22 dicembre 2014

Das Liebesverbot al Verdi di Trieste

Dalla seconda topica Freudiana sappiamo che l’Io, l’identità psichica di un essere umano, nasce dal conflitto continuo tra due istanze antitetiche: l’Es, ovvero l’istinto, la voce della natura, e il Super-io con le regole codificate comportamentali e morali. Il regista Aron Stiehl nell’affrontare Das Liebesverbot, opera prima di Richard Wagner scelta per inaugurare la stagione 2015 del Teatro Verdi di Trieste, parte da qui. Le istanze della mente divengono fazioni sociali in conflitto: da un lato c’è il popolo con il suo bisogno di amare e godere – e il richiamo all’inconscio animalesco è evidente sia nelle scenografie naturalistiche che ne accompagnano l’azione, sia negli abiti barbari – dall’altro c’è la legge opprimente che esige ordine e geometria. Chiaramente il rigore formale di Friedrich, il Vicario che vorrebbe sopprimere ogni licenziosità e diletto nel popolo, cozza con la totale sregolatezza di quest’ultimo, anche sotto il profilo estetico. In fondo la bellezza, con i suoi canoni e le sue regole, è una convenzione sociale: questo popolo selvaggio invece è volutamente sgradevole, brutto, ambiguo, qualcosa a metà strada tra gli hippy e i Neanderthal, senza vincoli estetici, morali o comportamentali. La legge viceversa, quindi Friedrich, è formalmente inappuntabile, elegante, e contrappone al caotico carnevale popolano un’asciuttezza quasi rassicurante. Il fulcro dell’esistenza sta nella mediazione tra l’ordine e il caos, quella che spetta all’Io come alle istituzioni umane, la ricerca del giusto compromesso che soddisfi entrambe le pulsioni divergenti.



Il concetto registico non è dei più originali ma funziona perché realizzato con coerenza e cognizione tecnica: il coordinamento dei protagonisti in scena è attento ed intelligente, sia nei solisti sia nel coro (ottimo sotto ogni profilo, sia musicale che attoriale), scene e costumi sono funzionali al disegno. Qualche forzatura sul versante comico non inficia il risultato finale.

Ottima la prova dall’orchestra, in grandissimo spolvero, guidata da Oliver von Dohnányi. Il direttore sapeva infondere buon ritmo alla narrazione prestando attenzione al palcoscenico, senza sacrificare la cura del suono orchestrale, sempre compatto e levigato, vario nelle dinamiche e nei colori. 

Eccellente la prova di Lydia Easley, soprano dalla voce importante e dalla tecnica agguerrita, perfettamente a proprio agio nella scrittura della parte di Isabella in cui il declamato wagneriano che verrà è più che presagito. Altrettanto convincente Tuomas Pursio, Friedrich di grande presenza e dalla vocalità sana. Corretto e squillante Kurt Adler, Luzio; piacevole l’istrionico Brighella di Reinhard Dorn. Francesca Micarelli si disimpegnava con impagabile freschezza nei panni di Dorella mentre Mikheil Sheshaberidze, Claudio, risolveva la parte con parecchie difficoltà. Positiva la prova di Anna Shoeck, Mariana educata e musicale. Tutte all’altezza della situazione le moltissime parti minori, con una menzione speciale per l’ottimo Ponzio Pilato di Federico Lepre.

Pubblico scarso ma soddisfatto.

Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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19 dicembre 2014

La principessa della Czarda

Nel teatro capita sovente che il risultato complessivo di uno spettacolo non coincida con la somma algebrica delle componenti impegnate o che determinate premesse, poco incoraggianti, vengano smentite o ridimensionate in corso d'opera. L'allestimento de La principessa della Czarda, operetta di Emmerich Kàlmàn, in scena al Teatro Nuovo Giovanni da Udine ne è stato un esempio lampante. Ad una prima occhiata, nemmeno troppo attenta, la produzione della Compagnia Teatro Musica Novecento suscitava non poche perplessità, soprattutto per un pubblico abituato ad una tradizione operettistica - il riferimento alla vicina Trieste è d'obbligo - di prim'ordine: l'amplificazione delle voci, certe magagne dell'orchestra, le scelte editoriali (con manipolazioni delle parti recitate tipiche del teatro di prosa piuttosto che di quello musicale) lasciavano presagire esiti tutt'altro che felici. Tuttavia, superata la diffidenza iniziale ed accettati i presupposti di partenza, lo spettacolo funzionava. Merito senz'altro di una compagnia affiatata e rodata, della regia di Alessandro Brachetti (ottimo nei panni del Conte Boni) capace di muovere con vivacità ed attenzione gli interpreti sul palcoscenico senza trascurare controscene e dettagli, dei balletti coreografati da Salvatore Loritto.

La scene smaccatamente liberty di Artemio Cabassi erano la cornice ideale per un allestimento inserito nella tradizione, sia nell'ambientazione, sia nei cliché più frequentati dell'operetta. La risoluzione di siparietti e numeri musicali non proponeva nulla di nuovo ma restava nei limiti del buongusto mentre alcune trovate garantivano freschezza e simpatia alla narrazione.

Tra gli interpreti Susie Georgiadis garantiva alla protagonista Sylvia Varescu personalità e bella presenza. Il tenore Antonio Colamorea era un Principe Edvino vocalmente sicuro ma rigido nella recitazione. Eccellenti per verve e simpatia il Conte Boni di Alessandro Brachetti e la Contessina Stasi di Silvia Felisetti, convincenti Fulvio Massa (Feri), Marco Falsetti (Principe Leopoldo Maria) e Francesco Mei, Generale Rushdorf non esente da eccessi in senso caricaturale.

L'Orchestra Cantieri d'Arte, diretta da Stefano Giaroli, accompagnava il palco non senza imprecisioni mentre il Coro dell'Opera di Parma si disimpegnava correttamente.

Ottima l'accoglienza del pubblico udinese, in larga parte entusiasta per l'esito dello spettacolo.

4 dicembre 2014

Simon Boccanegra di Verdi al Teatro La Fenice

Secondo un vecchio adagio “per fare Verdi servono le grandi voci”, luogo comune non privo di ragioni, tuttavia si tende spesso a dimenticare quanto Verdi esiga innanzitutto un grande direttore d’orchestra, in particolar modo nelle opere della maturità. Non per insormontabili difficoltà tecniche ma per valorizzare i piani narrativi, mettendo in luce la complessità di implicazioni psicologiche, politiche e sociologiche nascoste tra le pagine della partitura.



Che Myung-Whun Chung sia un direttore di altissimo profilo è fuori di dubbio ma quello che riesce a cavare dal testo del Simon Boccanegra, opera inaugurale della stagione 2014-15 del Teatro La Fenice di Venezia, ha del miracoloso. Al di là dell’assoluta perfezione tecnica (orchestra sugli scudi per duttilità timbrica e ritmica), dell’attenzione al palcoscenico che non resta indietro di una semicroma per tutta la durata dello spettacolo, ciò che cattura, nell’esegesi del maestro coreano, è la profondità dell’interpretazione. Sin dal Prologo, tetro ma mobilissimo, squarciato da bagliori di furia e pennellate di sofferenza, si percepisce lo spessore dell’analisi di Chung. Il duetto Amelia-Simone del primo atto accumula un’intensità commovente che esplode nell’agnizione, la scena del gran consiglio è pervasa da una luce sinistra, il finale coglie alla perfezione quell’indefinita atmosfera sospesa tra la serenità dell’addio e la dolente malinconia di una vittoria monca, sia per Simone che per Fiesco. Una lettura assolutamente memorabile quella di Myung-Whun Chung, aiutato dagli eccellenti professori d’orchestra, che gli è valsa un trionfo personale a fine recita.

