20 dicembre 2016

L’Attila di Giuseppe Verdi al Teatro La Fenice

Forse Attila non è un capolavoro, tuttavia c’è in quest’opera acerba e ancora vincolata a stereotipi e rigidità formali più di una traccia di quello che sarà il Verdi della maturità. Il che non si limita a qualche suggestiva anticipazione degli sviluppi musicali e drammaturgici che verranno, ciò che piuttosto emerge già con chiarezza è il più grande talento del compositore: la sensibilità nell'esplorazione dell’animo umano e la capacità di metterlo in musica. Non si parla solamente del dato antropologico o sociale, che è probabilmente nell’Attila quello più affascinante e immediato (lo scontro tra la civiltà vergine, selvaggia, degli Unni e quella rosa dalle sofisticazioni politiche, ormai logora e decadente dei romani), quel che forse è meno lampante ma altrettanto intrigante è l’approfondimento psicologico dei caratteri, sia nei singoli (basti pensare all’ambiguità dapontiana di Odabella), sia nell’impianto generale dell’opera e nel suo costante oscillare tra la speranza e la disperazione.



Tuttavia, come molto del primo Verdi, anche Attila è una miniera di insidie in cui è assai più facile inciampare che esaltarsi. Non è solamente una questione di vocalità anfibia, a metà strada tra il modello belcantista e le suggestioni tardo-ottocentesche, che esige cantanti capaci di coniugare al virtuosismo, tempra e peso specifico. Ciò che, ad oggi, è quasi un miraggio, è restituire piena credibilità ai caratteri, esaltarne le sfumature senza scivolare nel mero esibizionismo vocale né, appunto, ignorarne le necessità in una malintesa esasperazione della drammaticità. E non è nemmeno sufficiente venire a capo delle insidiosissime scritture vocali per tratteggiare Attila nella sua barbarica esuberanza, che è soprattutto una disconoscenza delle regole sociali e politiche quasi parsifaliana, o restituire ad Ezio le ombre del marciume morale, proprie e della sua civiltà corrotta. Insomma che si tratti di personaggi di grande fascino e complessità è fuori di dubbio, che tali specificità riescano ad emergere invece rimane un miraggio nove volte su dieci.

Nello spettacolo appena andato in scena al Teatro La Fenice tutto ciò riesce in modo decisamente convincente, e non è poco.
Se lo spettacolo di Daniele Abbado ha un merito, è di aver in qualche modo riflettuto sulla figura di Attila e averne proposto una chiave di lettura non priva di efficacia, almeno sulla carta. Non c’è niente che riconduca alla figura storica, anzi, la vicenda è ambientata in una contemporaneità vicina e lo scontro tra Romani e Unni assume i tratti del conflitto tra un “sistema istituzionale” e un manipolo di oppositori. Più che un condottiero Attila è un guerrigliero, forse un rivoluzionario, forse un terrorista. Ed è questa l’idea incisiva: la barbarica impetuosità del re degli Unni diventa il cieco idealismo naif di chi vorrebbe minare e distruggere lo “Stato”. Cieco, si diceva, proprio perché disconosce al pari delle convenzioni sociali, nobili o corrotte, le ragioni altrui, e non teme di battezzare col sangue la propria crociata.

Purtroppo il lavoro di Abbado si ferma qui, lasciando il disegno a uno stato di suggestione, neppure immediatamente comprensibile, giacché per quanto riguarda recitazione, movimenti delle masse, rapporto gesto-musica, siamo dalle parti della più innocua a stereotipata tradizione. Peccato.
Scene, costumi e luci di Gianni Carluccio sono funzionali al disegno ma meriterebbero una regia più approfondita.

Sul versante musicale invece le cose vanno benissimo, a partire dal protagonista Roberto Tagliavini che possiede voce di basso piena e rotonda, di timbro affascinante, e una solida tecnica di emissione che gli consente di plasmare il canto con cura ed espressività.
Vittoria Yeo non ha lo spessore vocale necessario a risolvere Odabella in chiave drammatica e pertanto, saggiamente, sposa l’asse verso una liricizzazione della parte che giova non solo alla vocalità del soprano, che esce sempre morbida e mai forzata, ma anche alla credibilità drammaturgica del personaggio.
Stefan Pop è, sotto il profilo strettamente vocale, un eccellente Foresto: il tenore possiede uno strumento spavaldo e saldo in ogni registro, è vario nel fraseggiare e solidissimo nella tenuta.
Difficile trovare un difetto all’Ezio di Julian Kim, baritono dall’emissione sana e rigogliosa che mantiene sempre la linea di canto nei binari tracciati dalla musica, senza cedere alla tentazione di gonfiare le gote.
Completano degnamente il cast Mattia Denti (Leone) e Antonello Ceron, Uldino.

