16 luglio 2019

Gli inferi in Castello

La scelta di proporre l’Orfeo ed Euridice di Gluck all’aperto, in una di quelle classiche rassegne estive che generalmente inanellano Barbieri e magici Elisiri come se piovesse, è quantomeno eccentrica. Lo è doppiamente se l’originale gluckiana – o per meglio dire, una delle originali, visto che il compositore ci ha messo e rimesso le mani sopra a più riprese – viene condita da sofisticazioni e interpolazioni varie ed eventuali. Ebbene, è quello che Marco Angius, o chi per lui, ha deciso di offrire al pubblico del Castello Carrarese di Padova. L’Ouverture ad esempio non c’è, sostituita dal poema sinfonico omonimo di che Liszt scrisse per una ripresa ottocentesca dell’opera, mentre qua e là fanno capolino brani di Berio. Arbitrario, certo, ma d’effetto.

Foto di Giuliano Ghiraldini


Non è un caso che le cose migliori arrivino proprio dall’Orchestra di Padova e del Veneto e dal suo guru, o almeno le più interessanti, e non solo per le scelte “editoriali”. Perché? Perché il problema in questo repertorio è centrare quell’equilibrio olimpico tra l’asciuttezza di articolazione e sonorità post barocca, d’altronde si arriva da lì, e un’enfasi sinfonica prettamente “classica”, senza congelare il tutto in una contemplazione canoviana del bello fine a se stesso o stilizzare troppo. Fatta la tara delle condizioni acustiche e logistiche non ideali, Marco Angius e l’OPV centrano il punto, pennellando un Gluck il giusto leggero e flessibile, senza eccessi di secchezza né di vigore, bello tonico ma non corpulento.

Per il resto quello proposto è un Orfeo che si potrebbe quasi definire oratoriale o in forma semiscenica, benché non lo fosse completamente. Non c’è una regia vera e propria ma un progetto d’allestimento, a firma Compagnia Lubbert Das, che punta prevalentemente sulla danza e sui movimenti dei coro. L’orchestra è a fondo palco, sulla scena c’è poco, per non dire nulla, ma che ci sia un lavoro di concertazione registica generale è evidente. Con qualche ingenuità forse – perché ad esempio la morte con falce è una presenza didascalica a cui si potrebbe rinunciare – ma sono inezie, lo spettacolo regge e ha un suo filo. I solisti sono in total black, quasi dei mimi, il coro una serie di replicanti biondini senza volto, o comunque indistinguibili l’uno dall’altro, cosa che genera un effetto leggermente comico quando ad indossare il caschetto biondo è un omone maturo con un bel pizzetto.

Rimane il fatto che Orfeo ed Euridice non è propriamente l’opera ideale per uno spazio aperto, un po’ perché il chiostro del castello, benché non soffra particolari limiti d’acustica, impone alle voci una proiezione spinta che necessariamente scarifica qualcosa in termini di inflessioni e colori, soprattutto nel cesello della parola, un po’ perché una proposta del genere parrebbe un boccone poco invogliante per il pubblico “generalista” delle piazze estive.

Venendo al cast, la protagonista assoluta è ovviamente Laura Polverelli, Orfeo di voce non grandissima, ma che pare essersi notevolmente irrobustita nel registro grave rispetto al passato, sicché oggi la parte le si cuce addosso senza intoppi. Ha bel timbro rotondo, ottima musicalità – quanto è difficile cantare con l’orchestra alle spalle, senza vedere il maestro! – e un’espressività varia e lavorata, almeno nella misura consentita dal contesto.

Michela Antenucci è un’Euridice dalla classica ascendenza lirico leggera: bel timbro fresco, con qualche punta acidula negli estremi acuti, espressività appropriata.

Funziona bene anche l’Amore di Veronica Granatiero, che nasaleggia un po’ ma ha buona proiezione e una presenza scenica credibile.

Fondamentale il contributo del Coro Iris Ensemble, che ha davvero una bella pienezza d’amalgama e, nonostante qualche disomogeneità tra i registri che emerge più per le condizioni di disposizione sul palco che per limiti intrinseci della formazione, firma una prova onorevole.

Buon successo di pubblico.