All’altezza del podio la prova del cast, dominato da un Simone Piazzola in stato di grazia sia per tenuta vocale, sia per spessore interpretativo. Il giovane baritono ha personalità, ha timbro pregevole e sa rifinire il canto misurando e differenziando ogni frase nei colori e nelle dinamiche.

Maria Agresta ha voce di bellissimo timbro e una spiccata sensibilità nel porgere, l’emissione è fresca e il fraseggio spontaneo; solamente il registro acuto mostra qualche segno di fatica, sicuramente dovuto all’altissima densità di recite cui la cantante è sottoposta.

Ottima la prova di Francesco Meli, Gabriele Adorno dalla vocalità splendente e dal fraseggio appassionato. Intenso e commovente Giacomo Prestia nei panni di Jacopo Fiesco, basso dalla voce ampia e, benché non più freschissima, morbida e sana nell’emissione.

Sorprendente il Paolo Albiani di Julian Kim per smalto e pienezza dello strumento ma anche per autorevolezza scenica. Luca Dall’Amico era un Pietro di lusso. 

Eccellente la prova del Coro della Fenice, preparato da Claudio Marino Moretti.

Rimane l’allestimento, firmato per scene e regia da Andrea De Rosa, che ha il merito, non certo esaltante, di non compromettere la riuscita complessiva dello spettacolo, allineandosi alla tradizione più innocua. La vicenda è srotolata con linearità fin troppo elementare, la recitazione ordinaria.

Paolo Locatelli
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19 novembre 2014

Purpur meets clarinotts

Se c'è un merito che va riconosciuto alla direzione artistica del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, questo è senz'altro l'originalità della programmazione. Certo la singolarità delle scelte rischia spesso, se non di contrastare con le aspettative del grande pubblico, di non invogliare i meno curiosi a spingersi a teatro per scoprire repertori poco frequentati, sia che si tratti di opere di estrazione barocca o di musica cameristica del Novecento.

La serata Purpur meets clarinotts ne è un esempio: un terzetto di clarinetti (purtroppo ridotto dalla contingenza a duetto) con un programma specifico incentrato sullo strumento. Protagonisti gli Ottensamer, The Clarinotts appunto, famiglia di clarinettisti che affiancano l'attività solistica a quella di parti prime nelle filarmoniche berlinese e viennese. A far loro da degna spalla l'Orchestra Purpur, affidabile compagine giovanile composta da musicisti provenienti da tutta Europa.

Come accennato, il previsto terzetto di clarinettisti, causa indisposizione del giovane Andreas (stella della scuderia Deutsche Grammophon) è divenuto un duo, con Ernst e Daniel Ottensamer, rispettivamente padre e figlio, a dividersi la scena. Al di là di qualche modifica alla scaletta, con il Concerto per clarinetto e corno di bassetto in Fa minore di Felix Mendelssohn Bartholdy inserito in sostituzione della prevista parafrasi dal Rigoletto di Verdi, la defezione non ha compromesso la riuscita del concerto.

Apriva la serata la Sinfonia n. 1 in re maggiore, Hob:I:1 di Franz Joseph Haydn. L'orchestra, diretta con gusto e brillantezza da Rudolf Piehlmayer, si disimpegnava senza difficoltà, con precisione e leggerezza. Le minime pecche sono quelle tipiche delle orchestre giovanili: qualche ruvidità nei timbri e talune imprecisioni nei singoli, niente che inficiasse la riuscita complessiva.

Con il celebre Concerto per clarinetto in la maggiore, K 622 di Wolfgang Amadeus Mozart saliva sul palco Daniel Ottensamer, giovane prima parte dei Wiener Philharmoniker, protagonista e trionfatore della serata. Al di là della perfezione tecnica il clarinettista esibiva un suono di stupefacente morbidezza e bellezza ed una sensibilità musicale altrettanto raffinata; la ricchezza di colori e la ricercatezza del fraseggio restituivano la partitura in tutto il suo fascino.

Per la seconda frazione di concerto, Ernst Ottensamer, anch'egli solista dei filarmonici viennesi, affiancava il figlio nel Concerto per due clarinetti e orchestra, op. 35 di František Krommer. Se Daniel confermava l'ottima impressione offerta in Mozart, Ernst si collocava un passo indietro a causa di un suono meno ammaliante, eccessivamente chiaro e secco, ed una musicalità più rigida. Discorso non dissimile per il brano in chiusura, il Concerto in fa minore per clarinetto e corno di bassetto, op.113 di Felix Mendelssohn Bartholdy che, opportunamente adattato per coppia di clarinetti, chiariva ulteriormente le differenze qualitative tra i due solisti.

L'Orchestra Purpur accompagnava con garbo e precisione, grazie alla guida agile e fresca di Piehlmayer, capace di sorvegliare gli equilibri ed infondere tensione e coerenza alle partiture.

A fine concerto buona accoglienza del pubblico in sala con lunghi applausi, massimamente ad indirizzo degli Ottensamer.

27 ottobre 2014

Il Re Pastore di Mozart al Teatro Verdi di Trieste

C’è un filo sottile che collega Il Re Pastore con La Clemenza di Tito, opere mozartiane distanti nel tempo, meno nello spirito. Che poi, per ispirazione e riuscita complessiva, la seconda surclassi l’acerbo lavoro giovanile, è cosa davanti agli occhi di tutti.

Il teatro Verdi di Trieste, facendo di necessità virtù, propone un allestimento de Il Re Pastore che rispolvera le scene (molto belle) create da Pier Paolo Bisleri proprio per la Clemenza della scorsa stagione. Il risultato non solo convince ma ha appunto il merito di mettere in evidenza i nessi tra i due Mozart di derivazione metastasiana e di conseguenza l’evoluzione del linguaggio musicale e drammaturgico del compositore, delle sue ragioni più profonde, la mutazione del rapporto con una società in cambiamento ed un pensiero illuministico che entra in crisi. Il ritratto dell’età dei numi che esce dal Re Pastore, massimamente nelle figure di Alessandro ed Aminta, è caratterizzato da un’ingenuità quasi commovente ed un ottimismo che Mozart metterà progressivamente in discussione.



Elisabetta Brusa, regista dello spettacolo, congela l’azione in un teatro stilizzato ed olimpico; la scelta è quella di definire i personaggi quasi fossero archetipi, maschere di un gioco delle parti. La spontaneità della vita bucolica, cui Aminta si vede costretto a rinunciare, lascia il posto ad una recita sociale: l’uomo al di fuori del proprio ambiente, lontano dagli affetti, diviene un burattino senz’anima. L’impianto tuttavia, al di là dell’eleganza formale, mostra la corda nella rigidità dello scorrimento e nella staticità della narrazione.

Complessivamente positiva l’esecuzione musicale. Felix Krieger guida un’orchestra in gran forma con gusto e carattere, evitando sbavature o scollamenti ma senza perdere di vista la narrazione: i tempi sono rapidi senza essere frenetici, il suono terso, il palco è assecondato con attenzione vigile ma non servile.

Alida Berti, Aminta, ha voce di bel colore, solida tecnica e sa tenere il palco con personalità. L’aria l’amerò, sarò costante, oltre ad essere uno dei vertici musicali dell’opera, è risolta dall’artista – di concerto con la regia – con grande intensità. Piace senza riserve Eva Mei, esperta mozartiana, cantante dalla vocalità levigata e tecnicamente rifinita, morbida nell’emissione e dall’intonazione impeccabile.

