29 novembre 2023

Les Contes d'Hoffmann di Michieletto alla Fenice

   La produzione de Les Contes d'Hoffmann che ha inaugurato la stagione del Teatro La Fenice è una summa dell’arte varia di Damiano Michieletto. Varia perché in questo spettacolo c’è dentro veramente di tutto, dal melodramma alla danza passando per il trasformismo e l’illusionismo, ma c’è soprattutto quell’abilità artigianale imprescindibile per dare ordine e ritmo a una partitura registica che è fantasiosa e poetica quanto la pagina di Offenbach stesso. D’altronde pochi libretti possono offrire una simile carica visionaria, che scioglie quasi completamente l’interprete dal vincolo di realtà, anzi, ne incoraggia le fantasie più sfrenate, fino a sfidare i limiti e la decenza.

Les Contes d'Hoffmann Teatro La Fenice

   È altresì vero che è proprio in questo territorio di mezzo carattere, in cui il comico addolcisce la malinconia senza disinnescarla, che Michieletto ha sempre dimostrato di saper trovare un codice personale, abbastanza scanzonato da non soffocare la leggerezza ma anche cangiante quanto necessario per blandire le ombre crepuscolari o tragiche. Tanto più che nell'occasione riesce a farlo senza spruzzarci dentro quel tocco di ruffianeria furbetta che in passato non ha lesinato e di cui, nello spettacolo veneziano, restano solo le briciole, o per meglio dire i coriandoli sbrilluccicanti.

   È uno spettacolo, questo, di cui è difficile raccontare, se non inquadrandolo per sommi capi dalla distanza come il trionfo del virtuosismo di un prestigiatore della regia capace di dare corpo e forma alle mirabolanti follie dell’opéra fantastique di Offenbach. Ci riesce plasmando immagini in cui musica e libretto trovano una realizzazione visuale che sì, in gran parte devia dai binari del testo in senso stretto, ma così facendo ne preserva la forza eversiva e, di conseguenza, la pregnanza.

   L’Hoffmann di questo spettacolo è un vecchio outsider con la debolezza dell’alcol, o forse con la necessità di anestetizzare una sfilza di cicatrici che non si sono mai rimarginate, che si trova a ripercorrere i ricordi, in parte verosimili e in parte deliranti, delle tante sconfitte che l’hanno portato a diventare quel che è. Gli episodi procedono, atto dopo atto, come in una cavalcata onirica tra le memorie degli amori passati, sempre inesorabilmente naufragati, dalla cotta tra i banchi di scuola per la prima della classe Olympia allo straziante incontro con il dolore e con la morte attraverso Antonia, qui non una cantante ma ballerina costretta a letto dalla malattia. Infine il colpo di grazia, inferto senza pietà alcuna da Giulietta, accompagnata da un carnevale di maschere mostruose in un tripudio orgiastico e, questo sì, demoniaco come solo un certo tipo di alta società sa essere. Scene da un romanzo non di formazione, ma di autodistruzione, catalizzata dai demoni radicati nell’animo stesso di Hoffmann, che l’hanno sabotato e distaccato dalla realtà un poco alla volta.

Les Contes d'Hoffmann Teatro La Fenice

   Così è a grandi linee uno spettacolo che Michieletto innaffia con un’inesauribile cascata di idee, guizzi, artifici, dettagli e fuochi d’artificio, veri e metaforici, calibrati nei tempi ad assicurare una fluidità tanto semplice all’apparenza quanto sofisticata, dimostrando una consapevolezza nella concertazione di solisti e masse che ormai ha raggiunto la piena maturità.

   Quando si nomina Damiano Michieletto, si parla tuttavia per sineddoche, perché se c’è un artista che ha fatto del lavoro di squadra una certezza granitica, questo è il regista veneziano. Al successo di una produzione di un tal livello tecnico servono delle scene come quelle di Paolo Fantin, che non sono solo “belle” di per sé, che poi non vuol dir molto, ma strategiche per garantire agilità a uno spettacolo in cui basterebbe un piccolo collo di bottiglia per grippare l’intero meccanismo, o le luci di Alessandro Carletti, determinanti nell’economia della drammaturgia stessa esattamente come i costumi di Carla Teti. O ancora le coreografie di Chiara Vecchi, che sanno assecondare il carattere più fatuo della scrittura quanto scavare nei suoi anfratti più torbidi laddove esplicitano un erotismo che è quasi sempre colto nel suo lato più grottesco.