Riccardo Frizza, sul podio dell’Orchestra della Fenice, se possibile ancor più brillante del solito, ha offerto una prova maiuscola. Frizza non teme di sporcarsi le mani con il Verdi di galera e non cerca nell’Attila qualcosa che non c’è, ma esalta piuttosto quello che nella partitura è presente: contrasti, tensioni, impeto e una drammaticità bruciante, senza trascurare la morbidezza e la cantabilità dei momenti spiccatamente lirici. Ci riesce grazie al pieno controllo delle sonorità, dense e compatte ma sempre ben amalgamate, alla cura per il colore, alla brillantezza dei tempi (elettrizzante l’adrenalinica chiusa di secondo atto) e all’uso dell’intero spettro dinamico: i pianissimi sono dei veri pianissimi e autentici sono anche i forti, onesti e liberi dal timore di nascondere quel tanto di ruspante e “volgare” che caratterizza questa musica. La comunicazione col palco è perfetta e, nonostante il volume orchestrale importante, le voci sono ben sostenute e riescono sempre ad emergere con facilità.

Come accennato, l’orchestra si presenta in ottima forma così come è, al solito, eccellente il Coro del Teatro La Fenice preparato da Claudio Marino Moretti.

Successo pieno e meritato per tutti.



Lo Schiaccianoci di Cajkovskij al Verdi di Trieste

Oltre al contesto, c’è un’altra cosa che accomuna Lo Schiaccianoci di Pëtr Il’ič Čajkovskij al Natale: la capacità di contagiare, con il suo clima sospeso e magico, adulti e bambini. O almeno questo è stato l’effetto della produzione appena transitata sul palco del Verdi di Trieste, che si è guadagnata l’entusiasmo pressoché incondizionato del pubblico più eterogeneo e trasversale che si sia visto da queste parti negli ultimi tempi.

I meriti sono da dividersi equamente tra i bravi interpreti (su tutti la delicatissima Clara di Ashley Bouder, il Principe di Andrew Veyette e Valerio Polverari, Drosselmeier dalle linee eleganti) e il collaudato allestimento di Amedeo Amodio, che sigla coreografia e regia.

Tuttavia chi ha forse un poco di merito in più rispetto agli altri è Emanuele Luzzati, che a suo tempo firmò scene e costumi. Il disegno di Luzzati è un’esaltazione del fiabesco e del colore, un mondo poetico, onirico e lontano, che mescola con delicatezza un gusto illustrativo quasi “infantile” a risvolti dai tratti persino inquietanti.



Certo qualche ruga – l’allestimento ha trent’anni – emerge inevitabilmente, più evidente nella realizzazione che nel gusto, ma è poca cosa che poco o nulla inficia la riuscita dello spettacolo, anzi, gli dona una nota malinconica e decadente non priva di fascino.

I momenti topici del racconto sono ben risolti, la narrazione, pur con qualche libertà o riadattamento, è scorrevole e dinamica. La voce registrata di Gabriella Bartolomei ha poi una sua efficacia nel mascherare i tempi morti, sfruttandoli a favore di drammaturgia.

Drammaturgia che è altrettanto ben servita, soprattutto nelle tinte, dall’Orchestra del Verdi, guidata con attenzione e sensibilità ma forse eccessiva prudenza da Alessandro Ferrari.

E infine ci sono loro, i ballerini, che si rivelano all’altezza della situazione ad ogni livello, dalle parti più esposte fino all’ultimo della fila, e si guadagnano il trionfo tributato dal pubblico. La speranza è quella di ritrovare presto il balletto nel cartellone del Verdi, intanto a gennaio si riparte con Il Flauto Magico di Mozart.

