coro finale della “buona gente” che festeggia lieta “il fin di chi fa mal, de’ perfidi la morte” Giovanni riappare per abbattersi come una falce sulle vite ormai sopraffatte degli altri.



Oltre all'eccezionalità dell’allestimento, lo spettacolo veneziano si fregiava di un’esecuzione musicale molto buona con punte di eccellenza in alcune componenti del cast. Markus Werba è un ottimo Don Giovanni, spavaldo in scena, sicuro e ben controllato nella vocalità. Al pari degno di lode il Leporello di Vito Priante, baritono che sa unire al bel colore di voce gusto e proprietà stilistica. Buona la prova di Anita Watson come Donna Anna mentre Carmela Remigio è una perfetta Donna Elvira sia vocalmente che scenicamente.

Antonio Poli è un Don Ottavio di lusso, la voce è bella e perfettamente emessa ed il pubblico ha salutato le sue due arie con calorosi applausi. All’altezza della situazione infine la bellissima Zerlina di Irini Kyriakidou, il Masetto di Borja Quiza e l’imponente Commendatore di Goran Juric.

Ottima la direzione di Antonello Manacorda, vibrante nei passi più concitati, setosa laddove la partitura richieda slanci lirici, estremamente attenta alle esigenze di palcoscenico senza compromettere o scarificare la coerenza musicale né la bellezza e la trasparenza del suono orchestrale. 

Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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29 agosto 2011

La Cambiale di Matrimonio per il Piccolo Festival del FVG

La Cambiale di Matrimonio non è il capolavoro di Rossini né potrebbe esserlo in ragione della giovane età e dell’inesperienza che il compositore pesarese aveva all’epoca della stesura avvenuta nel 1810. Ad ogni modo si tratta di un’opera che, se messa in scena con un cast all’altezza ed un allestimento adatto, diverte e convince.

Lo spettacolo presentato ad Udine domenica 28 agosto presso il chiostro dell’educandato Uccellis per il Piccolo festival del Friuli Venezia Giulia è andato ben oltre le attese superando per qualità musicale e teatrale molti allestimenti ben più pretenziosi che hanno girato le piazze regionali nell’ultimo periodo.
Come detto si tratta di un Rossini minore, una farsa comica dalla trama improbabile ma divertente anche per merito di un libretto agile e brillante musicato da un Rossini forse immaturo ma che lascia già scorgere l’immenso potenziale compositivo e teatrale che tutti conoscono.
La storia narrata è piuttosto semplice e ricalca fedelmente la tipica architettura dell’opera buffa. La giovane Fanny, innamorata di Edoardo viene promessa in sposa al ricco americano Slook dal padre Tobia Mill. Con l’aiuto dei servitori Norton e Clarina, i due innamorati riesono a scongiurare il matrimonio imposto e ad accattivarsi la simpatia di Slook stesso che, non solo accetterà di buon grado il rifiuto, ma in un atto di inspiegabile filantropia nominerà il giovane che gli ha rubato la moglie erede di ogni sua ricchezza (misteri dell’opera).

Le scene dello spettacolo, curate da Davide Amadei, spostavano l’ambientazione in un magazzino ricolmo di casse contenenti confezioni di pasta, adibito ad ufficio. Tra queste si muovevano i sei cantanti ben coordinati dalla regista Leigh Holman cui va dato il merito di aver escogitato alcune soluzioni particolarmente divertenti che il pubblico ha dimostrato di gradire. 

Merito senz’altro condiviso con i solisti che hanno saputo unire alla prestazione canora una prova attoriale di tutto rispetto. Tobia Mill era Andrea Zaupa, basso dalla vocalità esuberante e ben controllata. Jeffrey Seppala dava corpo e voce ad uno Slook versione cow boy più giovane e vigoroso di quanto ci si aspetterebbe eppure efficace mentre Francesca Salvatorelli tratteggiava una Fanny graziosa e ben cantata. 
All’altezza anche l’Edoardo di Riccardo Gatto, la vispa Clarina di Chiara Brunello e il Norton di Wei Wu.