Convince Tony Bardon, Alessandro impacciato sulla scena ma vocalmente e musicalmente autorevole. Paola Antonucci al di là di qualche forzatura negli acuti, viene a capo con sicurezza della parte di Tamiri. Alessandro Codeluppi, Agenore, deve ancora rifinire l’emissione ma evidenzia buon gusto e stile appropriato, soprattutto nei recitativi.

A fine recita ottima accoglienza per tutta la compagnia da parte dello scarso pubblico in sala.

Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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20 ottobre 2014

Arabella Steinbacher e Kevin John Edusei

Kevin John Edusei è un direttore tedesco poco noto nel nostro paese, essendo cresciuto, dopo la vittoria del primo premio al concorso Mitropoulos nel 2008, ai margini dei giri più prestigiosi. Da poco nominato direttore principale dei Münchner Symphoniker, compagine non di primissimo livello ma solida ed affidabile, Edusei giungeva al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, accanto alla violinista Arabella Steinbacher, per il terzo appuntamento della stagione di musica e balletto. Ciò che davvero colpisce di Edusei è l'eleganza del gesto, ampio e leggero, che traduce in suono una spiccata sensibilità musicale; ci piacerebbe avere occasione di ascoltarlo presto alla guida di un'orchestra dai mezzi più raffinati.

Apriva il concerto l'Ouverture Das Märchen von der schönen Melusine, lavoro tra i più celebri ed influenti di Felix Mendelssohn. Kevin John Edusei conduceva i Münchner Symphoniker con nerbo e buon passo, prestando attenzione agli equilibri ed alla morbidezza del suono. L'orchestra rispondeva con compattezza, benché non immune da imprecisioni, soprattutto tra gli ottoni.

Nella Sinfonia n. 2 in do maggiore op. 61 di Robert Schumann, pregi e difetti dell'orchestra risultavano ancora più evidenti: accanto all'affiatamento ed alla piacevolezza dell'amalgama, merito soprattutto di archi complessivamente convincenti, emergeva la timidezza di legni ed ottoni, spesso imprecisi o poco incisivi. I limiti dell'orchestra erano tuttavia arginati dalla concertazione pulita e tesa di Edusei, capace di valorizzare la scrittura contrappuntistica della sinfonia attraverso l'esaltazione del dialogo tra le sezioni strumentali. Pur nella limitatezza della tavolozza timbrica, il direttore lavorava accuratamente sulle sfumature dinamiche e sul bilanciamento delle voci orchestrali. Nella perfettibilità del quadro generale,in particolare degli interventi solistici, Edusei sapeva ricavare fraseggi interessanti e pregevoli soluzioni interpretative ma soprattutto risolvere la sinfonia con un buon ritmo, riducendo i cali di tensione a pochi momenti, per lo più nell'adagio espressivo.

Protagonista e trionfatrice del concerto è stata tuttavia la violinista Arabella Steinbacher, giovane musicista bavarese già nota sulla scena internazionale, chiamata ad affrontare il famosissimo Concerto per violino e orchestra in mi minore op. 64 di Felix Mendelssohn. Al di là del virtuosismo e dell'inappuntabile bagaglio tecnico della musicista, caratteristiche ormai imprescindibili per affrontare la carriera da solista, Arabella Steinbacher colpiva soprattutto per il calore e la rotondità del suono. La violinista sapeva reggere con medesima morbidezza e pulizia le frasi legate ed elegiache dell'andante come i passaggi vorticosi della cadenza finale, il tutto senza scadere in ammiccamenti o calligrafismi ma nemmeno in un arido esercizio di perfezione tecnica. Edusei la sosteneva con gusto, assecondando scelte agogiche e dinamiche della solista e rispettandone la centralità.

Accoglienza entusiastica del pubblico in sala per direttore e per la violinista Arabella Steinbacher, salutata da lunghe ovazioni al termine della propria esibizione.

17 ottobre 2014

A Udine arrivano Daniele Gatti e l'Orchestre National De France

Secondo appuntamento della stagione musicale, al Teatro Nuovo Giovanni da Udine giungeva attesissimo il maestro Daniele Gatti, direttore italiano tra i più celebri ed apprezzati a livello internazionale, per un concerto che lo vedeva protagonista alla guida della “sua” Orchestre National De France.
Gatti è senza dubbio un musicista di prim'ordine - lo testimonia la carriera che sta facendo - capace di scelte discutibili od esaltanti ma raramente banali; al di là delle preferenze personali, che possono far storcere il naso dinnanzi ad interpretazioni tanto eccentriche, in cui la ricerca del dettaglio può talvolta scadere nel calligrafismo o nell'annacquamento della narrazione musicale, è innegabile che Gatti sia in possesso di una preparazione tecnica eccellente e di una personalità non comune. L'Orchestre National De France, di cui il maestro milanese è direttore principale, è una compagine di ottimo livello, molto affiatata e, aspetto fondamentale, disposta ad assecondare il podio con fiducia cieca, in ogni suggestione agogica o dinamica – questa è l'impressione che si poteva trarre durante il concerto.

Apriva la serata Petruška, Burlesque in 4 scene di Igor Stravinskij. Daniele Gatti sceglieva un colore chiaro e tagliente, accentuando il lato grottesco della partitura con sonorità sgarbate, quasi jazzistiche, talora calcando la mano sul volume e sulle dissonanze, ma senza mai dare l'impressione di perdere il controllo dell'orchestra. Bandita ogni traccia di edonismo timbrico, il maestro puntava su una drammaticità cruda, esasperando i contrasti e delineando fraseggi brucianti. Le difficoltà della partitura mettevano in luce, accanto alla bravura tecnica di Gatti, capace di guidare l'esecuzione con assoluta concentrazione senza sbavature ritmiche o musicali, i minimi limiti dell'orchestra. Le difficoltà cui si fa riferimento riguardano una certa cautela nell'affrontare i primi quadri del balletto, risolti non senza meccanicità, ed il colore orchestrale talora eccessivamente secco e povero, soprattutto ad inizio concerto. Assolutamente splendido il finale con Gatti capace di affiancare ad accelerazioni incandescenti, ripiegamenti soffusi, impalpabili, seguito senza incertezze dall'orchestra.

Inappuntabile la seconda parte di concerto, dedicata a Richard Strauss, con il poema sinfonico Don Juan e la Suite dal Rosenkavalier. L'orchestra trovava una morbidezza ed una brillantezza di suono che in Stravinskij esano mancati, sia negli interventi solistici sia per quanto riguarda l'amalgama.
Il Don Juan alternava alle esplosioni testosteroniche dei fortissimi, sempre perfettamente a fuoco (con gli ottoni, splendenti, sugli scudi), preziosismi mai forzati o ridondanti, perfettamente inseriti nel disegno generale. Pur mancando nei pianissimi quella leggerezza magica che forse è il traguardo più arduo da raggiungere per un'orchestra, risultava evidente la cura maniacale del podio per le sfumature dinamiche e per il fraseggio, in ogni singola frase o arcata.
La Suite da Der Rosenkavalier ha segnato il vertice esecutivo della serata, sia per la bellezza e per la perfezione della resa orchestrale, sia per la compiutezza interpretativa. Gatti leggeva la composizione non senza avere in mente l'opera da cui la Suite è tratta, esaltandone il carattere malinconico e crepuscolare. Brillava per intensità poetica il motivo della presentazione della rosa, disegnato da un'orchestra delicatissima, mentre il valzer di Ochs (finale secondo nell'opera) veniva staccato con leggera ironia, senza scadere in caricature o sottolineature agogiche esagerate.

