28 dicembre 2013

La Messa di Requiem di Verdi al teatro Verdi di Trieste

Con la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi il teatro triestino termina gli appuntamenti in cartellone per la stagione di musica sinfonica, in attesa di inaugurare a gennaio quella di opera e balletto con Un Ballo in Maschera, altro capolavoro del bussetano. 

Nota è la genesi del lavoro verdiano, dedicato alla memoria di Alessandro Manzoni, figura verso cui il compositore ha sempre nutrito un’ammirazione profonda e sincera, come testimoniano, ancor prima del Requiem stesso, diversi passaggi biografici facilmente rintracciabili nell’epistolario. Centrare la natura del lavoro, per stile e sensibilità affatto unico nel panorama della musica sacra, rimane ad oggi una sfida affascinante per l’interprete che vi si pone di fronte. Il dilemma di individuare quale sia il carattere della messa, quale la sua anima o il suo messaggio e in quale posizione collocarlo rispetto alla produzione operistica verdiana (che inevitabilmente si intravede tra le pagine del requiem) è affare tutt’altro che risolto ed è compito del direttore scegliere una direzione interpretativa, in base alla propria sensibilità e formazione.

Gianluigi Gelmetti, a capo dell’orchestra del Teatro Verdi, opta per una lettura di buon passo, privilegiando l’aspetto teatrale ed epidermico della musica. Il maestro dimostra di saper reggere la tensione senza cedimenti, con mestiere e buon senso, senza ricercare calligrafismi od approfondimenti eccessivi. Gelmetti sceglie tempi sostenuti, così da andare incontro alle esigenze dei solisti e dell’orchestra, meno brillante che in altre occasioni. Piace la compattezza di suono e la precisione: la pulizia degli attacchi e la varietà di dinamiche evidenziano il buon lavoro di concertazione, mentre lascia qualche perplessità la cura del colore e della qualità di suono (soprattutto gli archi non sono in forma smagliante) e piacerebbe una maggiore trasparenza. Al solito convincente il coro preparato da Paolo Vero.

Luci ed ombre nelle prove dei quattro solisti. Convince Laura Polverelli per stile e musicalità; la voce, benché di modesto volume, suona uniforme e ben emessa, ottimi il gusto nel porgere ed il fraseggio.
Il tenore Gianluca Terranova, forse in non perfette condizioni vocali, mostra diverse opacità e spoggiature nella mezzavoce mentre il registro acuto pare meno brillante che in altre occasioni. Lasciano buone impressioni tuttavia i tentativi di alleggerire il canto e di lavorare sulle dinamiche.
Enrico Iori fornisce una prova positiva: la voce, di buon volume e colore, risulta omogenea e ben controllata; il basso sceglie di leggere il capolavoro verdiano accentuando la sua dimensione teatrale – impostazione che taluni potrebbero trovare fuori stile – lavorando sulla parola e sull’accento.
Rachele Stanisci, soprano, a dispetto di una voce poco affascinante per qualità intrinseche, palesa buone intenzioni (che non sempre trovavano realizzazione) cercando un canto sfumato ed espressivo, soprattutto nel libera me. Purtroppo la voce evidenzia non poche asperità e forzature nel registro acuto, soprattutto nella prima parte di concerto.

12 dicembre 2013

Il Messiah di Händel diretto da Ton Koopman

Il nome di Ton Koopman è indissolubilmente legato alla rinascita del barocco avvenuta negli ultimi decenni del secolo scorso, vero e proprio pioniere nella riscoperta del repertorio e soprattutto nella ricerca di una prassi esecutiva filologica. Non sorprende dunque che il Teatro Verdi di Pordenone proponesse il Messiah per soli, coro e orchestra di Händel , diretto dal maestro olandese alla guida della sua Amsterdam Baroque Orchestra, tra gli appuntamenti di spicco della stagione di musica.


Figura di intellettuale, saggista e studioso ancor prima che di musicista, già al solo ascolto si intuisce quanto Koopman privilegi su tutto l'analisi strutturale dell'opera: c'è, nell'apollinea perfezione e nell'approfondimento musicologico che Koopman fa della partitura una certa meccanicità, questo è innegabile, si direbbe quasi una contemplazione statica del genio compositivo che tende a mettere in secondo piano la componente emotiva e teatrale della musica. I minimi difetti vengono tuttavia ampiamente bilanciati dall'ammirevole ricchezza di sfumature e dalla profondità di analisi del lavoro, resa possibile da un'orchestra eccellente per nitore di suono, trasparenza e pulizia. L'Handel di Koopman è un prodigio di equilibri, ogni voce strumentale è posta sotto la lente di ingrandimento, ad esaltare la complessità contrappuntistica della scrittura orchestrale, pur senza perdere il senso generale dell'architettura dell'opera (e qui si apprezza la lunga consuetudine del maestro con il capolavoro handeliano). Per il gusto odierno è forse mancata una più decisa sottolineatura della forza drammatica di certe pagine ed una cura del fraseggio che emancipasse l'esecuzione dallo stato di sola realizzazione musicale, benché inappuntabile, conferendogli una compiutezza drammaturgica che è mancata, soprattutto nella distinzione dei caratteri affatto diversi delle tre parti che compongono il Messiah.

Vero protagonista dell'oratorio handeliano è il coro, nel caso specifico l'Amsterdam Baroque Choir, diretto da Frank Markowitsch. Non possiamo che lodare il cimento della compagine olandese, sia per la pertinenza stilistica, sia per la realizzazione tecnica. Colpiva, al di là dell'impeccabile esecuzione musicale, la chiarezza di dizione, ottenuta grazie ad un'emissione scoperta, meno rotonda e strumentale rispetto a un coro che frequenti repertori posteriori, ma non per questo meno pregevole.
Positive nel complesso le prove dei quattro solisti. Piaceva molto, a dispetto di una voce piccina, il controtenore Maarten Engeltjes, per colore, morbidezza d'emissione e musicalità. Corretto il tenore Jörg Dürmüller, cantante di timbro ordinario ma di buon gusto. Il basso Klaus Mertens esibiva una vocalità chiarissima, dal timbro quasi tenorile, ma omogenea e sonora, ottima pronuncia ma stile ed agilità perfettibili. Non impeccabile il soprano Johannette Zomer che palesava difficoltà nel registro acuto, fisso e faticoso nei passaggi di agilità.
A fine concerto ottima accoglienza del pubblico pordenonese con punte di entusiasmo per il maestro Koopman.

28 novembre 2013

L’Africaine di Meyerbeer inaugura la stagione della Fenice di Venezia

Fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile, anche per il teatro più ambizioso, investire su un Grand Opéra. Non tanto per l’impegno economico quanto piuttosto per un’estraneità estetica alla sensibilità contemporanea. Com’è noto, tuttavia, nulla è più aleatorio delle mode e dei gusti, siano pure gusti su ampia scala – potremmo chiamali, a fare i fini, spirito del tempo – e, negli ultimi periodi anche il Grand Opéra, negletto e squalificato, ha riconquistato uno spazio non indifferente all’interno delle programmazioni teatrali europee. 
Quando è moda è moda. E in fin dei conti quanto si chiede ad una buona direzione artistica è, se non di dettarle, le mode, almeno di seguirle, magari cercando di aggiungervi qualcosa di proprio. In quest’ottica va dato merito al Teatro la Fenice e alla scelta coraggiosa di puntare su Meyerbeer e sulla sua Africaine. Un’Africaine rimaneggiata nella musica e, conseguentemente, nella drammaturgia, ridimensionata nei tempi e nello spirito ma non per questo priva di interesse.



Certo l’opera, dalla genesi travagliata e quasi abortita, non è tra le più riuscite, sia per la trama zoppicante ed improbabile, sia per la musica di alterna ispirazione e tutto ciò rende ancora più rischiosa la scommessa del teatro e probante l’impegno degli artisti coinvolti nella produzione. Per la protagonista ad esempio: non si scappa, quando un’opera, per limiti intrinseci, fatica a stare in piedi, la presenza di un artista che sappia catalizzare su di sé e sul proprio carisma l’attenzione, diventa basilare per la riuscita dello spettacolo. 

Veronica Simeoni è una buona Selika. La voce è di bel colore, il canto curatissimo e costruito sulla parola, il gusto sorvegliato. Manca ancora al giovane mezzosoprano la personalità necessaria a risolvere un personaggio che porta sulle spalle il peso di una drammaturgia debole.

Sorprendente, ancora una volta, Gregory Kunde. La voce, pur lasciando intravedere qualche ruga, si impone per volume e proiezione, la musicalità è ottima, la gestione delle dinamiche di alta scuola (basterebbe citare la magistrale esecuzione dell’aria del quarto atto). L’attore è old style ma, a suo modo, magnetico e risolve con credibilità un personaggio dai tratti improbabili. Non impeccabile la prova di Jessica Pratt nei panni di Inès; sorprende ravvisare alcune macchie nella pulizia della linea e nell’intonazione in una cantante come la Pratt che ha fatto della perfezione tecnico-strumentale del canto il proprio punto di forza.

Angelo Veccia è un Nélusko di temperamento, poco incline alla finezza ma molto efficace e credibile. Buono il Don Pédro di Luca Dall’Amico, di bella voce e presenza, non impeccabile il gran sacerdote di Brahma di Rubén Amoretti. Piace Emanuele Giannino, Don Alvar; all’altezza tutte le parti minori.