1 dicembre 2016

Wayne Marshall e Filarmonica della Fenice

“Signor Gershwin, la musica è musica”. Così parlò Alban Berg che come molti ammirava profondamente il compositore americano e che godeva, forse più di ogni altro, di una sincera stima reciproca. Non deve sorprendere il fatto che uno dei padri della dodecafonia, tra i massimi esponenti della seconda scuola di Vienna, mostrasse posizioni tanto benigne verso un linguaggio senz’altro distante dal proprio ma al quale era accomunato dall’urgenza di esplorare nuovi orizzonti, sia pure in direzioni differenti.


Gershwin, tornato a New York dall’Europa, fece incorniciare una foto di Berg che appese a una parete di casa accanto a quella di Jack Dempsey, pugile campione dei pesi massimi tra il 1919 e il ‘26, e a un sacco da boxe. Non solo, quando il compositore statunitense si diede al teatro con Porgy and Bess aveva ben chiara in testa la lezione dell’austriaco, in particolare il suo Wozzeck cui dedicò più di un riferimento.

Inutile dire che Berg vide lontano, ma non fu il solo. La prima di Rhapsody in blue alla Aeolian Hall di New York nel 1924 si guadagnò un consenso pressoché unanime – in sala erano presenti personalità del calibro di Stokowski e Rachmaninov, entusiasti – e non meno calorosa fu l’accoglienza nel Vecchio Mondo, ove i vari Stravinskij, Ravel, Schoenberg e, appunto, Berg, salutarono con favore questa musica nuova.

Al di là dell’approvazione, sia pur autorevolissima, dei suoi contemporanei, l’importanza dell’opera di Gershwin va riconosciuta anche per l’influenza che ha avuto sulla scuola compositiva americana, ma non solo, del XX secolo. Tra gli epigoni, benché con alterna costanza e convinzione, ci fu anche Leonard Bernstein che pur non risparmiando qualche critica al lavoro del suo ingombrante predecessore ne fu un autorevole interprete.

Pertanto abbinare in un unico programma le produzioni più note di questi due musicisti non può che rivelarsi una scelta vincente, sia per le relazioni storiche, sia per le palesi affinità di linguaggio.

Quella che potrebbe essere fraintesa come musica semplice, tanto per l’immediatezza e la spontaneità comunicativa quanto per il suo affondare le radici anche nei generi più popolari (si tratti di jazz, swing, o le Song di inizio Novecento), è in realtà una materia estremamente complessa da maneggiare e insidiosa, sia tecnicamente, sia per le peculiarità stilistiche che richiede all’esecutore.

Non solo, questa è musica in cui, per riuscire convincenti, bisogna credere profondamente. E Wayne Marshall ci crede con tutto se stesso. Anche per tale ragione il concerto che l’ha visto protagonista, nella doppia veste di pianista e direttore sul podio dell’Orchestra Filarmonica della Fenice, è esitato in un successo clamoroso.

Nella Rhapsody in blue Marshall ci mette molto di suo, omaggiando proprio la prima esecuzione del ‘24 con un Gershwin in veste di pianista facile all’improvvisazione. Non di meno riesce a trovare un pregevolissimo equilibrio dinamico tra il pianoforte solista e l’orchestra, ben sapendo che, come ci sono passaggi in cui il solista ha il dovere di emergere con forza, in altri dev’essere capace di farsi gregario e calarsi tra gli orchestrali, quasi confondendovisi. Se il calore del tocco e la plasticità dei tempi rivelano la perfetta consuetudine con le specifiche del jazz (il segreto del ritmo sta nel ritardo, diceva qualcuno, e in questo repertorio sembra più vero che altrove), mai c’è la concessione a un manierismo o ad effetti a buon mercato, anche quando Marshall si concede certi rallentandi tiratissimi. Dall’orchestra, che è solida spalla per tenuta ritmica e qualità di suono, emergono le ottime parti prime, in particolare l’eccellente il clarinetto di Vincenzo Paci.

Nel poema sinfonico An American in Paris, pur passando dal pianoforte al podio, l’approccio di Marshall rimane il medesimo: estrema vivacità, attenzione ai colori e agli impasti, il tutto unito ad una pregevolissima mutevolezza di dinamiche. Gli scarti ritmici sono netti, gli interventi dei singoli ben esposti ma soprattutto, al di là del grande mestiere nel tenere insieme il tutto, ci sono una vitalità e una gioia di suonare che rapiscono il pubblico.

