28 maggio 2013

Ancora Mozart alla Fenice con Le Nozze di Figaro

Nell’ambito del progetto Mozart torna alla Fenice la trilogia dapontiana con la regia di Damiano Michieletto, già proposta nelle scorse stagioni. Diciamo subito che, pur trattandosi di tre spettacoli di altissimo livello, è giusto fare alcuni distinguo: se Don Giovanni e Così Fan Tutte hanno convinto ed entusiasmato, meno a fuoco è parso, anche alla riprova, Le Nozze di Figaro che già ci aveva lasciato alcune perplessità all’esordio.



Le nozze di Figaro è l’opera perfetta. Lo è nella sublime leggerezza della musica di Mozart come nel libretto in cui Da Ponte sa mascherare la malinconia e le inquietudini d’ironia. Non una semplice commedia dunque questo racconto della folle giornata in cui dovrebbero celebrarsi le nozze tra il protagonista e la cameriera Susanna ma un affresco di vita, un’analisi dei rapporti interpersonali nonché degli affetti e delle meschinità che li regolano.

Dopo le entusiastiche risposte di pubblico e critica al precedente Don Giovanni le aspettative per questo nuovo allestimento erano altissime e , benché il regista Damiano Michieletto abbia allestito un ottimo spettacolo è innegabile che alla fine rimanga nello spettatore un fondo di delusione nel trovarsi di fronte ad un fratello minore del precedente lavoro. Le perplessità non possono certo riguardare la tecnica registica che Michieletto possiede e padroneggia con classe quanto piuttosto la sensazione che tutto si fermi alla superficie. Certo si parla di una superficie tirata a lucido, la costruzione dello spettacolo è formalmente impeccabile, la trama dipanata con sapienza e, al solito, curatissima la gestione degli artisti in scena. Si avverte però la mancanza di una lettura che scavi più in profondità tra le pieghe di questo capolavoro. Non giova poi allo spettacolo la somiglianza delle scene con il precedente Don Giovanni di cui queste Nozze sono, più che una prosecuzione, un calco. Benché la scelta possa sottintendere l’intenzione di mettere in relazione ancor più stretta le due opere, il risultato non solo non convince ma, peggio, finisce per limitare l’effetto dello spettacolo in chiunque abbia già visto il precedente.

Va poi aggiunto che le lievi ma significative modifiche apportate dal regista rispetto all’esordio dello spettacolo finivano con l’indebolire ulteriormente la tensione, impoverendo il progetto iniziale soprattutto per quanto riguarda i personaggi di Cherubino e della Contessa, ridimensionati e resi più convenzionali di quanto ricordassimo.

Figaro era il bravo Vito Priante, strumento di bel timbro, ottima musicalità e buon gusto. Piaceva Rosa Feola, Susanna dalla voce piccola ma estremamente gradevole, curatissima nel fraseggio. Marina Comparato era un eccellente Cherubino; la lunga consuetudine del mezzosoprano con la parte si avvertiva in particolar modo nelle due arie, ricche di suggestioni e cesellate fin nel minimo dettaglio. La Contessa di Marita Sølberg convinceva grazie alla bellezza del timbro e alla morbidezza d’emissione pur evidenziando alcune imperfezioni di intonazione, soprattutto nella cavatina di ingresso. Corretto ma ordinario il Conte di Simone Alberghini. Alterne le parti minori.

Sul podio Antonello Manacorda si confermava mozartiano di razza. Si potranno discutere i tempi sostenuti o le sonorità asciutte, non la capacità di assecondare la narrazione, la cura per il dettaglio musicale e ritmico o il perfetto sostegno al palcoscenico.

Così Fan Tutte torna alla Fenice di Venezia

Che sia spietato cinismo o razionalismo portato alle estreme conseguenze poco importa. Nel Così Fan Tutte tutto è come dev’essere e tutto risponde a un disegno geometrico e razionale, finanche le ragioni del cuore. Le relazioni interpersonali si piegano a un disegno prestabilito e ineludibile, quasi un assioma dei rapporti amorosi cui devono inchinarsi, loro malgrado, gli ingenui protagonisti. C’è la ragione spietata a svelare la natura delle cose e degli uomini e gli uomini che cercano di ingannare se stessi e gli altri fingendo di non sapere quale sia la logica conseguenza verso cui tutto evolve. La ragione del pragmatico cinismo di Alfonso e Despina è un’arma potentissima da maneggiare con cautela, è una bomba che una volta innescata non lascia via di scampo distruggendo irrimediabilmente le vite affettive dei protagonisti. C’è tanto Settecento insomma in questo Mozart-Da Ponte. C’è Kant, l’Illuminismo, c’è la cieca fiducia nella forza dell’intelletto, il tutto filtrato attraverso quella cruda ironia tipicamente dapontiana, e poi c’è la menzogna o meglio la finzione quasi consolatoria, rassicurante.