Emmanuel Villaume dirige il tutto con molto buonsenso e poca fantasia. Eccellente, come di consueto, il coro del teatro veneziano.

Leo Muscato disegna un allestimento didascalico e, in fin dei conti innocuo, che segue passo passo il libretto aggiungendovi ben poco (fatte salve alcune proiezioni video di cui non si sarebbe sentita la mancanza). Tradizionali le scene di Massimo Checchetto, giocate tra ricostruzioni oleografiche e richiami ad un esotismo indiano di stampo bollywoodiano. Non c’è molta fantasia ma una solida e rassicurante professionalità: il regista, dovendo scegliere tra l’assecondare la grandiosità kitsch del Grand Opéra o ripensare la drammaturgia, sceglie di non scegliere, restando in una zona neutra che non scontenta nessuno. Muscato ha il merito non indifferente, forte anche dei notevoli tagli alla partitura, di reggere la tensione teatrale infondendo buon ritmo allo spettacolo; la narrazione è scorrevole, la recitazione curata pur scadendo a volte nello stereotipo operistico.

Paolo Locatelli
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17 novembre 2013

La Taiwan Philarmonic e Viviane Hagner al Giovanni da Udine

Non capita spesso di ascoltare una compagine che sappia unire all'eccellenza – e di eccellenza è davvero lecito parlare – musicale e tecnica una qualità di suono ammirevole per trasparenza e morbidezza. Probabilmente in molti hanno pensato, dopo l'impalpabile attacco dell'orchestra nel Concerto in re minore di Jean Sibelius, che la speranza di ascoltare una grande serata di musica stava concretizzandosi. E così è stato.
Il terzo appuntamento della stagione del Teatro Nuovo Giovanni da Udine, che vedeva impegnati la National Symphony Orchestra di Taiwan, altrimenti nota come Taiwan Philarmonic, la bacchetta di Shao-Chia Lü e lo Stradivari di Viviane Hagner, è stato un successo.


Già il primo brano in programma, l'ouverture Le carnaval romain di Berlioz, metteva in luce l'assoluta pulizia tecnica della Taiwan Philarmonic (l'impeccabile sincronismo degli archi, la limpidezza di legni ed ottoni) pur lasciando qualche riserva sulle sonorità secche ed aguzze scelte dal direttore (il confronto con la pienezza e la rotondità di suono in Sibelius evidenziano che di scelta si trattava). Non che ci fosse meccanicità in questo Berlioz, tutt'altro, ma una certa austerità di fondo che, pur esaltando il nitore orchestrale e contrappuntistico, non restituiva il brano in tutta la sua dirompente vitalità. Non si esclude che tale impostazione mirasse ad emancipare la composizione dall'impronta operistica - non si dimentichi che il carnevale romano nasce come “riciclaggio” di spunti musicali contenuti nel Benvenuto Cellini, dopo la disastrosa accoglienza alla prima - ed elevarla, se così si può dire, a composizione sinfonica a tutti gli effetti.

Come detto, ben altro spessore, sia in termini di cura del suono, sia di fraseggio, aveva il Concerto in re minore per violino e orchestra op. 47 di Sibelius. Molto positiva anche la prova della violinista Viviane Hagner la quale proponeva un Sibelius asciutto ed essenziale, senza indugiare in effetti di facile presa o sovraccaricare la scrittura del concerto, già di per sé stessa piuttosto ammiccante. Qualche suono sporco e minimi difetti di intonazione toglievano davvero poco all'esecuzione della musicista tedesca.
Il brano Breaking Through della giovane compositrice Ming-Hsiu Yen, presente in sala, probabilmente non lascerà traccia nella storia della musica ma ha il pregio di mettere in vetrina la vastità di risorse cromatiche e la purezza di suono dell'orchestra. Un lavoro di facile presa, piacevole e ben confezionato, che mescola con astuzia molto di già sentito a qualche buona idea. Lü sapeva ricavarne un caleidoscopio di colori ed impasti, coadiuvato da un'orchestra lodevole.

Con la Settima Sinfonia in La maggiore di Beethoven si aveva la conferma definitiva di trovarsi di fronte a una compagine di ottimo livello e a un direttore di grande sensibilità. Shao-Chia Lü sceglieva tempi per lo più rapidi, facendo proprio il gusto dominante che vuole un Beethoven meno romantico e più illuministico di quanto usasse in passato. Nonostante l'organico orchestrale rispecchiasse un'impostazione tradizionale, con un netto sbilanciamento in favore degli archi, il direttore sapeva mantenere una sorprendente leggerezza di suono, restituendo una Settima asciutta ed elegante, calibrata al millimetro negli equilibri orchestrali e nelle dinamiche, sfumate in tutte le gradazioni che vanno dal pianissimo più sussurrato al forte più terso e compatto. L'orchestra suonava con straordinaria bellezza timbrica e precisione (fatti salvi un paio di pasticci dei corni); basterebbe citare la delicatezza dell'ingresso di violoncelli e viole nell'allegretto o il perfetto contrappunto e l'esattezza ritmica delle varie sezioni nel terzo movimento. L'analisi capillare della partitura e la perizia esecutiva non celavano alcuna freddezza ma piuttosto un razionalismo che indirizzava l'interpretazione verso un trionfale ottimismo, esaltando quell'idea di armonia e gioia che è colonna portante della sinfonia.

Grande successo di pubblico sia per Shao-Chia Lü e la sua orchestra, sia per la Hagner che hanno omaggiato il teatro con due bis.

11 novembre 2013

Nobuyuki Tsujii al Giovanni da Udine

Quando ci si trova di fronte ad un artista come Nobuyuki Tsujii, capace di imporsi giovanissimo con un consenso di pubblico degno di una stella della musica leggera, è inevitabile interrogarsi sulle ragioni, al di là dei giochi di marketing, della particolarissima storia personale (che senz'altro incide), al di là della tecnica stessa che, benché fenomenale, non sorprende più di altre. Tsujii è di più, è un artista capace di parlare al presente. Lo si capisce quando nel suo Rachmaninov si ascolta un musicista che sviluppa il discorso in modo da raccogliere le istanze della musica contemporanea, mescolando una veemenza quasi rockettara ad un'esasperazione delle dinamiche che ricorda da vicino l'approccio di certi specialisti del barocco, il tutto condito da suggestioni jazzistiche nella gestione della frase e del ritmo. Non ci sono le buone maniere e forse nemmeno la profondità di analisi dei grandi interpreti del passato ma una forza immediata, di grande impatto emozionale.

Proprio Nobuyuki Tsujii, accompagnato dai Münchner Symphoniker diretti da Andriy Yurkevych, era il protagonista del secondo appuntamento stagionale per il cartellone di musica e danza del Teatro Nuovo Giovanni da Udine.

Nobuyuki Tsujii interpretava il Concerto n.2 op.18 per pianoforte e orchestra di Rachmaninov con temperamento. Il suono era pulitissimo, fluido, senza inciampi, i pianissimi nitidi, le cadenze snocciolate alla perfezione. Il pianista risolveva l'opera senza intellettualismi, dandone una lettura epidermica, giocata sui contrasti e sulla dinamica piuttosto che sul colore. Ne usciva un concerto compatto, senza cali di tensione, travolgente proprio in ragione della grande immediatezza comunicativa. Andriy Yurkevych lo accompagnava senza invadenza, con buon suono e qualche eccesso di pesantezza. È mancato ai Münchner Symphoniker lo spessore sinfonico della grande orchestra ma nel complesso la prova piaceva e convinceva.

Accolto trionfalmente dal pubblico, Tsujii ringraziava con la parafrasi di Liszt del quartetto del Rigoletto, dando ulteriore prova di funambolico magistero tecnico.

Nella seconda parte di concerto il programma prevedeva Brahms, compositore tra i più scomodi e provanti: la perfezione apollinea della scrittura e l'equilibrio di colori ed impasti fanno dei suoi lavori spietate cartine al tornasole per ogni compagine che li affronti. I Münchner Symphoniker non sono una formazione di primissimo livello e Yurkevych non ha la statura del grande interprete - almeno non ancora - e ciò inevitabilmente traspare nella trasparenza della Quarta sinfonia op.98. Una Quarta ordinaria, di discreta routine. L'orchestra suonava con precisione non sempre irreprensibile alternando momenti pregevoli (su tutti l'allegro giocoso, energico e compatto) ad altri meno felici (l'allegro non troppo e l'andante evidenziavano difetti di amalgama e, non di rado, di intonazione). Non lasciava impronta la direzione cauta e generica di Yurkevych, più attento a fare tornare i conti che ad imprimere un'idea del proprio Brahms.

Buon consenso di pubblico, pur senza l'entusiasmo riservato a Tsujii, anche per la quarta.

7 novembre 2013

Nabucco al Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone

Unico appuntamento operistico della stagione, il Nabucco verdiano giunge al Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone in un allestimento firmato da Stefano Poda per regia, scene, luci e costumi, che convince a metà.