Buona la prova della Piccola Orchestra del Friuli Venezia Giulia che unisce giovani talenti provenienti dai conservatori regionali e dall’Austria diretta da Massimo Alessio Taddia che nel rispetto del dettato rossiniano ha optato per un’orchestrazione leggera e brillante.

Insomma, uno spettacolo meritevole giustamente applaudito dal pubblico udinese anche in ragione della giovane età di tutti gli interpreti che sarà replicato martedì 30 agosto a Tricesimo, giovedì 1 settembre a Trivignano Udinese e venerdì 2 a Maniago.

Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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8 agosto 2011

Una Carmen d'altri tempi a San Vito al Tagliamento

È senz’altro un’iniziativa lodevole portare la lirica nella piazze, uscire dalla sacralità del teatro per offrire l’opera ad un pubblico più ampio che probabilmente in teatro mai metterebbe piede. È altresì ingenuo, se non pretestuoso, spacciare simili iniziative per strumento di salvaguardia del patrimonio culturale italiano o, peggio, elevare la modestia al grado di eccellenza, la periferia al livello di capitale, come avvenuto puntualmente nel preludio propagandistico alla recita.

La Carmen non dispiace mai, il pubblico applaude contento le pagine più note, sonnecchia o chiacchiera durante gli “intervalli musicali” tra le stesse, interrompe lo spettacolo con applausi fuori luogo e fuori tempo, qualcuno canticchia, i bambini gridano tutto il loro disappunto. Praticamente ciò che avviene in quasi tutte le piazze operistiche all’aperto, anche nelle più blasonate.

Lo spettacolo è tradizionale al massimo, dalla protagonista fatalona all’Escamillo che canta, peraltro bene, i suoi couplets in piedi sul tavolo, dalla Micaela oratoriale con le mani congiunte al Don José incazzato per tre atti su quattro. Lascia perplessi la genericità con cui tale impostazione, peraltro legittima, viene affrontata, sottovalutando l’immenso potenziale drammatico del titolo o sperando che questo da solo possa sostenere il peso dello spettacolo che invece necessiterebbe di una regia. Ci si deve così accontentare di ascoltare coro e solisti (non proprio inappuntabili) cantare immobili o tutt’al più esibendo una generica concitazione, costantemente rivolti al pubblico senza nemmeno tentare di interagire tra di loro.

Tutto ciò desta l’interrogativo su quale sia la concezione dell’opera presso il grande pubblico e su cosa questo si aspetti dal teatro musicale il quale dovrebbe essere appunto teatro e non un concerto in costume. Quest’idea polverosa dell’opera riporta al melodramma d’altri tempi, quello che ha cominciato ad estinguersi oltre cinquant’anni fa, che se un tempo non aveva alternative, oggi non ha ragione di esistere.

18 luglio 2011

Cornell MacNeil

Si è spento, nella totale indifferenza della stampa italiana, il baritono americano Cornell MacNeil, protagonista per decenni delle stagioni dei principali teatri d’oltreoceano. Nato a Minneapolis nel 1922, nella sua lunghissima carriera collezionò oltre seicento recite al Metropolitan di New York in un repertorio tutto sommato piuttosto ristretto.

Mac Neil fu interprete sensibile, moderno ed intelligente, adorato da pubblico, inspiegabilmente sottovalutato dalle case discografiche. Dotato di vera voce baritonale tra le più belle che si ricordino, seppe piegare la splendida natura al servizio dell’arte drammatica e del canto evitando di cedere al mero esibizionismo vocale che pure all’epoca era assai apprezzato e in cui non avrebbe avuto rivali.

Big Mac, com’era affettuosamente soprannominato dal pubblico, fu indimenticabile interprete dei principali ruoli della corda baritonale da Rigoletto a Tonio, da Jago a Simon Boccanegra, da Jack Rance a Scarpia che fu forse il suo cavallo battaglia.

