6 marzo 2023

Il Beethoven di Rudolf Buchbinder e Daniele Gatti

  Un paio d'ore dopo l'annuncio delle dimissioni di Alexander Pereira, l'Orchestra del Maggio Musicale e Daniele Gatti erano di scena a Udine. Non un debutto, né per il direttore, che tornava in Friuli a distanza di qualche anno da un memorabile concerto con l’Orchestre national de France, né per i complessi fiorentini, già ospiti in passato accanto a Zubin Mehta. Non c'era invece ancora stata un'occasione di incontro tra il pubblico del Teatro Nuovo Giovanni da Udine e Rudolf Buchbinder, pianista ormai prossimo alla dimensione di leggenda vivente, almeno in quel repertorio canonizzato cui ha dedicato decenni di devozione. Anche in un terreno che ha percorso centinaia di volte, come quello del Concerto per pianoforte e orchestra n. 4 in Sol maggiore op. 58 di Beethoven, l’anziano maestro procede con qualche minima esitazione, è vero, d’altro canto vi si dedica con la libertà del grande.


  Non c’è esibizionismo nel suo agire, non c’è la smania di calamitare l’interesse su di sé, ma un ripiegarsi sulla pagina per sottrazione, come volesse defilarsi di fronte al monumento musicale per lasciare che sia esso stesso il protagonista. Lo affronta con un minimalismo di gesto, di suono, di enfasi che probabilmente non appagheranno chi predilige un pianismo più esuberante, ma che rappresenta invece un approccio nobile all’opera, le cui radici vanno ben più in profondità dell’eleganza di facciata.

  Va detto che Gatti lo accompagna meravigliosamente, tenendo l’orchestra soffusa quanto basta per lasciare che le mani di Buchbinder possano cantare senza forzare, ma anche dimostrando una sapienza nella concertazione che non sono in molti a poter vantare. Qualità che emerge ancor più schiettamente in una Sinfonia n. 4 in Si bemolle maggiore che sul piano esecutivo è notevole. Gli archi hanno un suono felpatissimo e sanno interloquire con gradazioni dinamiche impressionanti, ogni attacco è preso con una morbidezza ammirabile, la bilancia tra le sezioni non scivola mai dal punto di equilibrio se non per enucleare qualche dettaglio specifico da esibire agli occhi e alle orecchie dell’ascoltatore. C'è poi un’attenzione per l’articolazione certosina, ai limiti del calligrafismo. Gatti sembra giocare con l’orchestra, stringendo lo zoom su ogni minuscolo dettaglio, balzando da un campo stretto a quello successivo, come tenesse ogni cellula musicale in punta di bacchetta.

  Cosa manca dunque? A gusto di chi scrive la spontaneità, la fluidità, la capacità di insufflare vita a un organismo puntigliosamente vivisezionato in ogni sua minuscola parte, ma che come tale resta disteso immobile sul lettino del musicista scienziato. Il Beethoven di Gatti - e della splendida orchestra del Maggio Musicale - è un prodigioso “spiegone”, colto e iper-tecnico, che però si avvita su se stesso nel costante desiderio di mettere i puntini sulle “i”.

1 marzo 2023

Il matrimonio segreto alla Fenice

   I termini della questione sono chiari: Il matrimonio segreto non ha le spalle abbastanza larghe per reggere senza un'idea musicale forte e adeguatamente perseguita. Non è il genere di opera che marcia da sola crollasse il mondo, di quelle talmente compatte e ben congegnate da non patire sciatterie, improvvisi cali di voce della primadonna o qualche guasto nel motore. Se poi l'ingranaggio che non gira è quello centrale - fuor di metafora: il manico - le speranze di assistere a un'esecuzione riuscita crollano drammaticamente. È questo il problema capitale, purtroppo non l'unico, nello spettacolo in scena al Teatro La Fenice.