La scena, fissa per tutta la durata dell'opera, riproduce un ambiente chiuso, claustrofobico, quasi un bunker cementizio dal cui soffitto pendono, capovolti, dei cadaveri mummificati. Tutto qua. Per il resto, fatto salvo qualche gioco di luci indovinato, tutto è statico, immobile. L'impostazione registica annulla la dimensione corale dell'opera per ridurla a dramma privato, puntando in sostanza sul suo versante più debole. Tutto ciò che richiama, o dovrebbe ricondurre, all'imponente macchinario storico (la vicenda che, benché posta sullo sfondo, è la vera protagonista dell'opera), è solamente accennato, o, nei momenti in cui davvero non se ne può fare a meno, quasi subito. Rimane la vicenda famigliare di Nabucco che, di per se stessa, è poca cosa e che, per convincere, avrebbe bisogno di ben altro approfondimento registico e drammaturgico. Invece il lavoro su solisti e masse è minimo, i caratteri sono appena abbozzati o risolti per sommi capi, l'analisi sulla psicologia – per quanto consentito dal non ispiratissimo libretto di Solera – grossolana.
Fortunatamente su ben altri livelli si collocava l'esecuzione musicale.

Fabián Veloz era un buon protagonista più per ragioni interpretative che vocali. Lo strumento del baritono non impressiona per virtù intrinseche ma è ben gestito, con tecnica appropriata, in un canto lavorato sulla parola e sui colori. Veloz piaceva particolarmente nell'aria Dio di Giuda, cantata con partecipazione e gusto. 
Tiziana Caruso sapeva risolvere l'insidiosissima parte di Abigaille grazie ad una voce ampia ed estesa, modulata in un canto sorvegliato e curato nel fraseggio. Ottima la resa dell'aria del secondo atto con relativa cabaletta per morbidezza di emissione, accento e pulizia della linea. Solo gli estremi acuti mostravano alcune asperità o forzature.

Michail Ryssov dimostrava di possedere, a dispetto di una voce non immune da opacità, tutte le note che la scrittura di Zaccaria richiede. Alcuni problemi di intonazione e un registro acuto faticoso erano ben compensati dalla personalità e dall'autorevolezza scenica del basso.
Molto buona la prova di Marina Comparato, Fenena di bel timbro ed ottima musicalità.
Alejandro  Roy, nei panni di Ismaele, palesava una vocalità faticosa e forzata nel passaggio che sapeva tuttavia espandersi in acuti luminosi e ben timbrati.
Gabriele Sagona prestava al Sacerdote di Belo voce di bella pasta e buon volume; positive le prove di Lara Matteini (Anna) e del tenore Alessandro Cosentino (Abdallo).

Michael Guettler, alla guida dell'Orchestra del Teatro Verdi di Trieste, offriva una prova di buon senso, mirata a sostenere la narrazione ed il palcoscenico piuttosto che a ricercare il preziosismo orchestrale. Una direzione dal passo teatrale molto agile, sostenuta nei tempi e ben calibrata nei volumi in cui si è tuttavia sentita la mancanza di un maggiore approfondimento del fraseggio e del suono come di una più intensa partecipazione nei momenti scopertamente lirici. Molto buona la prova del coro del teatro triestino, preparato da Paolo Vero.

A fine spettacolo accoglienza calorosa per tutti da parte del pubblico pordenonese, con punte di entusiasmo per Tiziana Caruso e Fabián Veloz.

15 ottobre 2013

Madama Butterfly secondo Meir Wellber

A pochi mesi di distanza dal debutto, il Teatro La Fenice ripropone la Madama Butterfly prodotta in collaborazione con la Biennale di Venezia nell’ambito della cinquantacinquesima Esposizione Internazionale d’Arte.

Lo spettacolo, grazie al cambio di protagonista ed a un maggiore approfondimento nella direzione d’orchestra, affidata allo stesso Omer Meir Wellber, finisce per convincere molto più di quanto avesse fatto in precedenza. Il direttore israeliano si è reso protagonista di un’ottima prova, per ricerca musicale, per qualità dell’orchestrazione e, soprattutto, per la straordinaria coerenza narrativa. Una lettura bruciante, travolgente, davvero notevole per intensità teatrale e per la cura dei dettagli.

Fiorenza Cedolins è una Cio-Cio-San nota al pubblico operistico da diversi anni, sia per la qualità del canto, sia per lo spessore interpretativo. La voce del soprano, pur non avendo più la freschezza di qualche tempo fa, si distingue ancora per pregio timbrico e controllo tecnico, il fraseggio e la consapevolezza interpretativa sono, al solito, eccellenti. 

Solido il Pinkerton di Andeka Gorrotxategui mentre Elia Fabbian è uno Sharpless possente ma poco incline alle sfumature. Commovente la Suzuki della brava Manuela Custer.



Lo spettacolo, con le scene dell’artista Mariko Mori e la regia di Àlex Rigola, spoglia l’opera pucciniana di ogni traccia di oleografia: l’oriente idealizzato del libretto scompare in favore di un’astrattezza generale, o per meglio dire, assenza d’identità. L’ambiente fisso è costituito da una scenografia completamente bianca e nuda, un ambiente vuoto ed impersonale di asettica pulizia, la recitazione dei solisti è stilizzata, ridotta all’osso, ogni eccesso od enfasi eliminati in favore della miniaturizzazione del gesto. In disparte alcune danzatrici accompagnano la narrazione, un unico elemento scenico e alcune videoproiezioni completavano il quadro.

Quello che rimane, in fin dei conti, non è molto. Oltre all’impatto esteticamente piacevole dell’insieme, manca una chiave di lettura univoca e coerente della vicenda di Butterfly, qualcosa che identifichi ed esplichi l’idea drammaturgica di fondo. C’è, e piace ravvisarlo, il progressivo accentuarsi della condizione di perdita di Butterfly, la quale, in un mondo che parrebbe essere proiezione del proprio desiderio (o della fantasia) piuttosto che reale, si trova a dover rinunciare progressivamente all’affetto del padre, della famiglia, del marito ed infine del figlio. La scena, inizialmente affollata e confusa diviene via via sempre più scarna e desolata, il terzo atto è un gioco di solitudini e distanze che rendono efficacemente l’ormai irreversibile incapacità della protagonista di interagire con il mondo di cui faceva parte e da cui è stata abbandonata.

Pordenone: la prima stagionale per la ricerca

Si è aperta con un concerto fuori abbonamento, i cui proventi saranno devoluti al Centro di Riferimento Oncologico di Aviano, la stagione 2013-2014 del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone. Un'iniziativa che unisce alla nobiltà d'intenti l'altrettanto apprezzabile proposito, ben esposto a inizio serata dal neo direttore artistico Maurizio Baglini, di incrementare la collaborazione tra il teatro e le altre eccellenze pordenonesi, estendendo ulteriormente la già ricca offerta del Verdi.
Protagonisti della serata lo stesso Baglini, nella veste di pianista che lo ha reso celebre ed acclamato nel mondo, e la Filarmonica Toscanini di Parma diretta da Massimiliano Caldi con un programma prevalentemente russo (il secondo concerto per pianoforte e orchestra di Rachmaninov e la quinta sinfonia di Čaikovskij), impreziosito da una concessione al grande repertorio operistico italiano, doveroso omaggio al bicentenario dalla nascita di Giuseppe Verdi.

Proprio Verdi, con la Sinfonia dal Nabucco, dava inizio a concerto e stagione. Massimiliano Caldi, alla guida di un'orchestra precisa e compatta, optava per una lettura corrusca ed energica, intesa a restituire l'impeto popolano e l'ardore tipici del primo Verdi piuttosto che a ricercare il preziosismo orchestrale o il dettaglio.

Il Concerto N.2 Op.18 per pianoforte e orchestra, presentato da Sergej Rachmaninov nel 1901, è un lavoro tra i più celebri e frequentati dell'intero repertorio. Forte di una scrittura in cui l'intensità emotiva ed il patetismo post romantici si fondono ad un virtuosismo strumentale di alta scuola, il concerto si impone come banco di prova tra i più ardui per un musicista, sia per le sollecitazioni tecniche ed espressive, sia per gli impegnativi paragoni con la grande tradizione interpretativa.

In un'esecuzione complessivamente molto buona piacevano soprattutto la morbidezza strumentale e la bellezza timbrica con cui Baglini affrontava la pagina, in particolar modo l'avvio dell'adagio delineava un'atmosfera sospesa che è stata raccolta solo in parte dall'ingresso di flauto e clarinetto. Suonava altrettanto affascinante e prezioso il raffinato dialogo ritmico tra pianoforte e orchestra del terzo tempo, culminato con un allegro scherzando connotato di sottile ironia. Meno a fuoco è parso il primo tempo del concerto (moderato) in cui gli equilibri orchestrali hanno evidenziato alcune imperfezioni sia nel bilanciamento dei volumi, con il solista spesso sovrastato dall'orchestra, sia nella sinergia di intenti in alcuni passaggi tra i più concitati.
Il programma proseguiva con la Sinfonia n. 5 in mi minore, op. 64 di Pëtr Il’ič Čaikovskij, opera di straordinario fascino e raffinatezza in cui il compositore sviluppa ulteriormente il problematico rapporto dell'uomo con il destino - o meglio con l'ineluttabilità dello stesso - già avvicinato nel precedente lavoro sinfonico. Sin dall'andante iniziale si percepiva come tale suggestione fosse letta da Caldi attraverso il filtro della malinconia - o al limite della  disperazione - piuttosto che come ritorsione rabbiosa e violenta al fatum stesso. Il colore cupo pur senza essere mai greve, l'impeto trattenuto, l'equilibrio quasi austero nei momenti di fortissimo, restituivano un Čaikovskij intimamente sofferto ma mai esteriore.
Molto buona la resa dell'Andante cantabile dove allo straniamento malinconico del corno subentrava l'ottimismo degli archi, quindi dell'intera orchestra, con tinte tenui di commovente delicatezza. L'allegro moderato evidenziava ottima consapevolezza tecnica e precisione orchestrale ma non altrettanta fantasia mentre la magniloquenza del grandioso finale, con il tema del destino ripreso e celebrato in maggiore, veniva risolto trionfalmente ma senza la brillantezza di suono che ci si aspetterebbe.
Dal punto di vista squisitamente tecnico si apprezzavano la compattezza sonora dell'orchestra, a onor del vero a scapito della trasparenza, la morbidezza e la pulizia degli attacchi, l'impeccabile adesione alle suggestioni ritmiche offerte dal podio. Rimanevano alcune perplessità per la scarsa consuetudine della compagine orchestrale con un repertorio che siamo abituati ad associare ad altre sonorità e varietà di colori: la Toscanini, benché precisa e musicalmente inappuntabile, non è riuscita a restituire completamente, forse per una precisa scelta interpretativa, la ricchezza di colori e alchimie cromatiche che questi capolavori, soprattutto la Quinta di Čaikovskij , metterebbero a disposizione.
A fine concerto accoglienza molto calorosa del pubblico pordenonese per il maestro Caldi e l'orchestra così come entusiastica è stata la risposta alla performance di Maurizio Baglini, lungamente applaudito.