Les Contes d'Hoffmann Teatro La Fenice

   È un peccato che una tal girandola di creatività e acrobatismo scenico, che potrebbe dettare in prima battuta i tempi e le intenzioni alla buca stessa, non entri in risonanza con la sensibilità di Frédéric Chaslin, che dal podio cosparge un velo di grigiore su tutto. Non è un cappotto plumbeo esiziale per il buon esito della performance, anche perché di fronte a Chaslin c’è l’Orchestra della Fenice che suona davvero molto bene, ma una narrazione musicale che anziché mettere “under steroids” la partitura, infiammandola in tutta la sua ricchezza di sbalzi e colori, marcia routinariamente verso la meta, preoccupandosi solo che i pezzi stiano insieme. C’è poi la questione spinosa dell’edizione adottata, su cui a onor del vero il povero Chaslin ha ben poche responsabilità, essendo subentrato al previsto Antonello Manacorda appena prima che iniziassero le prove, con tutto il materiale già aperto sui leggii. Qui lo scheletro lo fornisce la vecchia Guiraud/Choudens - con (quasi) tutte le ben note apocrifie e manomissioni del caso come la Barcarolle, il Settimino e la stretta finale dopo l'apoteosi - aggiustata qua e là con qualche pezzo pescato dalla prima edizione critica del canone, curata da Oeser negli anni Settanta, e la abolizione totale di parlati.

   Quanto al cast, c’è un Ivan Ayon Rivas nella parte del titolo che ha doti scenico-vocali ideali soprattutto per cogliere gli episodi giovanili della vita del protagonista, forte di un timbro luminoso e di un registro acuto insolente che atto dopo atto non mostra il minimo segno di fatica. Il suo inseparabile Nicklausse, che nello spettacolo diventa un bellissimo Ara ararauna che svolazza in scena, è Giuseppina Bridelli, la quale ha uno strumento delicato ma prezioso e una sensibilità espressiva che ben si sposa con il taglio cherubinesco in cui la incastona la regia.

   Alex Esposito conferma di essere semplicemente perfetto nei ruoli da satanasso, in cui il suo istrionismo può deflagrare senza inibizioni. È poi vero che l’Esposito-cantante ha ormai maturato una prodigiosa capacità di coniugare al controllo dell’emissione una chiarezza di articolazione di parola e suono, in ogni loro sfumatura e intenzione, che non si scompone neanche nelle sferzate più audaci.

   Rocío Pérez è una Olympia con tutte le giravolte vocali e i sovracuti al posto giusto, oltre che meravigliosa in scena, così come è perfettamente in parte Carmela Remigio, che sembra catapultata in una seconda giovinezza vocale tale è l’identificazione con il personaggio di Antonia e il livello di intensità drammatica che raggiunge. È invece un peccato che l’edizione scelta riduca l’atto di Giulietta a un moncherino, ridimensionando il contributo di un’artista della classe di Veronique Gens a poco più di un cameo.

   Didier Pieri è molto bravo sia nel risolvere vocalmente tutti i suoi interventi (Andrès, Cochenille, Frantz, Pitichinaccio) - in particolare il momento solistico di Frantz, qui ritratto come un maestro di danza che sprizza una gaiezza abbastanza macchiettistica, gli è valso un applauso a scena aperta - sia a connotare ognuno dei suoi personaggi, diversi nei caratteri ma accomunati da una certa propensione alla remissività.

   È solidissimo il contributo delle tante parti di fianco, dalla Musa di Paola Gardina, una Signora-Fata che dispensando l’ispirazione al protagonista cuce insieme i diversi capitoli, fino allo Spalanzani "einsteiniano" di François Piolino. Francesco Milanese è molto più che affidabile nella doppia caratterizzazione di Luther, che sembra davvero uscito da un'osteria della campagna tedesca, e Crespel, così come è impeccabile il lavoro di Yoann Dubruque (Hermann/Schlemill). Chiudono degnamente il cast Christian Collia, Nathanaël, e Federica Giansanti, la voce della madre di Antonia. Al netto di qualche piccolo scollamento, anche il Coro della Fenice preparato da Alfonso Caiani è in ottima serata.

   A fine spettacolo accoglienza trionfale per tutta la compagnia e un tributo toccante alle vittime di violenza di genere, ricordate da un paio di scarpe rosse portato sul palco.