Rimangono fortunatamente i dischi a testimoniare l’arte del baritono americano. La morbidezza d’emissione, l’eleganza del fraseggio, lo spessore interpretativo, il sapiente dosaggio delle dinamiche evidentemente consentito da un’eccellente cognizione tecnica pongono Mac Neil in scia ai grandi baritoni americani del secolo, da Tibbett, passando per Warren fino a Merrill di cui raccolse il testimone. L’ampia cavata, dominata agilmente in ogni settore, la spavalderia del registro acuto, lo splendore della mezzavoce lo restituiscono come esemplare prototipo di quella che dovrebbe essere la famigerata vocalità del “baritono verdiano”, tanto cara agli appassionati d’opera.

Paolo Locatelli
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9 luglio 2011

La Bohème di Karajan, breve recensione di un riascolto deludente

Mimì (Mirella Freni);
Rodolfo (Luciano Pavarotti);
Marcello (Rolando Panerai);
Musetta (Elizabeth Harwood);
Colline (Nicolai Ghiaurov);
Schaunard (Gianni Maffeo);
Benoit/Alcindoro (Michel Sénéchal);

Schöneberger Sängerknabeèn
Chor der Deutschen Oper Berlin

Berliner Philharmoniker - Herbert von Karajan

Nello sterminato panorama delle incisioni operistiche vi sono alcuni titoli che hanno fatto storia e che restano nella memoria quali misure di paragone per ogni altra esecuzione precedente o successiva. È il caso ad esempio de La Bohème portata in sala di registrazione da Herbert von Karajan nei primi anni settanta con un cast straordinario a coronamento di un percorso intrapreso dal maestro austriaco una decina di anni prima quando salì sul podio scaligero per lo storico allestimento firmato Zeffirelli. Ebbene, può capitare che a un riascolto tali miti escano ridimensionati o risultino quantomeno invecchiati.

Analizzando l'incisione, appaiono chiare le ragioni di tale fama sia per la straordinaria padronanza con cui ogni singolo membro del cast affronta la partitura pucciniana che per l'indiscutibile magistero tecnico del direttore austriaco, che plasma la musica pucciniana come non sarebbe riuscito più a nessuno. L'orchestra dipinge un'atmosfera mistica, Karajan estrae dai Berliner una ricchezza di colori e dinamiche all'epoca sicuramente inedita ed ancor oggi sorprendente, il canto è sostenuto al meglio con suono di morbidezza e bellezza insuperabili.

Certo oggi, dopo essere passati attraverso la vibrante lettura di Kleiber, la malinconia di Bernstein o l'interpretazione tesa e asciutta di Pappano, la cura maniacale per la bellezza del canto e del suono orchestrale di Karajan sembrano sostenere un sentimetalismo inattuale. Ciononostante va reso merito al direttore di riuscire a scongiurare il rischio, sempre dietro l'angolo, di scivolare nell'autocompiacimento o nel calligrafismo: la lettura di Karajan è coerente e perfettamente sostenuta, non vi sono cedimenti né alla tensione teatrale né musicali, semplicemente a quasi quarant'anni di distanza l'impostazione risulta distante nella sensibilità.

In merito alla prova dei cantanti possiamo fare due tipi di considerazione. Potremmo fermarci alla mera analisi dell'esecuzione vocale e ci sarebbe ben poco da dire, Mirella Freni canta splendidamente, con voce lirica piena, bella, in grado di spiccare nel canto spigato come di piegarsi in sublimi mezzevoci, mostrando una perfetta comunione d'intenti con il direttore. Pavarotti, che pure aveva una gran voce, cristallina e giovanile, rimane un passo indietro risultando più avaro di colori, a favore di un canto estroverso, sicuramente aiutato da un mezzo vocale ineguagliato per squillo e facilità. Restando in tema di pregio vocale e consapevolezza tecnica il Marcello di Panerai e la Musetta di Elisabeth Harwood risultano perfettamente calati in un simile contesto, così come eccellenti sono il Colline di Ghiaurov, lo Schaunard di Gianni Maffeo e quasi tutti i comprimari.