Teatro Nuovo Giovanni da Udine: Apertura della stagione 2013-2014

Il Teatro Nuovo Giovanni da Udine, pur rappresentando una realtà defilata e apparentemente ai margini dei giri di maggiore richiamo, offre, ormai da diversi anni, stagioni di primissimo livello con protagonisti di caratura internazionale.
Non sorprende quindi ritrovare, ad inaugurare la stagione 2013-14, Tugan Sokhiev, direttore tra i più affermati e celebri della sua generazione, alla guida della Deutsches Symphonie Orchester Berlin, accanto al pianista Boris Berezovskij, in un programma interamente dedicato al Novecento russo.

La Suite Scita op. 20 di Sergej Prokof'ev nasce come rielaborazione di un'idea musicale originariamente destinata al balletto “Ala e Lolli” cui il musicista si vide costretto a rinunciare quando i lavori erano già in fase avanzata; è dunque inevitabile che rimanga nell'opera un'impostazione narrativa che avvicina questa composizione alla musica a programma. Sokhiev leggeva il lavoro enfatizzando la violenza - o sarebbe forse il caso di dire “la ferocia”, stando alle indicazioni del compositore stesso - ed individuando nel rigore ritmico e nell'asciuttezza di suono e fraseggio i cardini della propria interpretazione. L'orchestra suonava scattante e puntuale, capace di reggere l'ampia escursione dinamica imposta dal podio, nei pianissimi soffusi e sempre a fuoco come nelle esplosioni in fortissimo, quasi rabbiose, di grande compattezza e luminosità.

Non stupisce che la stessa orchestra sapesse, poco più tardi, defilarsi nel ruolo di accompagnatrice del pianista Boris Berezovskij nel Concerto n. 2 op. 102 per pianoforte e orchestra dello stesso Prokof'ev, trovando la morbidezza e l'equilibrio necessari a sostenere il solista. Solista che stemperava il rigore martellante del concerto con leggerezza quasi salottiera, proponendo un'interpretazione coerente ma forse non perfettamente allineata all'idea del podio, meno incline a prendere poco sul serio questo Prokof'ev giovanile.

Boris Berezovskij piaceva ancor di più nel Concerto n. 1 op. 10 per pianoforte e orchestra di Dmitri Shostakovich, riuscendo ad inquadrare e condensare le diverse anime, apparentemente distanti tra loro – e, parrebbe, da Shostakovich stesso, almeno quello “di regime”, magniloquente e titanico di molti suoi lavori precedenti - che caratterizzano primo e terzo movimento, di saltellante frivolezza, quasi in antitesi al secondo, improntato ad un post-romanticismo fuori tempo massimo in odore di Rachmaninoff.

La lacerante, e forse un po' ruffiana, espressività dell'andante veniva valorizzata lavorando sulle dinamiche e sul colore piuttosto che sull'agogica. Sulla stessa linea di rigore ritmico, che mai scadeva in metronomicità, l'allegro iniziale e lo speculare movimento finale trovavano la giusta misura nella spensieratezza ironica e leggera del pianoforte di Berezovskij.

Terminava il concerto la Suite da L’oiseau de feu di Igor Stavinskij, nella più celebre seconda versione del 1919. Sokhiev ne dava una lettura in cui le asperità e le scortesie della partitura prevalevano nettamente sul lirismo e il rigore ritmico sulla morbidezza. Pur senza sacrificare la bellezza di suono (basterebbe ricordare la trasparenza degli archi nell'introduzione o il perfetto equilibrio tra le sezioni orchestrali), non c'era calligrafismo né compiacimento e l'espressività pareva trattenuta anche nei momenti di maggiore impatto emotivo in favore di un'analisi strutturale del lavoro. Nel finale, la linea essenziale del corno, impegnato in un dialogo di struggente poesia con la delicatissima orchestra, esemplificava al meglio i riferimenti estetici del direttore il quale rinunciava ad ogni ammiccamento ritmico od espediente di fraseggio per giocare sulle sfumature di volumi e colori, esaltando le risorse cromatiche dei musicisti berlinesi.

4 settembre 2013

La Traviata di Carsen ritorna alla Fenice di Venezia

Torna alla Fenice l’ormai storica Traviata di Robert Carsen, appuntamento fisso delle stagioni del teatro veneziano. Circa lo spettacolo ci sentiamo di ribadire le impressioni che ricavammo per le recite dell’anno passato:

“Allestimento suggestivo, intenso, commovente. Carsen ha il grande merito di saper rendere in modo pienamente convincente il particolarissimo strabismo del personaggio che se da un lato cerca la redenzione da un passato compromettente nell’amore e nella fuga (senza riuscirci), dall’altro subisce il progressivo rigetto da parte di quella società borghese che pur è parte di lei, finendo per perdere l’una e l’altra cosa. C’è il denaro onnipresente a ricordarci continuamente quale sia la professione di Violetta, denaro che diventa l’unico strumento di comunicazione tra le persone, solo parametro di valutazione del valore di rapporti e relazioni.
L’ambientazione è contemporanea per parlare ai contemporanei, come Verdi avrebbe voluto – almeno questo è quanto sostiene il regista canadese. Il primo atto ha i tratti di un party dalla mondanità quasi hollywoodiana con la vacuità della borghesia in trionfo. Davvero di rado “il popoloso deserto che appellano Parigi” è parso tanto popoloso e tanto deserto assieme, fatuo ed effimero come i valori di quella stessa società. L’ambientazione della prima parte del secondo atto riproduce una foresta che non è difficile leggere come simbolo della purezza cui Violetta aspirerebbe. I soldi che piovono dal cielo, in luogo delle foglie secche, ci ricordano che l’agognata redenzione è destinata a restare soltanto una speranza. La festa successiva si sviluppa tra i tavoli di un nightclub in mezzo a giochi d’azzardo, prostitute e lap dance. Nel terzo atto si torna a casa di Violetta. Non c’è più lo sfarzo di un tempo, il salone è spoglio, la tappezzeria stracciata. La ricchezza volgarmente esibita, straripante del primo atto lascia posto ad una povertà decadente. Violetta muore sul pavimento tra le braccia di Alfredo mentre attorno il mondo continua ad andare avanti col suo ritmo forsennato. Annina scappa con la pelliccia della padrona e la casa viene invasa dagli operai al lavoro per il nuovo proprietario. Popoloso deserto appunto.”

Ekaterina Bakanova lasciava ottime impressioni nei panni della protagonista. Il soprano affrontava la parte con gusto e personalità, esibendo una vocalità di bel colore e buon volume, ben modellata in un canto intenso e partecipe. Sorprendevano la maturità interpretativa e la capacità del soprano di risolvere la complessità del personaggio, la ricchezza di sfumature vocali e psicologiche, la perfetta sinergia tra canto e recitazione. Alcune tensioni e imperfezioni nel registro acuto, soprattutto nella cabaletta del primo atto, toglievano davvero poco a una prova maiuscola e incoraggiante per il futuro.

Piero Pretti era un Alfredo Germont corretto vocalmente e disinvolto sulla scena. Dimitri Platanias, a dispetto di una voce importante, non trovava la giusta inquadratura per Giorgio Germont non riuscendo a risolvere il canto con la morbidezza e il legato necessari a valorizzare musicalmente ed espressivamente la parte.

Diego Matheuz, insieme alle virtù che siamo abituati a riconoscergli, dimostrava di aver ulteriormente perfezionato, rispetto alle prove precedenti, la confidenza con l’opera, soprattutto per quanto riguarda il rapporto col palcoscenico. Restavano invariati il nitore del suono e la precisione orchestrale mentre pareva decisamente migliorata la capacità di sostenere i cantanti e seguire l’azione. Il maestro venezuelano offriva una lettura asciutta, tagliente, a tratti persino violenta e per questo perfettamente aderente all’allestimento di Carsen.