Oltre a Gershwin, si diceva, c’è spazio anche per Leonard Bernstein e le sue Symphonic Dances, una selezione di danze estrapolate dal musical West Side Story, appositamente riorchestrate dal compositore stesso per una grande compagine sinfonica.

Dopo un Prologo piuttosto guardingo, Marshall si scatena e infiamma con un entusiasmo travolgente quell’orgiastica fusione di ritmi e colori che sono le Danze sinfoniche, in uno sviluppo sempre serrato, quasi burrascoso. Pur mantenendo invariate la tensione e l’energia per l’intera durata del lavoro, e concedendosi qualche sonorità di sfacciata esuberanza, tutto è sempre sotto controllo, gli attacchi puliti e precisi, i suoni ben amalgamati anche quando il volume è consistente. Qualche nota sporca qua e là, qualcuna sollecitata, qualcun’altra che ci scappa per sbaglio, non fanno che accrescere il fascino jazzistico della lettura. Ovviamente se ogni cosa riesce con tanta facilità i meriti principali sono dell’orchestra che, anche in un repertorio così distante dalle frequentazioni più abituali, si comporta alla perfezione.

Se non sorprendono la pulizia e il bel colore degli archi, che ormai sono una piacevolissima costante della Filarmonica della Fenice, lasciano di stucco le eccellenti percussioni, vera spina dorsale delle Danze Sinfoniche. Senza far torto ai colleghi di sezione, merita un elogio la splendida prova di Dimitri Fiorin, giustamente acclamato dal pubblico.

I legni e gli ottoni, sollecitatissimi, non sono da meno e concorrono all’ottima riuscita dell’esecuzione, dimostrandosi duttili nell’assecondare la peculiare tavolozza timbrica della scrittura, qualità che emerge forse ancor più nettamente in Gershwin.

Sulla stessa, entusiasmante linea l’infuocata Ouverture da Candide dello stesso Bernstein.

Biglietti esauriti, trionfo sacrosanto e pubblico in delirio. Dopo un primo bis (Promenade di Gershwin, in cui Marshall dà l’attacco e si defila lasciando i Filarmonici soli sul palco), direttore e orchestra si devono arrendere all’entusiasmo del teatro e replicare a furor di popolo l’Ouverture di Candide, prima di congedarsi tra gli applausi.

Rigoletto apre la stagione lirica del Verdi di Trieste

Il 28 aprile del 1950 Giuseppe Verdi scrive a Francesco Maria Piave “…avrei un altro sogetto che se la polizia volesse permettere sarebbe una delle più grandi creazioni del teatro moderno… è immenso, ed avvi un carattere che è una delle più grandi creazioni che vanti il teatro di tutti i paesi e di tutte le epoche. Il sogetto è Le Roi s’amuse, ed il carattere di cui ti parlo sarebbe Tribolet…”. Non solo. Poco più in là Verdi sollecita il librettista a “correre per la città” in cerca di una “persona influente” che possa consentire la messa in scena di un tema tanto delicato, o per meglio dire di “ributtante immoralità ed oscena trivialità” (parole del Governatore veneziano). Insomma che Rigoletto sarebbe stato qualcosa di scomodo è chiaro a tutti fin da subito e le note vicissitudini con la censura stanno lì a testimoniarlo.

Foto Fabio Parenzan

Cosa nel lavoro di Hugo appassionasse il compositore diventa lampante quando, pochi giorni più tardi (l’8 maggio), definisce Triboletto una creazione degna di Shakespeare. Infatti lo è. Lo è per la coesistenza di diversi registri, di tragico e grottesco, di orrido e sublime, per l’universalità di temi e sentimenti che vi sono racchiusi, i più bassi e vili assieme alle virtù più nobili. Lo stesso protagonista, mordace e spietato buffone deforme ma al contempo padre capace di una smisurata umanità tra le mura di casa, esemplifica al massimo livello la complessità shakespeariana del Rigoletto. E, si badi, tutto ciò emerge dalla musica come dal libretto.
Questa premessa è necessaria per chiarire il giudizio sulla produzione firmata da Jean-Luois Grinda che ha inaugurato la stagione lirica del Teatro Verdi di Trieste.