A fine concerto accoglienza trionfale del pubblico udinese, salutato con una memorabile esecuzione dell'Intermezzo dalla Manon Lescaut di Puccini.

12 ottobre 2014

Il Don Giovanni di Michieletto torna alla Fenice

In tempi di grande difficoltà per la maggior parte delle fondazioni lirico-sinfoniche italiane, il Teatro la Fenice di Venezia pare un’oasi di pace e serenità. Cinque produzioni in due mesi, qualità sempre soddisfacente e abbondanza di pubblico. Dopo le riprese di Trovatore, Traviata e Inganno Felice è la volta di Don Giovanni, capolavoro mozartiano riletto nell’allestimento capolavoro – si parva licet – di Damiano Michieletto. Piaceva all’esordio, continuava a piacere alle riprese successive ed ancora oggi, giunto alla quarta riproposizione, lo spettacolo dell'(ormai ex) enfant prodige del teatro operistico italiano riscuote un successo indiscusso. Ovviamente le voci critiche non sono mai mancate e continuano a pigolare per ogni libertà registica o presunto tradimento del verbo mozartiano, disconoscendo ogni conquista del teatro operistico contemporaneo o bollandola come perversione del gusto. Lo spettacolo di Michieletto invece funziona, è coerente, agile e intellettualmente brillante. 



Ribadiamo quanto scritto in precedenza:

“Viva la libertà! La libertà morale, intesa come coraggio di svincolarsi dagli obblighi sociali e dalle “imposture della gente plebea”, irrealizzabile chimera di uomini schiavi del sistema ed inevitabilmente attratti da chi riesca a spezzare le proprie catene per inseguirla, a costo della vita. Questo è Don Giovanni secondo Damiano Michieletto, regista cui il Teatro La Fenice di Venezia ha affidato la trilogia dapontiana, inaugurata da questo stesso titolo, ormai diversi anni fa, con un fortunatissimo e pluripremiato allestimento (scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti e luci di Fabio Barettin).
L’impianto scenografico presenta gli interni di un palazzo settecentesco, claustrofobico e vagamente decadente. Un efficace gioco scenico produce un continuo mutamento degli ambienti attraverso la rotazione delle pareti, restituendo l’impressione di un labirinto privo di vie di fuga. Don Giovanni è onnipresente, proiezione dei desideri femminili e delle aspirazioni (o dei complessi di inferiorità) maschili, signore del palazzo e delle vite altrui. La sessualità – in luogo della sensualità – è esasperata, la violenza esplicita ed abusata, massimamente nella figura del protagonista, guardato con orrore e disapprovazione dagli altri personaggi (quasi dei proto-borghesi) eppure continuamente inseguito. Un Don Giovanni rifiutato ma blandito, come fosse per loro, se non personificazione dell’inconscio, il lato oscuro di sé, il desiderio di assecondare i proprio istinti più biechi, animaleschi ed immorali. E tale è l’immedesimazione tra il libertino e i suoi interlocutori che nessuno di loro saprà sopravvivere alla morte del protagonista nel colpo di teatro finale escogitato dal regista.”

Protagonista era Alessio Arduini, cantante dalla voce non onnipotente ma di bel colore, omogenea su tutta le gamma ed adoperata con gusto e cognizione stilistica. Il baritono si rendeva autore di una prova assolutamente convincente per personalità ed aderenza al disegno registico. Al suo fianco il Leporello istrionico e travolgente di Alex Esposito; al di là dell’indiscussa classe vocale, il basso ha un magnetismo che cattura e, pur con qualche eccesso nel finale secondo, sapeva guadagnarsi l’incondizionata simpatia del pubblico.

La Donna Anna di Jessica Pratt convinceva per intonazione e pulizia di emissione mentre Maria Pia Piscitelli veniva a capo della scrittura di Elvira non senza difficoltà nelle agilità e negli acuti.
Eccellente la prova di Juan Francisco Gatell, Don Ottavio dalla linea di canto elegantissima, espressivo nel fraseggio e disinvolto in scena. La commovente aria dalla sua pace, per meriti condivisi con l’accompagnamento di Stefano Montanari, è stata di gran lunga il momento musicalmente più riuscito della serata.
Corretti Caterina di Tonno e William Corrò, Zerlina e Masetto; imponente ma poco rifinito il Commendatore di Attila Jun.

Esaltante la concertazione di Stefano Montanari, maestro di estrazione barocca capace di infondere ritmo e leggerezza alla trama orchestrale. La direzione tesa e travolgente di Montanari non sacrificava alla velocità né la ricchezza di dettagli né i colori, scovando in partitura, in particolar modo nell’accompagnamento alle arie, il giusto approfondimento delle ragioni psicologiche dei personaggi. L’ottima Roberta Ferrari, al cembalo, seguiva con garbo, fantasia ed inappuntabile senso del ritmo.

Paolo Locatelli


Gregory Kunde debutta nel Trovatore alla Fenice di Venezia

Il mondo dell’opera è talmente folle da sconfinare spesso nell’assurdo. Probabilmente non pochi “laici” faticherebbero a comprendere le ragioni che muovono un melomane, magari spingendolo a pellegrinaggi intercontinentali per prendere parte a qualche irrinunciabile evento. Nel caso specifico l’attesa era tutta per il debutto di Gregory Kunde nel Trovatore di Verdi, parte totemica per la vocalità di tenore finalmente affrontata da una delle personalità più peculiari ed affascinanti nel panorama operistico contemporaneo. Fin qui niente di strano, non fosse che il cantante, prossimo ad entrare nella settima decade di vita, si trovava ad impersonare un personaggio poco più che adolescente, vocalmente molto probante (soprattutto se si decide di eseguire la famosa “pira” in tono con tanto di do finale e Kunde – nota per i vociomani più talebani – l’ha fatto) ed esposto agli inevitabili confronti con i grandi e i piccoli del passato.



Alla prova del palco Kunde ha convinto decisamente. Forte di una tecnica prodigiosa, il tenore americano ha risolto la parte con una sicurezza tale da fare invidia a cantanti che all’anagrafe potrebbero essere suoi nipoti. Certo qualcosa mancava, sia in termini di freschezza vocale, sia, com’è ovvio, nella credibilità complessiva della figura, limiti compensati pienamente dalla maturità dell’interprete e dalla solidità del musicista.

Purtroppo tutto il contorno si rivelava al di sotto delle aspettative a cominciare dall’infelice allestimento di Lorenzo Mariani, già passato in Fenice qualche anno fa, per cui valgono le impressioni ricavate allora, se possibile ulteriormente inasprite:

La scenografia, evocativa nelle intenzioni, pacchiana nella sostanza, non solo non riesce a destare nello spettatore una minima parte di quanto si prefiggerebbe di fare ma peggio ha la colpa di essere, laddove non sia velleitaria o confusa, quasi grottesca. Se lo scenario, nella sua grigia neutralità, dominato da una luna tanto grande quanto bruttina, potrebbe ben accomodarsi all’atmosfera notturna del dramma verdiano, davvero non si riesce a comprendere la presenza di generici orpelli che sarebbe inutile elencare. Avrebbe altrimenti giovato una regia che si incaricasse di dirigere solisti e coro con maggiore senso del teatro o perlomeno con un gusto più attuale mentre il regista ripropone l’obsoleto campionario di pose da teatro d’opera d’antan che ormai si vedono solo nelle pellicole in bianco e nero o nelle parodie del teatro d’opera fatte da chi d’opera sa ben poco.