27 giugno 2013

Puccini torna alla Fenice con Madama Butterfly

Madama Butterfly è un’opera tra le più banalizzate, se non tra le più malintese, dell’intero repertorio. La complessità psicologica della protagonista, fortemente caratterizzata da risvolti che non è improvvido leggere sotto il filtro della patologia psichiatrica, l’ambiguità contraddittoria di Pinkerton, l’espressionismo estremamente liricizzato di Puccini, non di rado vengono semplificati ed omogeneizzati nella stessa poltiglia sentimentale da occhi lucidi. Riteniamo pertanto degno della massima ammirazione chi si proponga di invertire la tendenza, cercando di dire qualcosa di nuovo in materia, anche se, come nel caso della Madama Butterfly in scena alla Fenice di Venezia, il risultato non convince pienamente.



Lo spettacolo, con le scene dell’artista Mariko Mori e la regia di Àlex Rigola, spoglia l’opera pucciniana di ogni traccia di oleografia: l’oriente idealizzato del libretto scompare in favore di un’astrattezza generale, o per meglio dire, assenza d’identità. L’ambiente fisso è costituito da una scenografia completamente bianca e nuda, un ambiente vuoto ed impersonale di asettica pulizia, la recitazione dei solisti è stilizzata, ridotta all’osso, ogni eccesso od enfasi eliminati in favore della miniaturizzazione del gesto. In disparte alcune danzatrici accompagnano la narrazione, un unico elemento scenico e alcune videoproiezioni completavano il quadro.

Quello che rimane, in fin dei conti, non è molto. Oltre all’impatto esteticamente piacevole dell’insieme, manca una chiave di lettura univoca e coerente della vicenda di Butterfly, qualcosa che identifichi ed esplichi l’idea drammaturgica di fondo. C’è, e piace ravvisarlo, il progressivo accentuarsi della condizione di perdita di Butterfly, la quale, in un mondo che parrebbe essere proiezione del proprio desiderio (o della fantasia) piuttosto che reale, si trova a dover rinunciare progressivamente all’affetto del padre, della famiglia, del marito ed infine del figlio. La scena, inizialmente affollata e confusa diviene via via sempre più scarna e desolata, il terzo atto è un gioco di solitudini e distanze che rendono efficacemente l’ormai irreversibile incapacità della protagonista di interagire con il mondo di cui faceva parte e da cui è stata abbandonata.

Nei panni della protagonista Cio-Cio-San, Amarilli Nizza esibiva una vocalità ampia e sonora, capace di scavalcare il muro di suono proveniente dall’orchestra, tuttavia la sicurezza d’emissione mostrava la corda nel registro acuto, non sempre facilissimo. A dispetto dei mezzi ragguardevoli è parso mancare l’approfondimento musicale e di fraseggio, soprattutto nel canto di conversazione del secondo atto. Andeka Gorrotxategui era un F.B. Pinkerton credibile sulla scena e ben cantato, Vladimir Stoyanov un solido Sharpless. Merita una menzione la commovente Suzuki di Manuela Custer. Tra le parti minori ricordiamo l’ottimo Goro di Nicola Pamio e l’altrettanto convincente Yamadori di William Corrò.

La direzione musicale, affidata a Omer Meir Wellber lasciava alterne sensazioni. Piaceva l’impeto drammatico di taluni passaggi, certe soluzioni timbriche e ritmiche tese ad accentuare l’asprezza della partitura in luogo del lirismo. Restano tuttavia alcune legittime riserve, non tanto per la scarna tavolozza timbrica o le esplosioni di suono assordante che in taluni momenti giungevano dalla buca, cifre stilistiche a tutti gli effetti del direttore (che potranno trovare o meno il gusto dell’ascoltatore a seconda delle personali preferenze), quanto per la pesantezza generale dell’accompagnamento, spesso prevaricante sulle voci anche nei momenti di piano orchestrale.

Paolo Locatelli
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L’Attila di Verdi arriva a Trieste

In un periodo di crescenti ristrettezze economiche che stanno spingendo molti teatri italiani verso il fallimento, va senz’altro apprezzata ed applaudita la scelta del Verdi di Trieste di proporre, a stagione ormai conclusa, una nuova produzione operistica. Il titolo scelto, Attila, lavoro tra i più frequentati e conosciuti del primo Verdi, va ad unirsi ai precedenti Macbeth ed Il Corsaro quale omaggio al grande operista italiano, nell’anno in cui ricorre il bicentenario dalla nascita. Pertanto, a conti fatti, poco importa che la produzione, inizialmente destinata ad Aquileia, sia stata dirottata verso il teatro ed abbia trovato la via del palcoscenico per tre sole repliche.

Foto Fabio Parenzan

Il regista Enrico Stinchelli sceglieva di enfatizzare la componente epica della vicenda, puntando ad una teatralità dal sapore quasi cinematografico. Scelta indovinata e capace di mantenere la tensione sempre alta a dispetto della staticità intrinseca di taluni passaggi del lavoro verdiano (anzi, verrebbe da dire del melodramma italiano del primo ottocento); va reso merito al regista di avere saputo alternare alle grandiose scene di massa, restituite nella loro crudezza e violenza dove opportuno, il giusto approfondimento delle ragioni dei personaggi, soprattutto per quanto riguarda  il protagonista. Piacevano le scene di grande effetto curate da Pier Paolo Bisleri, opportunamente integrate dalle proiezioni di Alex Magri e dalle luci di Gérald Agius Orway.

Orlin Anastassov era un Attila di grande voce e personalità; il basso, in possesso di uno strumento di grande pregio per colore e volume, delineava un Attila guerriero ma non monolitico, capace di indagare tra le pieghe di una psicologia complessa ed ambigua, sospesa tra l’arroganza barbara dell’eroe condottiero e i tormenti dell’uomo solo al comando. Alcune durezze ed opacità nel registro acuto non inficiavano una prova maiuscola.
Alterna la prova di Anna Markarova, Odabella pugnace e temperamentosa, padrona della scena ma non sempre irreprensibile nel canto, soprattutto nel registro acuto che è parso talora forzato e nella mezzavoce, spesso poco a fuoco, in particolare nell’aria del primo atto.
Like Xing era un Foresto garbato e ben cantato ma in debito di volume e carisma, Venteslav Anastasov un Ezio ingessato e scolastico. Molto buone le prove di Antonello Ceron, Uldino e Gabriele Sagona, Leone.

Sul podio di un’ottima orchestra Donato Renzetti offriva una prova pienamente convincente: un Verdi elegante ma non compassato, teatralmente efficace senza scadere in effettacci o eccessi ma giocato piuttosto sui colori e sul ritmo. Convincevano pienamente i momenti prettamente sinfonici (davvero splendido il preludio al prologo) così come l’accompagnamento al canto, sostenuto al meglio dalla buca.

Eccellente la prova del coro diretto da Paolo Vero

A fine spettacolo il pubblico ha salutato trionfalmente l’intera compagnia.

28 maggio 2013

Ancora Mozart alla Fenice con Le Nozze di Figaro

Nell’ambito del progetto Mozart torna alla Fenice la trilogia dapontiana con la regia di Damiano Michieletto, già proposta nelle scorse stagioni. Diciamo subito che, pur trattandosi di tre spettacoli di altissimo livello, è giusto fare alcuni distinguo: se Don Giovanni e Così Fan Tutte hanno convinto ed entusiasmato, meno a fuoco è parso, anche alla riprova, Le Nozze di Figaro che già ci aveva lasciato alcune perplessità all’esordio.



Le nozze di Figaro è l’opera perfetta. Lo è nella sublime leggerezza della musica di Mozart come nel libretto in cui Da Ponte sa mascherare la malinconia e le inquietudini d’ironia. Non una semplice commedia dunque questo racconto della folle giornata in cui dovrebbero celebrarsi le nozze tra il protagonista e la cameriera Susanna ma un affresco di vita, un’analisi dei rapporti interpersonali nonché degli affetti e delle meschinità che li regolano.

Dopo le entusiastiche risposte di pubblico e critica al precedente Don Giovanni le aspettative per questo nuovo allestimento erano altissime e , benché il regista Damiano Michieletto abbia allestito un ottimo spettacolo è innegabile che alla fine rimanga nello spettatore un fondo di delusione nel trovarsi di fronte ad un fratello minore del precedente lavoro. Le perplessità non possono certo riguardare la tecnica registica che Michieletto possiede e padroneggia con classe quanto piuttosto la sensazione che tutto si fermi alla superficie. Certo si parla di una superficie tirata a lucido, la costruzione dello spettacolo è formalmente impeccabile, la trama dipanata con sapienza e, al solito, curatissima la gestione degli artisti in scena. Si avverte però la mancanza di una lettura che scavi più in profondità tra le pieghe di questo capolavoro. Non giova poi allo spettacolo la somiglianza delle scene con il precedente Don Giovanni di cui queste Nozze sono, più che una prosecuzione, un calco. Benché la scelta possa sottintendere l’intenzione di mettere in relazione ancor più stretta le due opere, il risultato non solo non convince ma, peggio, finisce per limitare l’effetto dello spettacolo in chiunque abbia già visto il precedente.

Va poi aggiunto che le lievi ma significative modifiche apportate dal regista rispetto all’esordio dello spettacolo finivano con l’indebolire ulteriormente la tensione, impoverendo il progetto iniziale soprattutto per quanto riguarda i personaggi di Cherubino e della Contessa, ridimensionati e resi più convenzionali di quanto ricordassimo.