   Può darsi che in cuor suo Alvise Casellati abbia maturato il Matrimonio segreto migliore del mondo, chissà, ma la recita cui si è assistito in occasione del debutto della nuova produzione del teatro veneziano non lo lascerebbe pensare. La freschezza, il brio, quelle mezzetinte ora allusive ora sensuali, i sorrisini e i patetismi che Cimarosa dosa e incastra con arte nel suo lavoro più celebre si volatilizzano, cementificati nel grigiore di un'orchestra che suona in un costante mezzoforte tanto plumbeo e trasandato nell'articolazione quanto disinteressato alle ragioni del canto. Sì perché i cantanti hanno delle esigenze che andrebbero ascoltate, recepite e, nei limiti del possibile, accondiscese. Non è servilismo, ma pragmatismo. Un pragmatismo che avrebbe evitato tutti gli scollamenti tra buca e palco, i solisti mandati a spasso, gli attacchi sporchi o "sparati" dell'orchestra e gli sfasamenti che si sono ascoltati. C’è poi anche un problema musicale più difficilmente circostanziabile. Pur nella sua apparente semplicità, l’opera italiana sette e primo-ottocentesca richiede un lavoro di approfondimento in termini di dinamiche, fraseggi, accentazione e colori, di respiri e flessibilità del battito che forse ci sarà anche stato, ma non si è sentito. Un discorso che vale per i recitativi, ben accompagnati da Roberta Paroletti ma mal tagliuzzati e lasciati all’iniziativa dei solisti sicché alterni, come per l’Orchestra della Fenice, non imprecisa ma opaca e pesante come un asteroide.

   Se in buca le cose vanno male, non aiuta lo spettacolo di Luca De Fusco, che fa una regia molto “scolastica” e demodé, che guarda al passato non solo nel trucco-e-parrucco e nei bei costumi d’epoca di Marta Crisolini Malatesta. Il problema tuttavia non è certo la collocazione temporale, quanto l'inadeguatezza di un approccio prosaico che sembra non tenere conto delle necessità specifiche del genere, ben diverse da quelle del teatro di parola, come la gestione di ritmo e azione nei numeri chiusi e il rapporto tra gesto e musica. 

   Un’impostazione così semplice e tradizionale si sarebbe probabilmente giovata di un impianto più elaborato, invece, forse per via dell’alternanza con Il barbiere di Siviglia di repertorio, si è scelto di ridurre all’osso le scenografie, di fatto costituite da una sola parete di fondo tappezzata di aperture a mo’ di porte, specchi e quadri-finestra su cui scorre in proiezione una serie di immagini softcore (di Laura Farina).

   Le note positive arrivano dunque dai cantanti, che compongono un cast omogeneo e ben assortito. Lucrezia Drei è una Carolina fresca e leggera nella voce ma anche nell'attitudine, ben calata nel personaggio e in possesso delle necessarie qualità tecnico-espressive. Omar Montanari è al solito magistrale nelle parti che orbitano intorno alla grande nube dei buffi: ha sempre il colore e l'accento giusti, ritmicamente non sgarra neanche nei sillabati più stretti e tratteggia un Conte Robinson di irresistibile simpatia. Mutatis mutandis, il discorso è applicabile a Juan Francisco Gatell, che domina senza esitazioni la scrittura (seppur la direzione non gli vada sempre incontro), con una voce che pur avendo mantenuto l'estensione e la timbratura chiara degli esordi ha imparato a correre in sala con una facilità sorprendente.

   Francesca Benitez, che fa un’Elisetta il giusto inacidita e antipatica, dà il meglio di sé nel virtuosismo dell’aria del secondo atto. Convince anche Pietro Di Bianco, Geronimo giovanile e di bel timbro. Chiude il cast Martina Belli che, oltre al suo bel velluto vocale e a una notevole espressività nel tornire la parola cantata e recitata, garantisce a Fidalma una piccantezza “cougar” ben lontana dal modello della vecchia vedova in disarmo.