Il resto del cast non lascerà segni indelebili nella memoria dello spettatore minimamente scafato. Buona la prova di Veronica Simeoni per gusto e controllo del canto, pur soffrendo in certi momenti la grandezza della parte. Carmen Giannattasio, dopo una prima prima parte corretta, evidenziava non pochi problemi negli acuti e nell’intonazione nel quarto atto. Artur Ruciński ha una vocalità impressionante per volume, lui lo sa e non fa niente per nasconderlo. Purtroppo è mancato ogni tentativo di modellare il canto in un’espressività che andasse oltre alla concitazione o all’aggressività più truce. Impeccabile la prova del basso Roberto Tagliavini, ottimo Ferrando.

Anche Daniele Rustioni, direttore spesso interessante, non centrava il bersaglio. Il maestro dava dell’opera verdiana una lettura in cui ogni traccia di poesia o di approfondimento circa l’atmosfera, la tinta orchestrale, veniva proditoriamente accantonata in favore di una generica veemenza che, trascorsi i primi minuti, perdeva di mordente e tensione. Ovviamente si tratta di un’impostazione legittima se supportata da un disegno coerente che riesca a mantenere viva la narrazione, nel caso specifico invece la povertà dei colori e la genericità dell’accompagnamento lasciavano la prova in un’indeterminazione che finiva per non convincere.

Eccellente la prova del coro, pur costretto dalla regia a movenze costantemente al limite del caricaturale.

Paese del Sorriso a Trieste

Che ruolo ricopre l’operetta nel teatro contemporaneo? A differenza del teatro lirico che, col passare del tempo, ha trovato un proprio linguaggio per adattarsi al mutare della sensibilità del pubblico, l’operetta rimane ancora saldamente incollata ad un’estetica d’altri tempi di difficile inquadramento al gusto odierno. Quando persino un Michieletto, massimo campione italiano della contemporaneità dell’opera, non centra il bersaglio, sorge spontanea la domanda sul margine di manovra di regista ed interpreti per risolvere questo genere teatrale peculiare e tecnicamente molto insidioso. Sicuramente le generalizzazioni sono sempre rischiose, tuttavia lo stile “misto”, la voluta frivolezza, la comicità abbondantemente superata, mettono l’interprete in serie difficoltà: il rischio, come avviene per l’opera buffa, di scadere nella comicità d’avanspettacolo (che pure a qualcuno piace) o viceversa di perdere la dimensione leggera, cercando di caricare di eccessivi significati lavori relativamente poco pretenziosi sotto il profilo intellettuale, è tutt’altro che uno spettro remoto.

Il paese del sorriso, lavoro di Franz Lehar tra i più noti ed amati, tornava al Teatro Verdi di Trieste per rinsaldare quel rapporto privilegiato che la città ha sempre avuto con l’operetta, ripristinando, benché con un solo titolo in programma, lo storico festival ormai sospeso da diverse stagioni.



L’allestimento è quello di Damiano Michieletto già transitato sul palcoscenico del Verdi nel 2008. Si tratta di uno spettacolo complessivamente gradevole, soprattutto per merito delle scene di Paolo Fantin (fenomenale collaboratore del più noto regista): un’installazione emisferica domina la metà destra dello spazio scenico, assumendo via via diverse sembianze e fungendo da unico ornamento di una scenografia altrimenti spoglia. In questo ambiente statico prendeva corpo una regia relativamente ispirata: non si può certo dire che mancassero la cura o l’attenzione per il dettaglio (tutt’altro, anche le controscene erano curatissime, ogni gesto calibrato con attenzione), ciò che invece lasciava diverse riserve era il gusto della stessa e la sua ispirazione a cliché appartenenti ad un modo di fare teatro che mostra ormai più di qualche ruga. Il problema non sta solamente nella risoluzione del lato comico dell’opera ma anche nella sua coniugazione con quei risvolti più profondi e dolenti, qui talvolta negletti ed altre volte eccessivamente sottolinati; lo scoglio principale dell’operetta è questo: la risoluzione organica di stili e registri comunicativi differenti e distanti con coerenza e compattezza, sia nello spirito (comico e malinconico), sia tecnicamente (l’unione di prosa e canto) ed in questo falliva lo spettacolo triestino. 

Come accennato la fusione tra parti recitate e cantate appariva, anche per limiti degli interpreti, particolarmente difficoltosa: Ekaterina Bakanova ad esempio, che è un’ottima cantante ed attrice, non trovava certo valorizzazione in una parte che la costringe a cimentarsi in una recitazione prosaica dalla dizione impacciata, così come il tenore Alessandro Scotto di Luzio, poco incisivo e convincente nel parlato. Le parti cantate erano risolte viceversa molto bene, soprattutto per quanto riguarda il soprano, ma nel complesso la prova non convinceva completamente.
Al loro fianco Ilaria Zanetti (Mi), Andrea Binetti (Gustav) e l’eunuco di Simone Faucci, pur con abilità canore meno rifinite, si dimostravano in possesso di una padronanza tecnica idiomatica ben più convincente che li rendeva capaci di affrontare il palco con maggiore cognizione stilistica.
Sul podio dell’orchestra del Verdi Antonino Fogliani guidava con sostanziale correttezza, qualche eccesso di volume e buona cura per il suono.
A fine spettacolo buona accoglienza del non foltissimo pubblico presente in sala.

29 settembre 2014

Lo Stabat Mater di Dvořàk apre la stagione del Verdi di Pordenone

Cercando di rincorrere i tempi e le tendenze, la direzione del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone ha scelto di marchiare la stagione 2014-15 con l'hashtag #unabellastagione. Al di là delle manovre propagandistiche, questa strategia sottintende un manifesto di intenti, la proposta di un cartellone raffinato e ricercato, se non altro nei propositi, che tuttavia temiamo possa rivelarsi in fin dei conti elitario. La decisione di puntare molto sulla musica da camera, sul barocco e, proseguendo la linea intrapresa nella scorsa stagione, sulla musica sacra è senza dubbio rischiosa in termini di consenso ed attrattiva e presuppone una predisposizione del pubblico alla curiosità che sarebbe incauto dare per scontata.



L'inaugurazione di stagione infatti, nonostante il fascino e la rarità del titolo in programma, lo Stabat Mater di Antonin Dvořák, non ha trovato quel riscontro – in termini numerici - che era lecito attendersi e molti dei posti disponibili sono rimasti invenduti. Dispiace considerando l'originalità della proposta ma anche la bontà dell'esecuzione.
La prova dell'Orchestra Haydn di Bolzano e Trento, diretta da Hartmut Haenchen, convinceva per precisione e pulizia, pur mancando di quella rotondità d'impasto e di quella sospensione nei pianissimi che avrebbero restituito la partitura in tutto il suo fascino. Haenchen guidava l'orchestra con solida professionalità ma scarso senso della narrazione: al di là della correttezza e dell'abilità nel gestire con equilibrio gli oltre 130 artisti impegnati sul palcoscenico, si è sentita la mancanza di una maggiore caratterizzazione timbrica dell'amalgama e soprattutto di una diversificazione dei vari pezzi del concerto, omogeneizzati da un'irrisolta monocromia. Il direttore sapeva calibrare con mestiere i rapporti interni all'orchestra, dando giusto risalto alle parti solistiche e trovando una buona compattezza d'insieme; si percepiva tuttavia una certa meccanicità in taluni passaggi ed i fraseggi parevano poco caratterizzati.