Figaro era il bravo Vito Priante, strumento di bel timbro, ottima musicalità e buon gusto. Piaceva Rosa Feola, Susanna dalla voce piccola ma estremamente gradevole, curatissima nel fraseggio. Marina Comparato era un eccellente Cherubino; la lunga consuetudine del mezzosoprano con la parte si avvertiva in particolar modo nelle due arie, ricche di suggestioni e cesellate fin nel minimo dettaglio. La Contessa di Marita Sølberg convinceva grazie alla bellezza del timbro e alla morbidezza d’emissione pur evidenziando alcune imperfezioni di intonazione, soprattutto nella cavatina di ingresso. Corretto ma ordinario il Conte di Simone Alberghini. Alterne le parti minori.

Sul podio Antonello Manacorda si confermava mozartiano di razza. Si potranno discutere i tempi sostenuti o le sonorità asciutte, non la capacità di assecondare la narrazione, la cura per il dettaglio musicale e ritmico o il perfetto sostegno al palcoscenico.

Così Fan Tutte torna alla Fenice di Venezia

Che sia spietato cinismo o razionalismo portato alle estreme conseguenze poco importa. Nel Così Fan Tutte tutto è come dev’essere e tutto risponde a un disegno geometrico e razionale, finanche le ragioni del cuore. Le relazioni interpersonali si piegano a un disegno prestabilito e ineludibile, quasi un assioma dei rapporti amorosi cui devono inchinarsi, loro malgrado, gli ingenui protagonisti. C’è la ragione spietata a svelare la natura delle cose e degli uomini e gli uomini che cercano di ingannare se stessi e gli altri fingendo di non sapere quale sia la logica conseguenza verso cui tutto evolve. La ragione del pragmatico cinismo di Alfonso e Despina è un’arma potentissima da maneggiare con cautela, è una bomba che una volta innescata non lascia via di scampo distruggendo irrimediabilmente le vite affettive dei protagonisti. C’è tanto Settecento insomma in questo Mozart-Da Ponte. C’è Kant, l’Illuminismo, c’è la cieca fiducia nella forza dell’intelletto, il tutto filtrato attraverso quella cruda ironia tipicamente dapontiana, e poi c’è la menzogna o meglio la finzione quasi consolatoria, rassicurante.



Evidentemente il regista Damiano Michieletto, giunto alla tappa conclusiva della trilogia mozartiana, non crede alla possibilità di rimedio per gli amanti ingannati, il tradimento non può essere superato dall’accettazione delle verità rivelate di Alfonso. In questo senso potremmo definire la lettura di Michieletto pessimistica nel caso specifico della vicenda, non terminando con il perdono collettivo, ma decisamente positiva inquadrando la vicenda in un’ottica più ampia. Rimane infatti la speranza che gli uomini, o l’umanità in senso lato, sappiano rinunciare alla facile via del cinismo, alla prona accettazione del “così fan tutte” perché in fondo convinti che ci sia un senso etico superiore all’istinto di natura. Per questa ragione la zuffa tutti-contro-tutti che chiude l’opera lascia in bocca un sapore dolce, una speranza nuova. Non serve poi ricordare quanto sia tecnicamente bravo Michieletto nel muovere gli artisti in scena come nel saper trovare corrispondenza perfetta tra ogni frase musicale e l’immagine teatrale evocata.

Il bellissimo impianto scenico curato da Paolo Fantin si serviva della medesima piattaforma girevole utilizzata per Don Giovanni e Le Nozze di Figaro, nel caso specifico trasformata in un lussuoso hotel nei cui ambienti si dipanano le trame ordite dal direttore Alfonso ai danni dei clienti. Le sorelle ferraresi sono due frivole ragazze (due shopping addicted, si direbbe) che sembrano uscite da un telefilm americano, Guglielmo e Ferrando due surfisti tamarri, Don Alfonso un viveur con la debolezza per l’alcol e le donne. In un simile contesto di spiazzante superficialità si sviluppa lentamente l’amara consapevolezza dei protagonisti di quanto possa essere pericoloso giocare con i sentimenti.

A uno spettacolo curatissimo corrispondeva un’esecuzione musicale pienamente convincente. Antonello Manacorda, alla guida dell’ottima orchestra della Fenice, dava del capolavoro mozartiano una lettura vibrante ed energica, di forte impatto emotivo e teatrale. Il ritmo serrato e la cura per il dettaglio che mai scadeva nel calligrafismo o nel compiacimento, rendevano la direzione coinvolgente ed intensa, capace assecondare nel migliore dei modi la dinamicità e la tensione incalzante dello spettacolo. Dispiaceva riscontrare alcuni tagli di tradizione, particolarmente accaniti nel secondo atto.

Maria Bengtsson si confermava un’eccellente Fiordiligi, sia per la splendida figura, sia per la bellezza del canto. La voce, irrobustitasi nel registro grave rispetto alle prove dello scorso anno, sapeva svettare luminosa come piegarsi in suggestive mezzevoci, il fraseggio era sempre curatissimo. Commovente l’aria “Per pietà ben mio perdona”, perfettamente sostenuta dall’orchestra. Josè Maria Lo Monaco era una Dorabella fresca e dal fascino quasi adolescenziale, spigliata in scena e musicalmente impeccabile. Eccellente il Guglielmo di Alessio Arduini, baritono di grande talento e rara personalità autore di una prova pienamente convincente per autorevolezza e classe. Il tenore Anicio Zorzi Giustiniani pur non possedendo una voce tra le più belle, disegnava un Ferrando partecipe e garbato. Piaceva moltissimo la deliziosa Despina di Caterina Di Tonno, spiritosa e vivace nonché ottimamente cantata. Perfettamente caratterizzato il Don Alfonso becero e sfrontato di Luca Tittolo, bella voce di basso al servizio di un canto espressivo e curato, soprattutto nei fondamentali recitativi.

Paolo Locatelli
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13 maggio 2013

Tosca al Verdi di Trieste

Il teatro Verdi di Trieste chiude la stagione operistica con Tosca, ultimo dei sei titoli in programma. Opera di richiamo come nessun’altra, il capolavoro pucciniano più controverso, amato e detestato a seconda delle personali inclinazioni e preferenze, torna in città a pochi anni dalla sua ultima comparsa, in un allestimento applauditissimo dal pubblico presente.



Lo spettacolo, con le belle scene di Adolf Hohenstein e la regia di Giulio Ciabatti è quanto di più tradizionale si possa immaginare. C’è Roma, Sant’Andrea della Valle, Palazzo Farnese e tutto il resto, c’è l’atmosfera papalina e lo sfarzo volgare della tirannia corrotta. I costumi di Anna Biagiotti, in linea con l’impostazione, riprendono le Tosche più classiche, le stesse cui si ispira la regia: il lavoro sui personaggi ricalca gli stereotipi con gusto e cognizione di causa, i caratteri sono lineari ma ben definiti, la scarsa fantasia è compensata dalla cura e dall’efficacia del risultato.

Alexia Voulgaridou è una Tosca convincente per personalità ed eloquenza, disinvolta sulla scena e curata nel fraseggio. Alcuna opacità vocali nelle filature e qualche eccesso di gusto in senso verista non inficiavano una prova positiva, molto apprezzata dal pubblico. Mario Cavaradossi è il tenore Alejandro Roy, cantante stentoreo, dotato di squillo e volume ma poco interessato all’approfondimento musicale ed interpretativo, autore di una prova sufficiente ma incolore.

Scarpia ha corpo e voce di Roberto Frontali, baritono dallo strumento imponente e tonante, ben gestito in un canto vario ed incisivo. Uno Scarpia ancient regime, truce e bieco, perfettamente calato nel contesto registico, cui si perdona una certa ruvidezza in taluni passaggi di canto di conversazione. 

Al solido Sagrestano di Paolo Rumez si potrebbe rimproverare qualche eccesso caricaturale mentre Gabriele Sagona è un Angelotti meno autorevole di quanto ci si aspetterebbe. Positive le prove di Nicola Pamio (Spoletta) e Christian Starinieri (Sciarrone), ottimo il carceriere di Giuliano Pelizon. Deliziosa la giovane Emma Orsini, voce del Pastorello.

Coordina il tutto la bacchetta di Donato Renzetti, autore di una concertazione coinvolgente e precisissima, attenta ai cantanti e alle ragioni del teatro senza scadere in effetti a buon mercato. Il suono è compatto senza essere pesante, il ritmo narrativo sostenuto, il sostegno al palcoscenico perfetto. Sugli scudi l’orchestra e il coro del teatro, impeccabili.

Paolo Locatelli

4 maggio 2013

Don Giovanni nel labirinto della mente umana

Recensione – Viva la libertà! La libertà morale, intesa come coraggio di svincolarsi dagli obblighi sociali e dalle “imposture della gente plebea”, irrealizzabile chimera di uomini schiavi del sistema ed inevitabilmente attratti da chi riesca a spezzare le proprie catene per inseguirla, a costo della vita. Questo è Don Giovanni secondo Damiano Michieletto, regista cui il Teatro La Fenice di Venezia ha affidato la trilogia dapontiana, interamente riproposta in occasione del “progetto Mozart”, inaugurato dallo stesso Don Giovanni nel fortunatissimo e pluripremiato allestimento con le scene di Paolo Fantin, i costumi di Carla Teti e le luci (estremamente suggestive) di Fabio Barettin.