Ad ogni modo, se sotto il profilo vocale non si può evitare di entusiasmarsi, non altrettanto convincente è l'impianto interpretativo, la caratterizzazione dei personaggi che risulta almeno per quanto riguarda i due protagonisti, piuttosto datata e superficiale. Al Rodolfo di Pavarotti manca un reale approfondimento drammatico, il fraseggio è, come spesso accadeva, banale ed indifferente, la musicalità imperfetta. Mirella Freni, che come detto canta benissimo, è una Mimì se non generica, insipida, le fa completamente difetto quella sensualità travestita d'innocenza che caratterizza il personaggio, come avevano ben capito prima di lei Maria Callas e in modo diverso Victoria De Los Angeles. Panerai è invece un Marcello convincente pur non evitando qualche eccesso di estroversione mentre è davvero deliziosa la Musetta dell'inapputabile Harwood.
Michel Sénéchal è Alcindoro e Benoit con tutti i cachinni, le vocine e i versetti che all'epoca (o meglio nei decenni precedenti) piacevano molto e che pure oggi non è raro sentire nei teatri italiani. Peccato.

La registrazione infine è di ottima qualità, da standard Decca, pur con qualche abuso di effetti stereofonici.

7 luglio 2011

Rigoletto al Carnera di Udine

Rigoletto, lavoro tra i più noti ed amati dal pubblico, è andato in scena a Udine il 5 e il 7 luglio per l’ormai consueto appuntamento con l’opera lirica promosso dal progetto culturale “Il Carro di Tespi”. Dopo le date udinesi lo spettacolo verrà replicato in altre località regionali e non tra cui Pordenone, Venzone, Fagagna, Gorizia e Zara.
Lo spettacolo, inizialmente destinato ad un’esecuzione all’aperto è invece andato in scena al Palasport Carnera. Il buon senso avrebbe suggerito che tale spostamento comportasse lo spegnimento dell’impianto di amplificazione che, se in una piazza può evitare che il suono si disperda, in un luogo chiuso compromette pesantemente la riuscita musicale e teatrale dell’opera. L’amplificazione pone una pesante ipoteca sulla riuscita della recita poiché azzera le dinamiche, normalizza i volumi e peggio ancora, crea una divergenza tra lo svolgimento dell’azione e la provenienza del suono in modo da far sembrare solisti e coro dei mimi doppiati.

L’allestimento è tradizionale nelle scene create dagli studenti dell’Istituto d’Arte “G.Sello” e nella regia di Giampaolo Zennaro che talora è parsa lasciata all’iniziativa dei solisti, almeno questo verrebbe da pensare data la diversa disinvoltura e cognizione con cui gli stessi si muovevano sul palcoscenico. Inserita nella medesima tradizione è stata l’esecuzione musicale, completa di tutti gli acuti e gli effetti non scritti da Verdi che sortiscono sempre sicuro effetto sul pubblico, tuttaltro che fuoriluogo in un simile contesto.

Più che buone le prove dei solisti principali. Protagonista era il baritono Vasile Chisiu, Rigoletto di impostazione tradizionale, sicuro nel canto benchè avaro di colori. Eccellente la prova del tenore Ivan Magrì nei panni del Duca di Mantova, parte impegnativa affrontata con sicurezza e spavalderia. Il cantante siciliano ha dimostrato di possedere vocalità adatta al ruolo cui ha offerto fraseggio appropriato e convincente espressività. Corretta la Gilda di Linda Kazani dotata di voce squillante, sicura nel registro acuto messo alla frusta dalla scrittura verdiana e buona tecnica di canto mentre è apparsa piuttosto impacciata nella recitazione. Bravo lo Sparafucile di Abramo Rosalen, non memorabili le parti di fianco.

Positiva la prova dell’Orchestra Filarmonica diretta da Alfredo Barchi che ha saputo evitare eccessivi clangori ed effetti bandistici optando per una lettura attenta alle esigenze del palcoscenico. Il maestro è inoltre riuscito a bilanciare adeguatamente orchestra e cantanti nonostante l’impianto di amplificazione privilegiasse sfacciatamente questi ultimi. Al pari lodevole la prova del Coro Filarmonica diretto da Giuliano Fabbro.