Convinceva invece senza riserve l'ottimo Coro da Camera Sloveno di Lubiana preparato da Martina Batič, autore di una splendida prova per ricchezza di colori e finiture dinamiche ma soprattutto per l'espressività dell'eloquio.
Tra i solisti piaceva (nonostante la pessima pronuncia latina) Bettina Ranch, mezzosoprano dalla voce rotonda e brunita e dal notevole temperamento. Sabina Von Walther offriva alla parte del soprano una vocalità penetrante ma garbata e ben modulata nella linea. Il tenore Dominik Wortig ha voce piccola e priva di particolari attrattive timbriche ma è musicista preparato e veniva a capo agilmente della scrittura. Il baritono Alejandro Marco-Buhrmester affrontava la parte del basso non senza impacci nel registro grave e con una certa rigidità nel legato ma, con il salire della tessitura, acquistava di brillantezza e raffinatezza del fraseggio.
A fine concerto ottima accoglienza del pubblico in sala con punte di entusiasmo per il coro e il maestro Haenchen.

28 settembre 2014

Valery Gergiev e la London Symphony Orchestra aprono la stagione udinese

Che la London Symphony Orchestra sia una compagine di prima grandezza è cosa nota al pubblico udinese sin dal 2012 quando il teatro salutò con entusiasmo i londinesi, allora diretti da Antonio Pappano, in un memorabile concerto. Chi era presente ricorderà il suono lucente e brillante di quell'orchestra, la freddezza dei colori, e sarà rimasto forse sorpreso nel ritrovare la stessa London Symphony, guidata dal suo Principale Valery Gergiev, quasi irriconoscibile (se non per la preservata perfezione tecnica) nel concerto inaugurale della stagione 2014-15 del Teatro Nuovo Giovanni da Udine.



La mano di Gergiev è evidente nei fraseggi, persino lampante nel colore orchestrale divenuto brunito, denso. Sin dal primo lavoro in programma, l'Ouverture-fantasia in si minore Romeo e Giulietta di Pëtr Il'ič Čajkovskij , appare chiaro come Gergiev intenda il repertorio romantico russo: timbri caldi, fraseggi intensi, archi avvolgenti (continuamente incitati ad accentuare il vibrato), equilibrio massimo tra le sezioni orchestrali. Infatti, pur nell'imponenza dell'orchestra e nella drammaticità del colore adottato, non c'è inciso o frase solistica che vengano oscurati; ogni nota, finanche il pizzicato di un singolo violoncello, è perfettamente distinguibile. Ovviamente la caratterizzazione del brano punta ad una drammaticità viva ed ineluttabile in cui la tragedia prevale sull'amore; paradigmatica l'inedita rilevanza data, nel finale, all'accompagnamento di bassi e timpani per una marcia funebre che diventa, da sottofondo remoto, vera protagonista della narrazione musicale.

La Sinfonia n. 1 in re maggiore, op. 25 "Classica" di Sergej Prokof'ev intendeva essere, per ammissione dello stesso compositore, un'opera sinfonica ispirata allo stile di Haydn, rivisitato alla luce delle ultime conquiste musicologiche. È quindi evidente che, dato il carattere particolare della composizione, il direttore possa scegliere quali aspetti evidenziare od approfondire, se assecondare il classicismo della scrittura o porre sotto la lente di ingrandimento le innovazioni ritmiche e cromatiche. Gergiev sceglie una terza via, leggendo la sinfonia quasi fosse un lavoro romantico, sia per l'imponente organico orchestrale disposto, sia per il colore adottato, sia per le disposizioni ritmiche ed i fraseggi. Sin dall'Allegro iniziale i suoni sono cupi, il tempo staccato più lento di quanto si sia abituati ad ascoltare. Sorprende, pur nella densità del suono, la perfetta distinzione di ogni voce: non c'è frase che non sia misurata e caratterizzata nel fraseggio e nella dinamica, come nel rapporto con le altre voci orchestrali. Ad un Larghetto malinconico e lamentoso segue una Gavotta per nulla classica, cesellata con rubati da capodanno viennese. Per il quarto movimento, molto vivace, Gergiev stacca un tempo serratissimo, quasi furioso, supportato da un'orchestra capace di reggere con intatta perfezione contrappuntistica.

La Sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore op. 100, dello stesso Prokof'ev, caratterizzava la seconda parte di concerto. È noto quale fosse il messaggio riposto dal compositore nell'opera: in sintesi un inno alla purezza dell'uomo libero e felice. In effetti molte interpretazioni della Quinta, improntate ad evidenziare la scrittura trionfalistica e magniloquente, rendono, sia pur in modo superficiale, un senso di grandiosa celebrazione della gioia. Gergiev invece, che si conferma interprete geniale, va in tutt'altra direzione: sin dall'Andante l'atmosfera appare cupa e pessimistica, le cellule tematiche si susseguono nevrotiche e forzate, quasi si volesse esprimere una felicità fasulla, simulata. L'Allegro è rabbioso, l'elemento grottesco è marcato fino al parossismo. Nell'Adagio (terzo movimento) parrebbe quasi che la nevrosi cessi per lasciare posto ad una malinconica rassegnazione, ancora non c'è traccia di gioia autentica, al massimo alcuni passaggi lasciano l'illusione di una ritrovata serenità.
Nell'Allegro giocoso finale ritorna l'estenuante esposizione, ossessiva, di un trionfo simulato. L'accompagnamento alterna pennellate malinconiche a momenti di rigore marziale, i temi si ripetono ipnotici ma il dialogo tra gli archi (morbidissimi e scuri) e la violenza di ottoni e percussioni rivela un tormento irrisolto che nulla ha a che vedere con la celebrazione della gioia.
Oltre alla perfezione esecutiva ed all'affiatamento dei professori d'orchestra, colpisce davvero la compiutezza interpretativa e la coerenza del disegno generale, ulteriore conferma della grandezza di Valery Gergiev nel proprio repertorio d'elezione.

A fine concerto il pubblico entusiasta è stato salutato dall'orchestra con la Marcia dall'Amore delle tre melarance dello stesso Prokof'ev.

25 settembre 2014

Un inganno felice alla Fenice

Da diverse stagioni il Teatro La Fenice propone un sistema di programmazione ibrido che affianca alle nuove produzioni la ripresa di spettacoli collaudati, un vero e proprio repertorio, così da incrementare la produttività riducendo al minimo le spese, investendo su quel pubblico turistico che a Venezia non manca mai.


Accanto all'ormai celebre Traviata di Carsen e al meno ispirato Trovatore di Mariani, il cartellone propone, per questa fine estate, L'Inganno Felice di Rossini, nell'allestimento creato da Bepi Morassi per il Teatro Malibran, già recensito da Alessandro Cammarano quando esordì nel 2012.
Lo spettacolo privilegia il lato malinconico dell'opera, accantonando il carattere farsesco per concentrarsi sul dramma privato dei protagonisti. L'ambientazione bellica carica ulteriormente di tinte cupe la vicenda, estendendo l'alone tragico all'intera comunità, calata in una trincea della Grande Guerra.
Il risultato in fin dei conti convince grazie alla coerenza della realizzazione ed all'ottima fattura di scene e costumi. Le poche perplessità riguardano la scelta del regista di proporre – all'interno di uno spettacolo peraltro molto curato anche sotto il profilo della recitazione – alcune gag e siparietti, tipici dell'opera buffa, che si inseriscono con difficoltà nella seriosità del quadro generale.
Convinceva invece senza riserve l'esecuzione musicale, grazie ad un cast omogeneo e all'ottima direzione di Stefano Montanari, capace di infondere alla narrazione ritmo e tensione senza sacrificare la cura per il suono (davvero centrata e suggestiva la tinta orchestrale nell'introduzione all'ultima scena), la trasparenza della trama orchestrale e l'attenzione ai dettagli. Ottimo l'accompagnamento al fortepiano di Roberta Ferrari.

Marina Bucciarelli era un'Isabella convincente per espressività e cura del canto, gestito con morbidezza ed attenzione al fraseggio, senz'altro aiutata da uno strumento dal timbro privilegiato.
Molto buona la prova di Omar Montanari nei panni di Tarabotto per padronanza dello stile e della tecnica necessari a risolvere al meglio il repertorio buffo rossiniano: il cantante unisce alla freschezza dell'emissione una spiccata sensibilità espressiva per i recitativi, risolti con misura e buongusto.
Giorgio Misseri, Bertrando, a dispetto di un timbro non particolarmente accattivante, veniva a capo senza patemi dell'insidiosa scrittura, esibendo agilità facili ed un registro acuto sicuro.
Convinceva Filippo Fontana, Batone di solida presenza e vocalità, pur non immune da imprecisioni nell'aria Una voce m'ha colpito.
Inappuntabile l'Ormondo di Marco Filippo Romano, cantante dalla voce rotonda e timbrata nonché dall'eccellente musicalità.
A fine recita buona accoglienza del pubblico in sala, con applausi convinti per tutta la compagnia.

7 agosto 2014

Requiem per le vittime di tutte le guerre a Redipuglia

Di fronte al dolore della morte e della guerra ogni parola sembra povera di significato. La musica invece, quella massima, sacra nelle intenzioni e per la storia, sa e può esprimere quella commozione e quell’ineffabile magone che chiunque, davanti alle spoglie di centomila vite bruciate, non può non provare. Ai piedi del Sacrario agli Invitti di Redipuglia e dei suoi ospiti, caduti nelle trincee di un’Europa lacerata e divisa che speriamo appartenga al solo passato, la musica di Giuseppe Verdi e della sua Messa di Requiem ricordava i caduti di tutte le guerre. Sul podio di un’orchestra che riuniva idealmente musicisti provenienti da tutto il mondo, Riccardo Muti portava, a cent’anni dalla deflagrazione della grande guerra, il proprio messaggio di speranza: un omaggio a chi ha immolato la vita in guerra per garantire la pace.

Personalità in platea, dal Presidente Napolitano in giù fino al vippame più provinciale (riesumato per l’occasione), a caccia di un’inquadratura o di un’intervista. Poi i pellegrini veneranti del Maestro Muti, ribattezzato per l’occasione il Re di Puglia, e una bella infornata di personalità sonnacchiose ed annoiate che contavano i minuti alla fine del concerto. Cori alpini e una fanfara dimenticabile aprivano la serata.

In considerazione al mero – e sicuramente secondario – valore musicale della prova, non c’è molto da dire. Come sosteneva quel tale (e che tale!), all’aperto si gioca a bocce e non si fa musica e, aggiungo sommessamente io, se la si fa e la si amplifica (per ovvie necessità), si finisce per snaturarla a tal punto da renderla altro da quello che dovrebbe essere. L’impianto da concertone rock restituiva un suono inscatolato e cupo che lasciava intravedere solo a tratti i colori e le nuances dell’orchestra. Orchestra diretta con tecnica ineccepibile da Riccardo Muti che conosce il Requiem e il mestiere come pochi altri, per il resto la sua interpretazione andava poco più in là della perfezione formale. Tra i solisti si imponeva per classe e qualità Daniela Barcellona su un cast convincente ma non memorabile (la Serjan in difficoltà nella linea del libera me, il tenore Saimir Pirgu ed il bravo basso Riccardo Zanellato).

Applausi timidi e di circostanza per una manciata di minuti, poi tutti a casa.

Paolo Locatelli

30 giugno 2014

The Rake’s Progress alla Fenice

The Rake’s Progress ovvero La carriera di un libertino. Tom Rakewell è un giovincello perbene, pigro e svogliato, privo di particolari qualità, che per artificio del misterioso Nick Shadow, enigmatica figura a metà strada tra l’incarnazione demoniaca e l’Es freudiano, entra in possesso di una straordinaria ricchezza che lo porterà ad abbandonare la fidanzata Anna Trulove per una vita viziosa e sregolata. Ovviamente la carriera di Tom finisce malissimo quando Shadow decide di riscattare la propria ricompensa chiedendo in cambio la vita del ragazzo, ormai caduto in disgrazia. Nel mezzo c’è tutto quello che ci si aspetta da un libertino e qualcosa di più, dalle orge sfrenate al matrimonio con Baba, l’orrida donna barbuta. Questa in estrema sintesi la trama dell’opera di Stravinskij, su libretto (bellissimo) di Auden e Kallman, che nel 1951 debuttò sul palcoscenico del Teatro la Fenice dove oggi ritorna, in replica fino al 5 luglio, con un allestimento firmato da Damiano Michieletto.



Diciamo subito che lo spettacolo funziona e merita di essere visto, nonostante alcune riserve. Michieletto attualizza l’azione trasformando il Settecento dettato dal libretto in una contemporaneità caricaturale e grottesca. Gran parte dell’azione prende lungo in una piscina colma d’oro, un paese dei balocchi che accoglie i vizi (su tutti la lussuria, vera protagonista dell’allestimento, benché connotata di una forte caratterizzazione comica) dell’umanità “corrotta” o forse liberata – il dilemma resta in fondo irrisolto – da Shadow. La stessa Baba ha ben poco del mostro che ci si immagina, tutt’altro, essa assume i tratti di un oggetto sessuale ambiguo e provocante, personificazione dell’erotismo più spinto e immorale e forse per questo più intrigante; una Baba dalla sessualità fortemente definita ma altresì indeterminata, al punto che lo svelamento del viso previsto del libretto diviene un’esibizione dei genitali. È indiscutibile che Michieletto attribuisca alla sfera sessuale un ruolo cardine nell’opera di Stravinskij: essa rappresenta la principale ossessione di Tom e del mondo da cui finisce divorato ma anche lo strumento di manipolazione utilizzato da Shadow sia nei confronti del protagonista che di Anne, capace tuttavia di resistervi.

Il progressivo svuotarsi della piscina lascia sul palco un ambiente spoglio e decadente che ospita le ultime scene dell’opera (cimitero e manicomio), forse quelle emotivamente più forti e tecnicamente più riuscite, grazie all’ottimo lavoro del regista sugli artisti. La morale finale ricalca la lettura che Michieletto diede del Don Giovanni con l’ombra demoniaca, nel caso specifico Nick Shadow, vittoriosa sugli uomini: che sia il male che trionfa sul bene, l’Es sul Super Io o il vizio sulla morale (o quantomeno sull’ordine sociale) poco importa, per Michieletto il lato oscuro c’è, è necessario e, a dispetto di ogni opposizione, riesce ad imporsi. In fondo è un’impostazione che calza come un guanto alle ultime parole di Shadow stesso: “Un giorno dopo l’altro il povero Shadow deve fare ciò che gli è ordinato. Molti insistono che non esisto. Talvolta lo vorrei anch’io”.

Come accennato alcuni problemi ci sono e riguardano soprattutto la tenuta del ritmo nel secondo atto dove l’impianto fisso delle scene e una certa inerzia d’azione tendono a rallentare l’orologio. Ad ogni modo risultano evidenti la cura di Michieletto per la recitazione di solisti e coro (davvero straordinario in ogni suo singolo componente, soprattutto nel finale) e l’eccellente realizzazione di scene (Paolo Fantin) e luci (Alessandro Carletti).

La caratterizzazione dei personaggi non è delle più originali quanto a definizione della psicologia ma, pur nella relativa semplicità di orizzonti, è perfettamente realizzata: Tom è un ragazzino debole e fragile, Nick un diavolaccio rozzo e violento, per nulla insinuante né ambiguo, Anne una figura solida nella morale e nella psiche, immune alle tentazioni ma non ad eccessi di rigore.