26 novembre 2023

Note su note: Klaus Mäkelä e Stravinskij

   Se l’integrale delle Sinfonie di Sibelius con cui si era aperto il rapporto tra Decca e Klaus Mäkelä - primo direttore a firmare un contratto in esclusiva per l’etichetta britannica dai tempi di Riccardo Chailly - aveva parzialmente deluso le aspettative, probabilmente anche per via delle condizioni di distanziamento imposte durante la registrazione, il secondo tentativo va a bersaglio. Questa volta la ripresa avviene a margine di una serie di concerti e di fronte al maestro finlandese, anziché la Filarmonica di Oslo, c’è l’Orchestre de Paris, di cui Mäkelä è “directeur musical” dal 2021. È proprio l’orchestra con il suo virtuosismo la protagonista di questo Stravinskij, affrontato con una ricchezza di dizionario che rende interessante l’ennesima incisione di due brani che certo non mancano dagli scaffali dei negozi di musica, pur con uno sbilanciamento a vantaggio de Le Sacre sulla versione integrale e originale dell’Uccello di Fuoco del 1911. 

   Un’orchestra capace dunque di esprimersi estremizzando ogni risorsa espressiva sollecitata dalla strumentazione, dalla delicatezza al vigore, dalla flessibilità alla trasparenza, e altresì di esibire una brillantezza accecante, qualità che il giovanissimo Mäkelä dà prova di saper incanalare in una narrazione discorsiva, che non mira all’incisività o a marcare i contrasti, ma piuttosto alla fluidità, per certi versi alla neutralità. Il progetto inaugurato da questo primo capitolo proseguirà nella primavera del prossimo anno con la registrazione di Petrushka, cui saranno abbinati Jeux e il Prélude à l'après-midi d'un faune di Claude Debussy.


Klaus Mäkelä dirige Stravinskij DECCA


23 novembre 2023

Wiener Philharmoniker week in Japan 2023

  Nella “week in Japan 2023” che si è conclusa pochi giorni fa, i Wiener Philharmoniker non si sono certo risparmiati, tra concerti, masterclass e iniziative collaterali di formazione per giovani musicisti. Programmi diversi sui leggii a seconda delle date, sparpagliate tra Tokyo e dintorni, e la costante Tugan Sokhiev sul podio, accompagnato a giorni alterni dal jolly Lang Lang. Tuttavia chi pensasse a un evento eccezionale si sbaglierebbe di grosso. Per dare un'idea di quale sia la vivacità della proposta della Suntory Hall, che ospitava la gran parte dei concerti in calendario, basta dire che nel solo mese di novembre vi si sono avvicendate la Czech Philharmonic, l’orchestra del Concertgebouw, la Mahler Chamber e appunto i Wiener, mentre nei prossimi giorni arriveranno i Berliner Philharmoniker con Kirill Petrenko e infine la Gewandhausorchester con Andris Nelsons.

I Wiener Philharmoniker Tugan Sokhiev, Lang Lang
© Naoya Ikegami | SUNTORY HALL

  Il menù della serata di cui si racconta era affascinante per almeno due ragioni. La prima la apparecchiava proprio Lang Lang, il quale ultimamente pare abbia deciso di tuffarsi a capofitto nell’universo di Camille Saint-Saëns, cui ha dedicato il nuovo album in uscita nel 2024. Vi sarà incluso anche il Concerto per pianoforte No 2 in Sol minore, proposto proprio nella tournée giapponese, un’opera che già sulla carta rappresentava una bella scommessa da cui il pianista sarebbe potuto uscire in gloria o clamorosamente sconfitto. Il responso trionfale del pubblico non lascia dubbi sulla bontà della prova, anche se qualche distinguo è opportuno farlo.

  La scrittura si adatta perfettamente alla meccanica del Lang Lang virtuoso, che è un profluvio di morbidezza e possanza, di fluidità e controllo. Però, per non sfuggire all’infallibile adagio secondo cui ciascun musicista suona come si mostra, nel suo approccio alla pagina c'è una iperespressività onnipresente, per l’appunto la stessa che erompe dalla sua prossemica. Il fare musica di Lang Lang pare mosso dal bisogno incoercibile di rimarcare leziosamente il carattere di ogni inciso, esasperandolo senza mezze misure né pudore.

  Ci si trova così nella strana sensazione di chi è combattuto tra l’ammirazione per lo straordinario equilibrismo delle mani sulla tastiera, per la sinuosità del tocco e la sua brillantezza, per il bilanciamento dei pesi e delle dinamiche e l'irritazione per la stucchevole celebrazione estatica di ogni boccone musicale come se fosse il più gustoso che si possa mai assaporare. Per Lang Lang è tutto grandioso. Lo struggimento è grandioso, lo è la passione, il gesto, i sentimenti suscitati dalla musica sono grandiosi, mentre non sembra tenere in minima considerazione tutte quelle sfumature di partecipazione e di articolazione che concorrono a determinare il sottotesto di un'interpretazione, il non detto rimesso alla sensibilità dell'ascoltatore.