Se Rigoletto non è inquietante, disturbing, se non suscita nello spettatore un misto di pietà e disgusto, di empatia e ribrezzo, a cosa serve? Bisognerebbe chiederlo a Grinda, il quale annacqua e congela ogni emozione in una placida eleganza che può soddisfare forse il senso estetico ma che non riesce ad esplorare le pieghe più oscure di questo capolavoro.

Insomma, non fosse per le scene austere e atemporali di Rudy Sabounghi, né belle né brutte, saremmo di fronte all’ennesimo spettacolo di polverosa tradizione, ove ogni personaggio fa quello che ci si aspetta, ricalcando gli stereotipi più rassicuranti, con tutti i tic e i luoghi comuni operistici radicati nell’abitudine. Non che ci siano particolari demeriti nella conduzione degli artisti: la recitazione è convenzionale ma non trascurata, le masse sono ben manovrate (merito senz’altro di Vanessa d’Ayral de Sérignac che ha curato la ripresa triestina), eppure lo spettacolo non riesce a smuovere quella patina di superficialità e onesto mestiere su cui sembra adagiarsi. Le poche idee paiono raramente vincenti mentre più spesso risultano avulse o incoerenti.
Molto efficace il disegno luci di Laurent Castaingt, soprattutto nel primo atto.

Foto Fabio Parenzan
Sul fronte musicale le cose vanno decisamente meglio. Fabrizio Maria Carminati è un direttore che garantisce sempre una buona tenuta narrativa e musicale. Magari non emergono particolari finezze o dettagli illuminanti ma ci sono, in compenso, una sensibilità per il teatro ed un’attenzione alle necessità del palco – non intese come capricci, sia chiaro – assolutamente preziose. La concertazione è attenta: il suono è equilibrato, le sezioni orchestrali fuse con sapienza.
Si avverte tuttavia, nel complesso, un’eccessiva uniformità nelle dinamiche che alla lunga muta in piattezza (un po’ di coraggio in più nel volume, in certi momenti, non spiacerebbe). Merita sicuramente un plauso la rinuncia a molti vezzi di tradizione, purtroppo non tutti (l’insopportabile modulazione prima di “Sì vendetta” è ancora al suo posto illegittimo).
Risponde alla perfezione l’Orchestra del Verdi di Trieste, al solito affidabilissima per precisione e qualità.

Ascoltando e guardando Sebastian Catana si percepisce chiaramente un lavoro approfondito di studio della parte: l’accentazione, i colori, le dinamiche, tutto è ben pensato e rifinito. Ciononostante questo Rigoletto non convince totalmente, un po’ per la convenzionalità dell’interpretazione, che per quanto varia risulta troppo saputa e prevedibile, un po’ per certi limiti nell’emissione, soprattutto quando la tessitura si fa acuta, con la voce che tende a restare in gola e uscire opaca.

Antonino Siragusa ha senz’altro tutte le note della parte nonché una solidità tecnica che gli consente di affrontare ogni registro senza sbavature d’emissione né di intonazione, proiettando il suono con facilità. Certo la voce è, più per timbro che per peso, lontana dalla pienezza lirica che siamo abituati ad associare al Duca di Mantova e a tratti (duetto con Gilda nel primo atto, Aria nel secondo), pare soffrire un po’ la scrittura. Va detto che, trattandosi di un debutto assoluto, Siragusa avrà modo di aggiustare i minimi problemi, portando a completa maturazione la parte.

Aleksandra Kubas-Kruk, Gilda, alterna cose pregevolissime (un ottimo Caro nome) a momenti di difficoltà, soprattutto nel secondo atto. La voce è di bel colore e, benché leggera, corre con facilità in sala, ma non è sempre ben controllata: gli acuti ad esempio riescono a volte alla perfezione, altre striduli e fissi; il fraseggio andrebbe ulteriormente rifinito.

Lo Sparafucile di Giorgio Giuseppini è solido e imponente ma, complici alcune scelte registiche, a tratti eccessivamente ruvido. Vocalmente impeccabile la brava Antonella Colaianni, purtroppo mortificata da una regia che la costringe a ricalcare il trito stereotipo della Maddalena seduttrice caricaturale.
Pregevole il Monterone di Frano Lufi, all’altezza della situazione tutti gli altri.

Ottima la prova del Coro del Verdi che, sotto la guida di Francesca Tosi, pare aver ulteriormente guadagnato in compattezza e pienezza dell’amalgama.

Teatro pienissimo e pubblico entusiasta, bene così.