L’impianto scenografico presenta gli interni di un palazzo settecentesco, claustrofobico e vagamente decadente. Un efficace gioco scenico produce un continuo mutamento degli ambienti attraverso la rotazione delle pareti, restituendo l’impressione di un labirinto privo di vie di fuga. Don Giovanni è onnipresente, proiezione dei desideri femminili e delle aspirazioni (o dei complessi di inferiorità) maschili, signore del palazzo e delle vite altrui. La sessualità – in luogo della sensualità – è esasperata, la violenza esplicita ed abusata, massimamente nella figura del protagonista, guardato con orrore e disapprovazione dagli altri personaggi (quasi dei proto-borghesi) eppure continuamente inseguito. Un Don Giovanni rifiutato ma blandito, come fosse per loro – se non personificazione dell’inconscio – il lato oscuro di sé, il desiderio di assecondare i proprio istinti più biechi, animaleschi ed immorali. E tale è l’immedesimazione tra il libertino e i suoi interlocutori che nessuno di loro saprà sopravvivere alla morte del protagonista nel colpo di teatro finale escogitato dal regista.

Antonello Manacorda riproponeva il proprio Mozart, già ascoltato ed apprezzato dal pubblico veneziano durante le scorse stagioni. Un Mozart moderno, teso ed incandescente, persino violento, in cui il tragico prevale sul comico, non per la densità del suono ma per la pulsione ritmica e per la tensione drammatica. I tempi sono sostenuti ma coerenti, la tavolozza di colori ridotta al minimo, come è nel gusto odierno.

Stesso discorso per i cantanti. Sarà rimasto deluso chi si aspettasse voci imponenti adoperate in un canto chiaroscurato, fatto di forti contrasti e lavoro sulla parola, trovandosi di fronte a un linguaggio quasi da teatro di prosa se non televisivo, in cui la recitazione (al solito molto curata da Michieletto) e l’immediatezza espressiva avevano priorità e prevalenza sul lavoro di scavo musicale.

Simone Alberghini era nel complesso un Giovanni convincente. Pur non possedendo uno strumento immacolato, il cantante sapeva assecondare il progetto registico, disegnando un Giovanni impetuoso e animalesco, dalla virilità rozza e violenta. Nicola Ulivieri era un Leporello di bella voce, corretto nel canto ma convenzionale. 

Molto buona la prova di Carmela Remigio, Donna Anna musicalmente ineccepibile ed interprete intensa. Maria Pia Piscitelli, Donna Elvira volitiva e sanguigna, esibiva voce di buona pasta ma faticava nelle zone più alte del pentagramma. Lasciava qualche perplessità il Don Ottavio di Marlin Miller, cantante dotato di discreto strumento e di un certo buon gusto nel porgere ma in difficoltà nel registro acuto. Alterne le prestazioni di Caterina Di Tonno, Zerlina talvolta ingessata e William Corrò, Masetto fin troppo temperamentoso. Solido il Commendatore di Abramo Rosalen.

Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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19 aprile 2013

La Clemenza di Tito al Teatro Verdi di Trieste

Recensione – Estremo capolavoro serio di Mozart, La Clemenza di Tito è un’opera che esemplifica la magica capacità del teatro di catturare lo zeitgeist di un’epoca, nel caso specifico lo spirito illuministico del Settecento ormai sul viale del tramonto. Quasi in contraddizione con le prese di distanza dal razionalismo esasperato della trilogia mozartiana, nella Clemenza virtù e ragione sono esaltate e celebrate, massimamente nella figura di sovrano illuminato del protagonista.


Arriva per la prima volta al Teatro Verdi di Trieste La Clemenza di Tito in un allestimento firmato da Jean Louis Grinda. La scenografia, curata da Pier Paolo Bisleri, intende cogliere l’essenza neoclassica dell’opera, nelle geometrie come nella linearità psicologica dei protagonisti: gestualità e movimenti, misurati e vagamente stereotipati, lasciano l’impressione di un mondo fasullo, reazionario, un presente rivolto al passato ed incapace di comprendere il futuro. L’ambientazione palladiana (un Teatro Olimpico di Vicenza ricostruito fin nel minimo dettaglio) e gli abiti settecenteschi richiamano un’apollinea perfezione formale, persino stridente con i gesti scellerati di cui sono capaci Sesto e Vitellia, quasi questo Campidoglio fosse la torre d’avorio che custodisce l’imperatore clemente ed illuminato e il suo mondo troppo giusto per essere vero.

Giuseppe Filianoti era un Tito Vespasiano non del tutto convincente. Forte di un mezzo prezioso nel settore medio-grave, per colore e fascino timbrico, il tenore esibiva un registro acuto non esente da forzature ed aperture poco gradevoli. Non giovava l’eccessiva cautela nell’esecuzione delle arie, in particolare le agilità di “Se all’impero” risultavano faticose e impacciate.

Nei panni di Sesto Laura Polverelli offriva una prova eccellente per musicalità e cura del fraseggio. Le minime incertezze non offuscavano una prestazione maiuscola del mezzosoprano, capace di rendere al meglio le impegnative pagine destinate a Sesto. Convinceva Eva Mei, Vitellia, che a dispetto di una voce in debito di volume nell’ottava bassa (spesso sollecitata dall’impervia scrittura, soprattutto nel rondò del secondo atto), risolveva la parte con ineccepibile consapevolezza tecnica e partecipazione. 

Molto buona la prova di Annunziata Vestri, Annio di bella voce e presenza, mentre piaceva meno Irina Dubrovskaya, Servilia di timbro gradevole ma musicalmente fin troppo ingessata. Marco Vinco era un Publio partecipe ed autorevole.

Il maestro Gianluigi Gelmetti, sul podio dell’ottima orchestra del teatro, optava per una direzione di buon senso, attenta alle esigenze del palcoscenico, meno alle necessità del dramma. Ne usciva una lettura curata nel suono, equilibrata ed omogenea ma teatralmente inerte, incapace di illuminare l’azione o di approfondirne le sfumature. Al solito eccellente la prova del coro del Verdi.

Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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27 marzo 2013

The Rape of Lucretia al Teatro Verdi di Trieste

Il tema dell’antichità classica filtrata attraverso la sensibilità cristiana fa di The Rape of Lucretia il perfetto preambolo alla più celebre Clemenza di Tito che impegnerà il teatro Verdi tra poche settimane, non fosse altro per la maggiore fama dell’opera mozartiana rispetto al più elitario Britten. Spiace a dirsi ma a tutt’oggi, presso il pubblico italiano, il compositore inglese non gode della fama che meriterebbe, prova ne sia la scarsa affluenza di pubblico al teatro triestino per il primo stupro di Lucrezia della sua storia.

Opera da camera non tra le più facili, The Rape of Lucretia è uno dei vertici del teatro musicale del novecento. La musica di Britten è un gioiello di alchimie e colori, Roland Duncan riduce a misura di melodramma Le Viol de Lucrèce di Obey in un libretto denso di poesia e indagine filosofica, aspetti che tuttavia sembrano interessare marginalmente al regista e scenografo Nenad Glavan. Glavan sceglie di calcare la mano sul lato politico della vicenda, accentuando la dimensione militare e storica: il potere è il centro focale della tragedia, Lucretia un casus belli per la rivolta romana alla supremazia etrusca (quella da cui nascerà la Repubblica), le dinamiche di forza un discorso circolare, secondo una precisa idea di ciclicità della storia. Tutto ciò è rappresentato dall’impianto scenico, un anfiteatro semicircolare sviluppato attorno ad un vertice centrale ripreso in live streaming da una telecamera, simbolo appunto di quel potere che è il primum movens della vicenda. Per il resto la regia appariva eccessivamente statica e stereotipata, fatti salvi alcuni momenti coreografici (tra cui lo stupro che risultava di qualche effetto) alle volte fin troppo rumorosi per la levità musicale dell’opera.

Ryuichiro Sonoda guidava i dodici impeccabili professori d’orchestra che la partitura chiama in causa con ottima musicalità e varietà di colori, esaltando l’atmosfera rarefatta ed ipnotica della musica di Britten ma senza rinunciare ad approfondire la narrazione teatrale, sempre nel rispetto dell’equilibrio cameristico delle parti.

Lasciava alterne sensazioni Sara Galli, Lucretia impeccabile sulla scena ma in debito di volume, trovandosi a cantare una parte troppo grave per il proprio baricentro vocale. Ne risultava un canto affascinante nelle frasi più acute, arricchito con suggestive aperture e soluzioni cromatiche adatte all’opera novecentesca ma afono nel registro medio-basso. Positivo il coro maschile del tenore Alexander Kröner, cantante dotato di voce poco avvenente ma sonora e squillante, sicurissimo nel canto e nell’impervia articolazione sillabica che Britten richiede. Buona anche la prova di Katarzyna Medlarska, voce del coro femminile. Tarquinio era affidato al basso Carlo Agostini, autore di una prova incolore perché irrisolta, sia in ragione della vocalità opaca sia per la presenza scenica intimidita. Nuria Garcia Arrés era una Lucia di bel timbro mentre Dijana Hilje evidenziava, a discapito di un volume notevole, un vibrato largo poco piacevole. Marijo Krnic dava voce e corpo a un Collatino partecipe e ben centrato, corretto il Giuno di Gianpiero Ruggeri.

Calorosa l’accoglienza del non folto pubblico in sala con applausi convinti per tutti.

Paolo Locatelli
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24 marzo 2013

Esa-Pekka Salonen e la Philharmonia Orchestra al Giovanni da Udine

La Philharmonia Orchestra è quello straordinario strumento che Walter Legge creò, pescando tra i migliori maestri d’Europa, per essere compagine di massimo livello cui affidare le registrazioni Emi, e mise poi nelle mani di tale Herbert von Karajan. In oltre sessant’anni di storia si sono avvicendate alla guida dell’orchestra bacchette tra le più prestigiose del secolo scorso, da Klemperer a Sinopoli, passando per Maazel, Muti e von Dohnányi, fino all’attuale direttore principale Esa-Pekka Salonen.



Se scegliessimo di indicare i maggiori direttori d’orchestra contemporanei sulla dita d’una mano, Salonen vi troverebbe senz’altro posto, occupando con ogni probabilità una postazione tra le più alte del podio. Compositore, fine intellettuale e pensatore della musica, il maestro finlandese ha imposto il proprio nome sulle scene internazionali negli ultimi decenni, forte di una tecnica direttoriale impeccabile al servizio di un’idea moderna e rivoluzionaria dell’arte.

Domenica 18 marzo al Teatro Nuovo Giovanni da Udine Esa-Pekka Salonen guidava la Philharmonia Orchestra nel proprio repertorio d’elezione, sostanzialmente novecentesco, in un concerto che il pubblico presente custodirà gelosamente nella memoria.

Apriva il concerto Ravel con un Ma mère l’Oye di suggestiva morbidezza, giocato su un’infinita varietà di colori freddi da un’orchestra capace dei pianissimi più diafani come della più avvolgente brillantezza. Impressionava la Quarta Sinfonia di Lutoslawsky, prova di bravura tutta spigoli, calibrata al millimetro dal direttore seguito dalla Philharmonia, scattante e precisissima. Gli schizzi sinfonici di Le Mer, del marinaio Debussy, restituiscono i sapori del mare, ne richiamano il colore. Il nitore cristallino della Philharmonia, la mobilità agogica, esaltavano la vena impressionistica della musica, quel richiamo al mondo naturale vissuto attraverso il ricordo, cardine dell’universo espressivo del compositore francese.

A chiudere il programma La Valse di Ravel, forse il momento più impressionante dell’intero concerto, per l’elasticità, per la sottile e costante variabilità nella gestione del ritmo, per la tensione narrativa ed ovviamente la stupefacente precisione musicale. Una viennesità elegante, leggera senza essere frivola, vibrante. A termine concerto due bis da incorniciare: ancora Novecento con Berio (nella sua trascrizione delle Quattro versioni originali della Ritirata Notturna di Madrid di Boccherini) e Wagner, con un elettrizzante Preludio al terzo atto del Lohengrin, teso ed esplosivo, lontano anni luce dall’ipertrofia nibelungica di certa retorica mitteleuropea.

18 marzo 2013

Věk Makropulos al Teatro La Fenice di Venezia

Si potrebbe dire che Elina Makropulos sia il Don Giovanni del XX secolo. In fondo, benché distanti per sensibilità e linguaggio, si tratta di due figure tra le più affascinanti e inafferrabili dell’intero repertorio operistico. Banalmente basterebbe l’irresistibile fascino erotico ad accomunarli, tuttavia le analogie sono ben più profonde e riguardano la sfera psicologica e affettiva dei personaggi. L’esasperato razionalismo che diventa cinismo, l’apatia di “chi nulla sa gradir”, l’incapacità di trarre piacere dall’esistenza e dai rapporti, il bieco opportunismo, finanche la scelta di una morte evitabile accomunano tali figure in modo quasi inquietante.



Věk Makropulos, meglio noto presso il pubblico italiano come “L’Affare Makropulos”, capolavoro del compositore ceco Leos Janácek, arriva al Teatro La Fenice di Venezia in un allestimento firmato da Robert Carsen che si farà ricordare. L’Affare Makropulos è la storia di una donna condannata ad un’esistenza plurisecolare da un filtro di lunga vita: Elina Makropulos appunto, che trascorre 337 anni sulla Terra attraverso continui cambi di identità, amori e una carriera di somma cantante d’opera. L’eterna giovinezza le consente di raggiungere la perfezione assoluta nell’arte ma le toglie il piacere di vivere, rendendola refrattaria ad ogni tipo di sentimento, quasi il corpo fosse sopravvissuto tanto a lungo ad un’anima estinta.

Nello spettacolo veneziano Carsen sceglie di sviluppare ulteriormente un tema che pare essergli particolarmente caro: il rapporto tra finzione teatrale e realtà, già indagato in numerose occasioni, dal Don Giovanni scaligero alla Tosca di Zurigo, passando attraverso il Capriccio straussiano di Parigi o l’Ariadne auf Naxos. Il teatro diviene il luogo perfetto per accogliere una profuga dei secoli come Elina Makropulos, o per meglio dire Emilia Marty, anzi, l’unico luogo possibile. Le maschere teatrali che la diva porta sul palcoscenico diventano le maschere indossate dalla donna per camuffare se stessa agli occhi del mondo, gli abiti di scena le sue molteplici identità. Ultima tra le tante è la principessa di gelo Turandot, accomunata alla Marty da un percorso psicologico che si risolve nello scioglimento finale (pur con esiti diametralmente opposti), pensata registica ricca di fascino e suggestioni.

In un cast omogeneo e convincente si imponeva su tutti la protagonista, Ángeles Blancas Gulín, Emilia Marty di grande personalità ed ottimamente cantata. Dominatrice della scena, il soprano restituiva un’Elina glaciale ma in fondo ironica, capace di esplodere nel terz’atto la disperazione covata per secoli in un monologo di lacerante intensità. Piaceva il Prus dalla virilità rude di Martin Bárta, meno il Gregor di Ladislav Elgr, spesso vocalmente in difficoltà. Convincevano pienamente Enrico Casari (Janek), Enric Martínez-Castignani (Kolenaty), Leonardo Cortellazzi (Vítek) e la Krista di Judita Nagyovà. Ottimo il Conte Hauk-Šendorf caricaturale e grottesco di Andreas Jäggi.

Gabriele Ferro optava per una lettura scopertamente lirica in cui l’indagine sui nessi tra il lavoro del compositore ceco e la tradizione tardoromantica prevaleva sulla natura novecentesca del lavoro; il direttore accentuava la cantabilità delle linee melodiche limando ogni spigolo o scortesia della partitura. La scelta, per quanto discutibile, potrebbe avere le sue buone ragioni se l’obiettivo fosse perseguito con maggiore cura del suono e degli equilibri. La direzione è apparsa invece pesante e prevaricante sulle voci, piatta nelle dinamiche (è mancata ogni traccia di pianissimo) e nei colori.

Paolo Locatelli
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Daniel Harding e la SRSO al Teatro Comunale di Pordenone

Ci sono eventi che, seppure indirettamente, intervengono in profondità nella storia della musica; l’omicidio di Gustavo III, Re di Svezia, avvenuto nel 1792 durante una festa in maschera ne è un esempio lampante. Verdi ne trasse un gran partito (direbbe il Barone di Trombonok) col suo Gustavo III che la censura fece poi diventare Un Ballo In Maschera mentre gloria minore ebbe Joseph Martin Kraus, compositore tedesco del diciottesimo secolo che a quel ballo partecipò e che volle, con la sua Symphonie funébre, celebrare il ricordo del sovrano.

La stessa sinfonia funebre in do minore di Joseph Martin Kraus apriva il concerto di Daniel Harding alla guida della Swedish Radio Symphony Orchestra al Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, concerto di punta della stagione musicale del teatro.
Harding propone un Kraus delicato, crepuscolare, più malinconico che scopertamente tragico. Gli equilibri sono cameristici, il suono orchestrale di straordinaria morbidezza, quasi ovattato. Chi si attendesse tempi sostenuti e sonorità asciutte, caratteri distintivi del coevo Mozart di Harding, sarà rimasto sorpreso nel trovarsi di fronte ad una lettura intimistica e meditata, in cui si intravede un romanticismo presagito, se non nel turgore del suono, nel sentimento.



Se con Kraus, considerata l’importanza secondaria, non è difficile sorprendere, a ben altro tipo di confronti si presta il Mahler della Quinta sinfonia in do diesis minore, lavoro frequentato dalle più grandi personalità del podio, passate e contemporanee.
Il Mahler di Harding è irrequieto e mobilissimo, giocato sul contrasto tra l’apollinea perfezione del suono e la dionisiaca varietà agogica, in ciò assecondato da un’orchestra impeccabile per perfezione tecnica e pulizia. Il suono è luminoso, trasparente anche nei fortissimi, mai sfuocato negli impalpabili pianissimi. 

La Quinta esce dall’orchestra con fluidità e coerenza espositiva sorprendenti, in un febbrile crescendo di tensione che si stempera in un finale travolgente. La Marcia funebre è un dialogo più teso e meno drammatico rispetto a quanto si sia abituati ad ascoltare, in cui l’interazione tra le voci dell’orchestra e la gestione delle dinamiche sono il vero motore pulsante piuttosto che la peculiarità del colore; lo Scherzo è gestito tra pennellate impressionistiche e finezze contrappuntistiche sottolineate con garbo, senza scadere nel calligrafismo. Per il celebre Adagietto Harding sceglie un tempo sostenuto, puntando ad un’emotività epidermica piuttosto che al languore tristaniano di certa tradizione, così da risultare perfetto prologo ad un rondò esplosivo ed elastico nei tempi, ottimista nella sostanza.

A termine concerto direttore ed orchestra hanno regalavano ad un pubblico entusiasta un inatteso bis verdiano, il Preludio al primo atto del Ballo in Maschera, eseguito con l’eleganza e l’intensità cui solo una compagine sinfonica di primo livello guidata da un grande del podio può aspirare.