© Naoya Ikegami | SUNTORY HALL

  Due ragioni per segnare il concerto in agenda, si diceva. Va da sé che la seconda fosse Tugan Sokhiev, sia per la curiosità di ascoltarlo in una pagina che frequenta da tanto tempo come la Quinta di Prokof'ev, e che ha anche inciso ai tempi in cui guidava la Deutsches Symphonie Orchester di Berlino, sia per testare i risultati del suo incontro con i Wiener Philharmoniker, i quali notoriamente non sono sempre ben disposti ad assecondare le bacchette estrose, quasi si beassero di cannibalizzare i maestri che si trovano davanti. E Sokhiev non scampa al destino di tanti.

  Certo Sokhiev è uno straordinario virtuoso della direzione, capace di tenere in controllo ogni dettaglio della partitura, almeno se si parla di pilotaggio musicale, e questo traspare nettamente anche con certo compiacimento dello stesso direttore. La sua tempra di interprete deve però scontrarsi con l'irriducibile identità dei viennesi. Riesce a domarla e imporre la propria cifra nei momenti più esuberanti, che carica di una violenza barbarica da cavalcata nelle steppe, con ottoni ruggenti e archi gravi inquieti, ma più spesso il suo gesto musicale esplosivo viene come assorbito e disinnescato dal velluto orchestrale. C'è ben poco da eccepire sulla qualità dei Wiener, che sono la meravigliosa orchestra che tutti conoscono, tuttavia la loro propensione alla rotondità e alla morbidezza costante è come se mediasse la carica ora vitalistica, ora drammatica, del direttore, addolcendone la traduzione in suono. I Wiener Philharmoniker, prima di fare Saint-Saëns, Prokof'ev, Beethoven o Strauss, fanno se stessi, applicando a tappeto il proprio codice estetico.

  Il loro Prokof'ev è talmente denso e felpato che pare smussato, soprattutto nei passaggi che si vorrebbero articolati con maggior irruenza ma che in fondo si stemperano nell’amalgama per certi versi “antico”, in un'epoca in cui va più di moda la trasparenza, dell'orchestra. Ne esce dunque una Quinta straordinariamente compatta e impastata nelle sonorità, e quindi poco incline all’analiticità, ma altresì levigata a tal punto da avere un'impronta molto più viennese che sokhieviana.

  Quel che è certo è che il pubblico di Tokyo ha gradito e accolto trionfalmente i musicisti, i quali si sono congedati solo dopo due bis mentre per Sokhiev le chiamate alla ribalta sono proseguite anche quando i professori d'orchestra avevano ormai abbandonato il palcoscenico.

© Naoya Ikegami | SUNTORY HALL


8 novembre 2023

Il Pelléas et Mélisande di Iván Fischer all'Olimpico

  C'è un'impronta naturalistica nel fare musica di Iván Fischer, una neutralità descrittiva che non tradisce anaffettività né freddezza, ma la rinuncia a caricare l'esecuzione di qualsiasi sovrastruttura. Nessuna affiliazione a scuole esegetiche immediatamente riconoscibili, men che meno pose da intellettuale del podio alla ricerca della rivelazione epocale. Il suo affetto genuino per l'arte traspare sin dal gesto, così essenziale e anti-barocco, un gesto che accompagna, guida e suggerisce senza cavillare inutilmente né rimarcare gli afflati espressivi, senza calcare le tinte o spiattellare gli snodi emotivamente più carichi.

Il Pelléas et Mélisande di Iván Fischer all'Olimpico di Vicenza
Pelléas et Mélisande, Vicenza Colorfoto

  Ormai il Vicenza Opera Festival inizia ad avere qualche anno, abbastanza per validarne la resistenza anche allo stress test di periodi complicati, cosa non scontata per una rassegna realizzata intorno a gruppo di musicisti in trasferta con ambizioni tutt'altro che dimesse. Dopo un paio di cartelloni in tono minore, il Pelléas et Mélisande di questo autunno rialza l'asticella, sia per lo sforzo dimensionale di un titolo del genere, sia perché l'approdo del direttore e della sua Budapest Festival Orchestra all’opera è per molti versi illuminante. Non è il classico Pelléas "francesino", diafano e ventoso, ma la traduzione del testo di Debussy nell'idioma di un’orchestra con una forte connotazione timbrico-espressiva che non snatura se stessa per modellarsi sulla tradizione interpretativa.