8 luglio 2019

Il Trovatore dei due Netrebko

È il Trovatore di Anna Netrebko, a volersi allargare di Netrebko e marito. Miracoli dello star system forse, ma non solo, semplicemente “nella vita esistono le categorie”, come insegna quell’allenatore pluriscudettato, e Annabella è da Champions League. D’altronde Cecilia Gasdia l’ha detto a chiare lettere: l'obiettivo è riportare a Verona le stelle, come ai tempi in cui l’Arena era considerata La Scala d’estate. Perché ammettiamolo, un cantante quando sale sul palco si porta dietro anche la propria storia, mescolata a quella cosa che non sapendo come meglio definirla chiamiamo “carisma”, e lei, la Netrebko, di carisma ne ha da vendere. Ma sa anche cantare, eccome se lo sa fare! In alto sta che è una meraviglia: voce bella – quel suo timbro inconfondibile – fluida, fiati da mantice d’organo, sfuma e alleggerisce come se regolasse l’emissione con una manopola per l’aria. Sotto gonfia un po’, è vero, cosa che non infastidisce affatto perché dà alla voce un’omogeneità di brunitura lungo tutta l'estensione. È dunque perfetta, questa Netrebko? Ovviamente no. Talvolta un pochino stona, e nemmeno troppo di rado, ma si sa, questo difetto se lo porta dietro da sempre.

©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

È pur vero che il protagonista dell’opera sarebbe il tenore, nel caso specifico il marito appunto, cioè Yusif Eyvazov, che non è affatto l’inetto raccomandato che raccontano i sapientoni dei loggioni facebookiani. Ha una voce di natura poco attraente, soprattutto per l’aridità del timbro e la pochezza di armonici, ma è un cantante solido, musicale, pulito nella linea e fraseggiatore asciutto. Inoltre per cantare Manrico ha sia i centri, che sono quelli su cui Verdi scrive la parte, sia gli acuti, cioè i do in sostanza, che partitura alla mano servirebbero a poco ma che fanno vendere i biglietti.

Le voci gravi convincono meno: Luca Salsi ha il gran bel timbro baritonale che sappiamo ma soffre parecchio la tessitura (forse troppo?) acuta del Conte, soprattutto in aria e successiva cabaletta, dove infila una serie di calate una dietro l’altra. Dolora Zajick ha ancora una bella canna e la personalità della "grande vecchia", seppur la voce sia ormai eufemisticamente liquidabile come disomogenea. Però nel registro acuto è ancora capace di sparare certe fucilate impressionanti.

Chi invece si fa valere oltre ogni attesa è Riccardo Fassi, un signor basso dall’avvenire già scritto. Bel timbro, controllo impeccabile e tutto quel che serve per gettare le basi di una carriera che si spera sia lunga e piena di successi. Tra le parti minori Carlo Bosi, Antonello Ceron e Dario Giorgelè sono delle certezze, Elisabetta Zizzo una piacevole sorpresa: voce chiara che cammina senza imbarazzi negli spazi colossali dell’anfiteatro.

©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Dal podio non arrivano meraviglie, o meglio, Pier Giorgio Morandi si ferma all’onesta routine, perdendosi qua e là il palco e marciando a testa bassa nelle arie – se D’amor riesce così bene è perché la Netrebko si prende tutte le libertà del mondo e l’orchestra le va dietro – ma ha il merito non indifferente di cavare dall’orchestra un suono di inedita bellezza, almeno all’orecchio di chi l’Arena la frequenta saltuariamente, come il sottoscritto. Per il resto non si ascoltano né prodigi né nefandezze.

Resta da dire dello spettacolo, che probabilmente è quanto di meglio Franco Zeffirelli abbia concepito per il Festival. Certo, ci sono le sue solite furbate e gigionate: nel coro degli zingari e in quello dei soldati monta una sorta di carnevale di Rio con tanto di brani del balletto parigino buttati dentro per allungare il brodo. Ci sono i soliti cavalli, ballerini, comparse a perdita d’occhio, ma c’è anche del teatro vero, di taglio kolossal ovviamente, ma vero. È poi innegabile che certi affreschi corali siano talmente maestosi da smuovere anche il più cinico dei cuori. Bello.

Manco a dirlo è trionfo per tutti.

©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona