2 dicembre 2019

Don Carlo di Verdi inaugura la stagione della Fenice

Con ironia tipicamente veneziana, nell'intervallo una signora stava spiegando a un giovane adepto che "Posa xé quel che va un po' col pare e un po' col fio". Chirurgica. Robert Carsen però osa un passo in più e aggiunge un’unità al doppio gioco del Marchese, triplicandolo. Prima di svelare altro, vi avviso che se non avete ancora visto lo spettacolo è meglio che vi fermiate qui, risparmiandovi lo spoiler sul finale, e che andiate sparati a procurarvi un biglietto, fidandovi di ciò che vi dico: ne vale la pena. In caso contrario proseguite pure.



Ebbene, per tre atti su quattro il Don Carlo di Carsen va avanti come quasi ogni altro Don Carlo dacché Verdi lo mise nero su bianco (per la terza volta, perché la versione scelta è quella del 1884 senza Fontainebleau). Be', non proprio come tutti gli altri, perché a muovere solisti e masse Robert Carsen è ancora il numero uno, perché Peter Van Praet è un drago delle luci, perché quel nero opprimente delle scene di Radu Boruzescu soffoca e angoscia, perché certi momenti raggiungono una tensione pulp da blockbuster: il finale dell’autodafé ad esempio, da brividi. Però fino alla scena del carcere il Don Carlo di Carsen è un grande spettacolo che marcia di pari passo con la drammaturgia. Poi il colpo di scena. Posa non muore, si è venduto all'Inquisitore e il suo omicidio è una messinscena imbastita per liberare l'Infante senza destare sospetti. Quando questi viene sorpreso dal padre a trescare con la moglie, l' Inquisitore li fa ammazzare entrambi mentre Posa, il suo delfino, è già pronto con la corona in testa a usurpare il trono. Il vero golpista è l’Inquisitore.
Dire che sia arbitrario è come scoprire l'umidità dell'acqua, che non piaccia è legittimo. Però dannazione, che maestria! Che coerenza! Questo è teatro vero.



La seconda ragione per non perdere questo Don Carlo ha un nome esotico che in laguna conoscono bene: Myung-Whun Chung. Difficile catalogare la sua direzione, perché è fondamentalmente discorsiva, a tratti rivelatrice (ma solo a tratti), molto “suonata” ed estetica ma mai "arredativa" o di contorno. Con qualche eccezione, come il duetto tra Filippo e Inquisitore, non è neppure spiccatamente teatrale, nel senso che accompagna più che raccontare, eppure raggiunge tali abissi di orrore, scava nella carne, distilla un tale carico di poesia che alla fine ci si ritrova ad acclamare il direttore con entusiasmo senza capirne fino in fondo le ragioni. Forse tutto sommato il vero merito di Chung è quello di lasciare che sia la partitura a suonare, senza volersi inventare niente che Verdi non avesse già pensato.
Terzo punto: orchestra e coro di casa sono in stato di grazia e nemmeno sorprende, perché la prima quando sul podio c’è lo stregone coreano dà sempre il meglio di sé, mentre il secondo non delude una volta che sia una, però certi pianissimi che Claudio Marino Moretti chiede alle sue voci lasciano di stucco.



Infine il cast, che è un buon cast, cosa che già di per sé fa notizia quando si parla di un'opera simile. Piero Pretti è un protagonista di tutto rispetto, pulitissimo nel canto, musicalmente ineccepibile, asciutto in scena e nel gusto.
Il Filippo II di Alex Esposito non solo è vocalmente molto più a fuoco e in parte di quanto ci si potesse aspettare, considerando l’ascendenza più leggera del basso, ma domina la parola e gesto con l’intelligenza del grande artista. Un bel debutto.
Ottima la prova di Julian Kim (Posa), che ha gran voce, scura e timbrata, ma anche cognizione di come vada manovrata per virare dal forte al piano e viceversa.
È un piacere ritrovare Maria Agresta in splendida forma. Se lo strumento si è forse leggermente impoverito rispetto agli esordi, l'artista è ancora più varia e sensibile: la Agresta è il genere di cantante che usa il canto sempre come mezzo e mai come fine, insomma è il genere di cantante che scritturerei sempre.
Non trascendentale la prova di Veronica Simeoni, che ha sì tutte le note della parte, ma in più di un punto mostra la corda, soprattutto in acuto.
Marco Spotti è un Inquisitore di lungo corso, possente e austero. Discontinuo il Frate di Leonard Bernad, mentre tutti gli altri sono all’altezza della situazione.

Alla fine è trionfo. Sacrosanto.

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