  C'è dunque un'identità di base che parte dal suono intrinseco dell’orchestra, Fischer tuttavia non cerca di trascinare Debussy da nessuna parte. Non lo scaraventa nelle temperie novecentesche, vivisezionandolo e aguzzandone gli spigoli, e nemmeno lo liricizza come a potabilizzare una scrittura a favore del suo lato più sentimentale, ma lo svela, financo nelle insospettabili accensioni brutali che sì, ci sono e sono scritte nero su bianco, anche se quasi sempre si stemperano nell’atmosfera rarefatta delle concertazioni ipertrasparenti e “garbate” di prassi. E che questo lato lato sanguigno sia lì, in attesa di prorompere, lo dimostra la naturalezza con cui sgorga della partitura appena sollecitato, sia pure con una piccola marcatura di un accento dei contrabbassi.

  Co-firmando anche la regia dello spettacolo in comunione con Marco Gandini, si può dire che almeno nelle intenzioni l'approccio di Fischer alla parte extra-musicale non sia dissimile: inizia dal testo e al testo rimane, senza sofisticarlo. Quel che cambia è il mestiere. Se il Fischer musicista è un ipervirtuoso, anzi, un genio, il Fischer regista è poco più che un dilettante. Certo, deve fare i conti con la scenotecnica di un teatro che non ha praticamente niente di quel che serve per mettere in scena una produzione operistica moderna; il problema è che il team registico non pensa uno spettacolo a misura dell'Olimpico, sfruttandone le peculiarità uniche, ma adatta qualcosa che assomiglia a uno spettacolo canonico ai limiti dell’Olimpico.

  L'orchestra se ne sta sul palco, sparpagliata e camuffata in buffe toghe verdi in mezzo a un groviglio di tronchi e rami che lo ricoprono per intero a riprodurre gli intrecci di una foresta mentre un paio di piccole pedane recintate accolgono le scene al chiuso. Quel che ne esita è uno spettacolo didascalico e quasi ingenuo, che però ha almeno due pregi. Innanzitutto riallaccia il filo con un modo di fare teatro antico che, se perseguito con maggior consapevolezza, avrebbe anche potuto avere cittadinanza in uno spazio simile. Il secondo è che questa regia un po’ naïf lascia trasparire - il come è un mistero - i tratti più disturbanti della pièce. Tutti quei sottili e meno sottili abusi psicologici reciproci, talvolta fisici, le ombre umorali dei personaggi, il clima profondamente malato e tossico di Allemonde in qualche modo escono fuori, a momenti persino con una forza sorprendente. Questi personaggi sbozzati sommariamente riescono a instaurare una connessione con il pubblico, magari non stimolandone l’empatia ma il suo esatto contrario, talvolta il riso involontario, insomma una reazione autentica che diviene palpabile nel lungo silenzio che segue l'ultimo accordo dell'opera.

  È affascinante sotto questo punto di vista la resa di Patricia Petibon, una Mélisande ben cantata ancorché leziosa all’inverosimile, ma epidermicamente odiosa nella sua violenza passivo-aggressiva. Bernhard Richter è un Pelléas un po’ bamboccione e dunque non particolarmente interessante, con i pregi e i difetti dei tenori (nel caso specifico un buon tenore, non un fenomeno) che affrontano la parte: facilità in alto e qualche patimento nell’ottava grave. È invece colossale il Golaud di Tassis Christoyannis, che canta da dio e soprattutto racconta un personaggio che muta continuamente, attraversato e perturbato da qualsiasi emozione dello spettro umano. Franz-Josef Selig è un Arkël dallo strumento maestoso e ben sbalzato tra tenerezza, paternalismo e spregevoli istinti da vecchio bavoso. Prezioso il cameo di Yvonne Naef come Geneviève. Yniold è il dodicenne Oliver Michaele, molto bravo, mentre Peter Harvey si disimpegna negli interventi del medico.

Resta da dire della Budapest Festival Orchestra che è al solito prodigiosa per esattezza esecutiva, pulizia, equilibri interni, “sincronismo”, morbidezza e colore sia d’insieme sia negli interventi dei soli, anche nella curiosa disposizione imposta dalle contingenze, con ottoni e percussioni nascosti in fondo alla scena dietro a una fitta boscaglia.

  Successo molto convinto ma frettoloso a fine recita.

La Bohème al Teatro Del Monaco di Treviso

  A fine recita si ha la sensazione che La Bohème coprodotta tra Stabile del Veneto e Sociale di Rovigo, che dopo aver debuttato a Padova è arrivata al Teatro Mario Del Monaco di Treviso per l'inaugurazione della stagione operistica, avrebbe potuto regalare soddisfazioni ben maggiori. Non che si parli di uno spettacolo spiacevole, ma diseguale e azzoppato da un problema capitale alla radice: la mancanza diffusa di pragmatismo. Il che sorprende quando riguarda un uomo di teatro esperto come Bepi Morassi, che pure monta uno spettacolo dalla regia tradizionalmente solida, molto “sua” anche nelle trovate, talvolta simpatiche, talvolta non freschissime, e nell’uso della platea per allargare il campo di gioco. Però è uno spettacolo vincolato a un impianto scenico che fa di tutto per complicare la vita ai cantanti, poiché si svolge quasi interamente su uno scheletro metallico (disegnato da Fabio Carpene e ben illuminato dalla giovane Jenny Cappelloni, al suo debutto).

La Bohème al Teatro Del Monaco di Treviso
foto Marino Bilato

  L'impalcatura rimanda a una sorta di polifunzionale metropolitano dove alloggi di fortuna si mescolano con attività varie e in cui ci si arrabatta alla meglio. In un contesto più omogeneo, e magari completamente “moderno”, l'ambientazione potrebbe anche avere una sua pregnanza e rendere quel senso di precarietà e di vita alla giornata dei bohémien, ci sono però due problemi. Il primo è che il ponteggio tiene i cantanti lontani dal boccascena e dalla buca stessa, che infatti spesso parte per la tangente, e che complica sia i movimenti dei solisti sia l’espansione delle voci in sala. C’è poi uno strano strabismo estetico-temporale per cui costumi e scene danno l’impressione di essere accostati senza una gran coerenza, con i primi che rimandano al passato più o meno remoto e lo sfondo da ambiente urbano contemporaneo, con qualche spruzzata retrò soprattutto nel quadro di Momus. Al netto degli impacci, Morassi fa la sua Bohème che è sì d’impronta tradizionale ma non statica, con dovizia di controscene a riempire i vuoti e non senza dettagli, aiutato da un cast ideale, se non altro per questioni anagrafiche, per la sospensione dell’incredulità.

  Nell'occasione un po' di sana praticaccia del mestiere sembra mancare anche a Alvise Casellati, che non fa molto per aiutare il palco, né adeguando il fraseggio strumentale al respiro melodico, né dimensionando i volumi in modo che l'orchestra non soverchi le voci, cosa che succede grossomodo per tre quarti del tempo. Peccato perché l’Orchestra di Padova e del Veneto è in buona serata ed esprime una compattezza e una omogeneità che avrebbero potuto essere più variamente modellate.

  L’indolenza della direzione ovviamente si ripercuote sui solisti, che vivono sulle spine, senza sapere mai con certezza quando attaccare o se il fiato sarà accomodato, sostenuto o spezzato a metà. La situazione è abbastanza problematica nel primo quadro, con voci e buca che marciano su rette parallele, ma va migliorando in corso d'opera. Quanto ai protagonisti, Claudia Pavone ha il timbro, la sicurezza tecnica e la dolcezza necessari per tratteggiare una Mimì che ha nella spontaneità il suo punto forte, oltre a uno strumento ormai abbastanza maturo per reggere la scrittura a ogni altezza e affrontare i marosi orchestrali. Subentrato al previsto Stephen Costello, che ha dovuto abbandonare la produzione prima del debutto, firma una buona prova Davide Tuscano, giovane tenore che può vantare un bel colore solare e volume notevole, cui resta ancora da limare qualche dettaglio nel passaggio e negli acuti per compiere il definitivo salto di qualità.

  È una bellissima sorpresa la Musetta di Giulia Mazzola, che ha verve, tecnica, temperamento e squillo in tutta l'estensione. Il Marcello di Jorge Nelson Martínez si segnala soprattutto per la baldanza del materiale vocale mentre Alejandro López, Colline, dà l'impressione di cantare ancora troppo di natura - una natura generosa, va detto - anziché di tecnica e arriva stanco alla Zimarra. Eccellente sia sul piano scenico che vocale lo Schaunard di William Hernandez, che sarebbe interessante riascoltare in una parte più impegnativa. Positivo il contributo delle tante parti di fianco, a partire da Enrico Di Geronimo che ben si sforza di non calcare la mano sul lato più macchiettistico di Benoît e Alcindoro. È al pari convincente la prova del Coro di Voci Bianche A.LI.VE. preparato da Paolo Facincani e del Coro Lirico Veneto guidato da Giuliano Fracasso, che per altro cantano buona parte dei rispettivi interventi dalla platea, dimostrando totale affidabilità.


   A fine recita successo caloroso e prolungato per tutta la compagnia.

2 novembre 2023

Alla Fenice tornano i due Foscari

  La più veneziana delle opere di Verdi non entrava nel cartellone del Teatro La Fenice dal 1977. È dunque un peccato che un lavoro geniale ma ancora un po’ acerbo come I due Foscari, in cui, al netto di una costruzione drammaturgica disorganica, basterebbe sforzarsi di scavare un po’ per trovare risvolti intriganti, vada in scena senza una regia vera e propria. Sì perché quel che Grischa Asagaroff realizza concretamente è poco più di una distribuzione scolastica del traffico di palcoscenico. Le arie, che sono tante e distribuite in modo tale da rendere la vita assai complicata anche a un regista ben più motivato, danno la sensazione del classico concerto in costume e anche le scene corali si risolvono nell’occupazione immobile degli spazi vuoti di coro e solisti, al cui buon cuore è demandato quel poco di autentica recitazione che si può apprezzare in mezzo al solito gesticolare più o meno stereotipato.

i due Foscari al Teatro La Fenice

  Inutile dire che il dramma pubblico e umano dei Foscari esca anestetizzato da tanta inedia e che ne patisca Verdi stesso, che in quest'opera per molti versi sperimentale introduce quel motivo che diventerà ricorrente (Aida, Don Carlos) di un potere superiore che sovrasta e domina il Re, la cui intangibilità dovrebbe incutere terrore e invece scivola via come fosse un giochetto da House of Cards.

  Non riscattano la pochezza di idee né i costumi d'epoca di Luigi Perego (in alcuni numeri molto belli, in altri no), che assolvono alla funzione di identificare i caratteri, né una scenografia non all'altezza per modestia realizzativa e farraginosità. La “ricostruzione” della Venezia storica si riduce a un parallelepipedo centrale dalle facce laterali diversamente decorate che ruotando (a fatica) cambia di volta in volta lo sfondo, talora con il contributo di proiezioni di rara bruttezza del Leone di San Marco. Poco, pochissimo anche per uno spettacolo incardinato nella tradizione più sonnacchiosa.

  Chi invece conosce e capisce a fondo Verdi è Sebastiano Rolli, il quale accompagna e concerta con sapienza, cosa che in questo repertorio specifico ancor più che altrove significa valorizzare le soluzioni espressive e timbriche in modo che la musica guidi la narrazione e ne magnifichi gli sviluppi drammatici (e che ci riesca appare evidente già dal bilanciamento così centrato del dialogo tra clarinetto e archi e nell’introduzione alla prima aria del tenore), perfettamente assecondato dall’orchestra di casa, che è in ottima serata sotto ogni punto di vista. 

  Quanto ai cantanti, il trionfatore della serata è Luca Salsi, che ormai domina ogni sillaba della parte di Francesco Foscari e la rifinisce con il colore e l'accento dosati al punto giusto per esaltarne la pregnanza teatrale, in un canto che è sempre (o quasi) morbido e timbrato ma soprattutto incisivo, dalla sortita a un terzo atto maiuscolo.

  Anastasia Bartoli trova in Lucrezia Contarini una parte che, battendo principalmente sull'ottava acuta, si sposa bene con le sue qualità. Ne regge la scrittura massacrante sia dal punto di vista muscolare che musicale, che è già dir molto, al netto di qualche forzatura incidentale negli estremi acuti; quel che ancora manca è uno scavo più approfondito della parola e una maggior varietà di dinamica, che tende quasi sempre a scivolare verso diverse declinazioni di forte.

  Francesco Meli non è invece nella migliore delle sue serate. Dopo un primo atto faticoso, in cui la voce dà l'impressione di non essere ancora a temperatura, va migliorando, ma incespica in qualche incidente di percorso che riesce a dribblare dando fondo ai trucchi di un mestiere consumato, ma senza mai dare la sensazione di essere in pieno controllo. Ottimo l'apporto delle parti di contorno, dal bieco Loredano di Riccardo Fassi, che si conferma tra i bassi più dotati della nuova generazione, al Barbarigo di Marcello Nardis, l’unico del Consiglio - un formicaio di togati disumanizzati - che sembra porsi scrupoli morali. Completano il cast Carlotta Vichi (Pisana), Alessandro Vannucci (un fante del Consiglio dei Dieci) e Antonio Casagrande (un servo del doge). In buona serata anche il coro preparato da Alfonso Caiani.