Evidentemente il regista Damiano Michieletto, giunto alla tappa conclusiva della trilogia mozartiana, non crede alla possibilità di rimedio per gli amanti ingannati, il tradimento non può essere superato dall’accettazione delle verità rivelate di Alfonso. In questo senso potremmo definire la lettura di Michieletto pessimistica nel caso specifico della vicenda, non terminando con il perdono collettivo, ma decisamente positiva inquadrando la vicenda in un’ottica più ampia. Rimane infatti la speranza che gli uomini, o l’umanità in senso lato, sappiano rinunciare alla facile via del cinismo, alla prona accettazione del “così fan tutte” perché in fondo convinti che ci sia un senso etico superiore all’istinto di natura. Per questa ragione la zuffa tutti-contro-tutti che chiude l’opera lascia in bocca un sapore dolce, una speranza nuova. Non serve poi ricordare quanto sia tecnicamente bravo Michieletto nel muovere gli artisti in scena come nel saper trovare corrispondenza perfetta tra ogni frase musicale e l’immagine teatrale evocata.

Il bellissimo impianto scenico curato da Paolo Fantin si serviva della medesima piattaforma girevole utilizzata per Don Giovanni e Le Nozze di Figaro, nel caso specifico trasformata in un lussuoso hotel nei cui ambienti si dipanano le trame ordite dal direttore Alfonso ai danni dei clienti. Le sorelle ferraresi sono due frivole ragazze (due shopping addicted, si direbbe) che sembrano uscite da un telefilm americano, Guglielmo e Ferrando due surfisti tamarri, Don Alfonso un viveur con la debolezza per l’alcol e le donne. In un simile contesto di spiazzante superficialità si sviluppa lentamente l’amara consapevolezza dei protagonisti di quanto possa essere pericoloso giocare con i sentimenti.

A uno spettacolo curatissimo corrispondeva un’esecuzione musicale pienamente convincente. Antonello Manacorda, alla guida dell’ottima orchestra della Fenice, dava del capolavoro mozartiano una lettura vibrante ed energica, di forte impatto emotivo e teatrale. Il ritmo serrato e la cura per il dettaglio che mai scadeva nel calligrafismo o nel compiacimento, rendevano la direzione coinvolgente ed intensa, capace assecondare nel migliore dei modi la dinamicità e la tensione incalzante dello spettacolo. Dispiaceva riscontrare alcuni tagli di tradizione, particolarmente accaniti nel secondo atto.

Maria Bengtsson si confermava un’eccellente Fiordiligi, sia per la splendida figura, sia per la bellezza del canto. La voce, irrobustitasi nel registro grave rispetto alle prove dello scorso anno, sapeva svettare luminosa come piegarsi in suggestive mezzevoci, il fraseggio era sempre curatissimo. Commovente l’aria “Per pietà ben mio perdona”, perfettamente sostenuta dall’orchestra. Josè Maria Lo Monaco era una Dorabella fresca e dal fascino quasi adolescenziale, spigliata in scena e musicalmente impeccabile. Eccellente il Guglielmo di Alessio Arduini, baritono di grande talento e rara personalità autore di una prova pienamente convincente per autorevolezza e classe. Il tenore Anicio Zorzi Giustiniani pur non possedendo una voce tra le più belle, disegnava un Ferrando partecipe e garbato. Piaceva moltissimo la deliziosa Despina di Caterina Di Tonno, spiritosa e vivace nonché ottimamente cantata. Perfettamente caratterizzato il Don Alfonso becero e sfrontato di Luca Tittolo, bella voce di basso al servizio di un canto espressivo e curato, soprattutto nei fondamentali recitativi.

Paolo Locatelli
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13 maggio 2013

Tosca al Verdi di Trieste

Il teatro Verdi di Trieste chiude la stagione operistica con Tosca, ultimo dei sei titoli in programma. Opera di richiamo come nessun’altra, il capolavoro pucciniano più controverso, amato e detestato a seconda delle personali inclinazioni e preferenze, torna in città a pochi anni dalla sua ultima comparsa, in un allestimento applauditissimo dal pubblico presente.



Lo spettacolo, con le belle scene di Adolf Hohenstein e la regia di Giulio Ciabatti è quanto di più tradizionale si possa immaginare. C’è Roma, Sant’Andrea della Valle, Palazzo Farnese e tutto il resto, c’è l’atmosfera papalina e lo sfarzo volgare della tirannia corrotta. I costumi di Anna Biagiotti, in linea con l’impostazione, riprendono le Tosche più classiche, le stesse cui si ispira la regia: il lavoro sui personaggi ricalca gli stereotipi con gusto e cognizione di causa, i caratteri sono lineari ma ben definiti, la scarsa fantasia è compensata dalla cura e dall’efficacia del risultato.

Alexia Voulgaridou è una Tosca convincente per personalità ed eloquenza, disinvolta sulla scena e curata nel fraseggio. Alcuna opacità vocali nelle filature e qualche eccesso di gusto in senso verista non inficiavano una prova positiva, molto apprezzata dal pubblico. Mario Cavaradossi è il tenore Alejandro Roy, cantante stentoreo, dotato di squillo e volume ma poco interessato all’approfondimento musicale ed interpretativo, autore di una prova sufficiente ma incolore.

Scarpia ha corpo e voce di Roberto Frontali, baritono dallo strumento imponente e tonante, ben gestito in un canto vario ed incisivo. Uno Scarpia ancient regime, truce e bieco, perfettamente calato nel contesto registico, cui si perdona una certa ruvidezza in taluni passaggi di canto di conversazione. 

Al solido Sagrestano di Paolo Rumez si potrebbe rimproverare qualche eccesso caricaturale mentre Gabriele Sagona è un Angelotti meno autorevole di quanto ci si aspetterebbe. Positive le prove di Nicola Pamio (Spoletta) e Christian Starinieri (Sciarrone), ottimo il carceriere di Giuliano Pelizon. Deliziosa la giovane Emma Orsini, voce del Pastorello.

Coordina il tutto la bacchetta di Donato Renzetti, autore di una concertazione coinvolgente e precisissima, attenta ai cantanti e alle ragioni del teatro senza scadere in effetti a buon mercato. Il suono è compatto senza essere pesante, il ritmo narrativo sostenuto, il sostegno al palcoscenico perfetto. Sugli scudi l’orchestra e il coro del teatro, impeccabili.

Paolo Locatelli

4 maggio 2013

Don Giovanni nel labirinto della mente umana

Recensione – Viva la libertà! La libertà morale, intesa come coraggio di svincolarsi dagli obblighi sociali e dalle “imposture della gente plebea”, irrealizzabile chimera di uomini schiavi del sistema ed inevitabilmente attratti da chi riesca a spezzare le proprie catene per inseguirla, a costo della vita. Questo è Don Giovanni secondo Damiano Michieletto, regista cui il Teatro La Fenice di Venezia ha affidato la trilogia dapontiana, interamente riproposta in occasione del “progetto Mozart”, inaugurato dallo stesso Don Giovanni nel fortunatissimo e pluripremiato allestimento con le scene di Paolo Fantin, i costumi di Carla Teti e le luci (estremamente suggestive) di Fabio Barettin.



L’impianto scenografico presenta gli interni di un palazzo settecentesco, claustrofobico e vagamente decadente. Un efficace gioco scenico produce un continuo mutamento degli ambienti attraverso la rotazione delle pareti, restituendo l’impressione di un labirinto privo di vie di fuga. Don Giovanni è onnipresente, proiezione dei desideri femminili e delle aspirazioni (o dei complessi di inferiorità) maschili, signore del palazzo e delle vite altrui. La sessualità – in luogo della sensualità – è esasperata, la violenza esplicita ed abusata, massimamente nella figura del protagonista, guardato con orrore e disapprovazione dagli altri personaggi (quasi dei proto-borghesi) eppure continuamente inseguito. Un Don Giovanni rifiutato ma blandito, come fosse per loro – se non personificazione dell’inconscio – il lato oscuro di sé, il desiderio di assecondare i proprio istinti più biechi, animaleschi ed immorali. E tale è l’immedesimazione tra il libertino e i suoi interlocutori che nessuno di loro saprà sopravvivere alla morte del protagonista nel colpo di teatro finale escogitato dal regista.

Antonello Manacorda riproponeva il proprio Mozart, già ascoltato ed apprezzato dal pubblico veneziano durante le scorse stagioni. Un Mozart moderno, teso ed incandescente, persino violento, in cui il tragico prevale sul comico, non per la densità del suono ma per la pulsione ritmica e per la tensione drammatica. I tempi sono sostenuti ma coerenti, la tavolozza di colori ridotta al minimo, come è nel gusto odierno.

Stesso discorso per i cantanti. Sarà rimasto deluso chi si aspettasse voci imponenti adoperate in un canto chiaroscurato, fatto di forti contrasti e lavoro sulla parola, trovandosi di fronte a un linguaggio quasi da teatro di prosa se non televisivo, in cui la recitazione (al solito molto curata da Michieletto) e l’immediatezza espressiva avevano priorità e prevalenza sul lavoro di scavo musicale.

Simone Alberghini era nel complesso un Giovanni convincente. Pur non possedendo uno strumento immacolato, il cantante sapeva assecondare il progetto registico, disegnando un Giovanni impetuoso e animalesco, dalla virilità rozza e violenta. Nicola Ulivieri era un Leporello di bella voce, corretto nel canto ma convenzionale. 

Molto buona la prova di Carmela Remigio, Donna Anna musicalmente ineccepibile ed interprete intensa. Maria Pia Piscitelli, Donna Elvira volitiva e sanguigna, esibiva voce di buona pasta ma faticava nelle zone più alte del pentagramma. Lasciava qualche perplessità il Don Ottavio di Marlin Miller, cantante dotato di discreto strumento e di un certo buon gusto nel porgere ma in difficoltà nel registro acuto. Alterne le prestazioni di Caterina Di Tonno, Zerlina talvolta ingessata e William Corrò, Masetto fin troppo temperamentoso. Solido il Commendatore di Abramo Rosalen.

Paolo Locatelli
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