  A fine recita successo calorosissimo per tutta la compagnia con punte di entusiasmo per  Anastasia Bartoli e Luca Salsi.


1 novembre 2023

Musica degenerata a Pordenone

  Nel guestbook del Teatro Verdi di Pordenone, che nel corso delle ultime stagioni si è fatto sempre più polposo, mancava ancora il nome di Iván Fischer. Quale migliore occasione del soggiorno prolungato in Italia del direttore, che dopo una manciata di concerti romani da giovedì sarà impegnato nel Vicenza Opera Festival, per proporre uno dei musicisti più apprezzati e influenti della scena a un pubblico che ormai ha affinato il palato, tanto più per un’occasione speciale come l’inaugurazione della stagione musicale, la prima firmata dal nuovo “consulente artistico” Roberto Prosseda, che ha da poco raccolto la pesante eredità di Maurizio Baglini.

  Difficile immaginare un musicista eclettico e onnivoro come Iván Fischer, capace di passare, magari non sempre mantenendo non lo stesso livello di pregnanza ma uguale magistero, da Monteverdi alla musica contemporanea con tutto quello che c’è nel mezzo. È altresì frequente che Fischer spesso proponga, accanto ai classici canonizzati del repertorio, programmi antologici che scardinano la comune accezione del concerto, non di rado infondendovi un personalissimo tocco di ironia.

  Se non è un programma scanzonato - e non lo è - sicuramente il viaggio nella musica proibita del Terzo Reich sfugge agli schemi del cartellone togato, allargando lo sguardo anche verso una produzione dai tratti forse più disimpegnati e leggeri, sicuramente sperimentali. Certo non è una frivolezza inconsapevole né ingenua, ma sapientemente orchestrata e per molti versi talmente innovativa e tellurica, se rapportata all’epoca di composizione, da far tremare i custodi della heil’ge deutsche Kunst che su quel modello speravano di impostare e propagandare l’identità di un popolo intero.

  La lente di Fischer si è soffermata su quattro dei tanti nomi banditi con l’accusa di creare Entartete Musik, definizione cappelllo sotto cui si raccoglie la produzione di autori invisi al regime nazista per una serie di motivi che vanno da una presunta dissolutezza estetico-formale, etichetta buona per bollare tutto ciò che era ritenuto non conforme alla tradizione postromantica germanica, fino a squallide questioni politico-razziali. Il programma dà giustamente spazio a diverse declinazioni di “degenerazione”, dalla Suite Nr. 2 op. 24 di Hanns Eisler (dalla colonna sonora del film Niemandsland del 1931), con il suo carattere leggero e cabarettistico, al più serioso Der Schwanendreher, concerto per viola e orchestra che probabilmente non è il lavoro più ispirato di Paul Hindemith e pecca di disomogeneità, ma trova in Maxim Rysanov un interprete capace di esaltarne i momenti più intimi e distesi, producendosi in sonorità dalla morbidezza prodigiosa, quanto i passaggi più tesi e scorbutici.

  Ci sono profumi jazzistici e di ragtime anche nella Suite per orchestra da camera op. 37 di Erwin Schulhoff quanto nella selezione di brani di Kurt Weill che hanno chiuso la serata, alcuni dei quali affidati alla cantante Nora Fischer, figlia d’arte, la quale non ha qualità vocali da strapparsi i capelli ma si destreggia in una scrittura che mescola canto, recitazione e sbalzi d’estensione scomodissimi con un notevole impegno espressivo e buon carisma scenico.

  Sul palco, accanto al direttore, c’è la solita Budapest Festival Orchestra, che in organico ridotto non perde di “peso” né consistenza ma guadagna ulteriormente di virtuosismo e, forse sorprendentemente, dimostra un’idiomaticità insospettabile per il repertorio specifico. Lo swing, il senso ballante del ritmo, i colori ora graffianti ora notturni sono sempre quelli giusti, con un comparto di fiati sensazionale.

  Successo caloroso per tutti a fine serata. Il concerto sarà replicato sabato 28 al Teatro Olimpico di Vicenza nell’ambito del Vicenza Opera Festival.