Ottimo sia sul piano vocale che attoriale l’intero cast. Lodevole il protagonista disegnato dal tenore Juan Francisco Gatell, perfettamente a proprio agio nella scrittura della parte: un Tom Rakewell adolescenziale, succube del carisma demoniaco di Shadow. Alex Esposito era un Nick Shadow possente nella vocalità ed implacabile in scena, Carmela Remigio una Anne dal canto levigato e rifinito e dalla presenza magnetica. Conturbante la Baba della bellissima Natascha Petrinsky. All’altezza della situazione Michael Leibundgut (Trulove), Marcello Nardis (Sellem), il guardiano del manicomio di Matteo Ferrara e la Mother Goose di Silvia Regazzo.

Come accennato colpiva positivamente la prova del coro, non tanto per l’impeccabile esecuzione musicale (a questo siamo abituati) quanto per la straordinaria aderenza al progetto registico e per l’intensità della recitazione.

L’unica nota stonata – in realtà più d’una – giungeva dall’orchestra, stranamente imprecisa, diretta con pesantezza e rigidità da uno spento Diego Matheuz.

A fine spettacolo successo incontrovertibile per tutti, con buona pace di qualche isolato contestatore.

Paolo Locatelli
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27 giugno 2014

Dudamel e i Berliner in concerto a Verona

Orchestra tra le più prestigiose e blasonate al mondo, i Berliner Philharmoniker, diretti da Gustavo Dudamel, giungevano a Verona per inaugurare la XXIII edizione del “Settembre dell'accademia”, rassegna musicale che prossimamente porterà sul palco del Teatro Filarmonico artisti ed orchestre di grande richiamo e qualità.

Pare che Gustavo Dudamel e i Berliner Philharmoniker abbiano un'intesa speciale, al punto che le voci sulla candidatura del maestro venezuelano alla successione di Simon Rattle alla guida dei filarmonici si fanno sempre più insistenti. Dopo aver assistito al concerto veronese le ragioni di questo affiatamento appaiono chiare: Dudamel, oltre ad essere un direttore dalla tecnica prodigiosa, rispetta ed asseconda al millimetro la gloriosa tradizione esecutiva e le peculiarità timbriche della formazione tedesca. Il luogo comune vuole che le grandi orchestre tendano sovente a cannibalizzare il podio, imponendo la propria cifra estetica al punto da condizionare pesantemente l'idea direttoriale; per quanto riguarda Dudamel ci sentiamo di affermare che, anche nel luogo comune, ci sia un fondo di verità: non che Dudamel ceda la bacchetta ai filarmonici, tutt'altro, però dopo averlo ascoltato di recente alla guida dei Göteborgs Symfoniker, ottima compagine di cui è stato direttore principale per diversi anni, le differenze risultano evidenti. Se i Göteborgs suonavano leggeri e trasparenti, privilegiando colori freddi e l'asciuttezza alla rotondità dell'amalgama, i filarmonici non rinunciano all'opulenza dell'impasto, esibendo, pur nella chiarezza, una densità di suono che, probabilmente, va ben oltre le intenzioni del podio. D'altronde è noto che i Berliner posseggano un'identità timbrica, ancor prima che stilistica, propria, caratterizzata da un prodigioso equilibrio tra la pastosità di archi e legni e la brillantezza scintillante degli ottoni. Un suono ricco ma per nulla pesante che tuttavia, se assecondato con troppa enfasi, finisce per risultare stucchevole o quantomeno ricalcare un gusto non freschissimo.

Quello che Dudamel aggiunge alle qualità intrinseche dell'orchestra è un impeto emotivo che i detrattori potrebbero tacciare di superficialità, realizzato tramite l'accentuazione dell'incedere ritmico nei passaggi in cui la musica si fa più concitata e le dinamiche vanno verso il forte e di abbandoni alla cantabilità nelle frasi più liriche. L'impostazione di per sé non è tra le più originali ma è perseguita ed ottenuta con perizia tecnica e consapevolezza tali da centrare il bersaglio.

In riferimento al programma, Dudamel riusciva ad imprimere una propria caratterizzazione alla prima frazione di concerto, dedicata a Čajkovskij, piuttosto che nel Brahms della sinfonia n.1 dove i Berliner parevano prenderlo per mano, cosa tutto sommato comprensibile in un caposaldo del repertorio tedesco tra i più frequentati dall'orchestra berlinese.

Nei poemi sinfonici La Tempesta e Romeo e Giulietta di Pëtr Il’ic Čajkovskij Dudamel sapeva coniugare lo sfarzo sonoro ad un disegno interpretativo chiaro e convincente, esaltando l'alternanza tra la passionalità e l'impeto delle esplosioni in fortissimo (mai fragorose e confuse) e i ripiegamenti soffusi, senza mai perdere il senso della narrazione o concedersi cali di tensione.

La Sinfonia n.1 in Do minore Op. 68 di Johannes Brahms, come accennato, convinceva in misura minore. Pur apprezzando la perfezione tecnica di Dudamel, la pulizia del suono e degli attacchi, l'ottima concertazione delle voci orchestrali e la cura certosina nella distinzione dei piani sonori e delle dinamiche, si ravvisava una certa discontinuità nell'impostazione interpretativa. Ad un primo movimento denso e perentorio nell'incedere, forse fin troppo compatto, seguiva un andante sostenuto di straordinaria poesia, ottenuta grazie alla leggerezza dell'orchestra ed alla morbidezza dei legni perfettamente adagiate su un tempo meno rilassato di quanto si è abituati ad ascoltare. I movimenti conclusivi venivano risolti in una perfezione formale che sarebbe ingeneroso definire come routine di alto livello, ma che neppure lasciava spazio a guizzi o approfondimenti degni di una prova memorabile.

A fine concerto ovazioni per direttore ed orchestra da parte di un pubblico entusiasta.

20 giugno 2014

La Traviata degli specchi a Udine

A volte, a dispetto di ogni maliziosa previsione, può succedere che la semplice ripresa di uno spettacolo andato in scena senza destare particolari entusiasmi circa due mesi prima, in un altro teatro (con altro cast ed altra bacchetta), non solo superi di gran lunga il precedente e le aspettative, ma riesca persino a raggiungere livelli di eccellenza, se valutato in relazione al contesto in cui nasce.
Lo spettacolo in questione è la famigerata “Traviata degli specchi”, già transitata sul palco del Teatro Verdi di Trieste ad inizio primavera ed ora ripresa, purtroppo per una sola recita, al Teatro Nuovo Giovanni da Udine.


Lo spettacolo nacque nel 1992, pensato per l'ampio spazio dello Sferisferio di Macerata da Henning Brockhaus e Josef Svoboda i quali si giovarono di una semplice ma efficace idea: uno specchio inclinato funge contemporaneamente da fondale ed “amplificatore dell'azione”, riflettendo verso il pubblico, oltre alle movenze degli artisti impegnati in scena, dei tappeti su cui è dipinta la scenografia. Certo l'allestimento ha ormai più di vent'anni e per il gusto odierno mostra qualche ruga, sia nell'impostazione bozzettistica delle tele stesse, sia per quanto riguarda alcune scelte esegetiche: il finale dell'opera, con la verticalizzazione dello specchio a riflettere il pubblico nella sala completamente illuminata, rendendolo parte integrante della società borghese che ripudia Violetta, è un'idea che appare ormai poco originale e piuttosto moralistica.
Uno spettacolo di questo genere (esteticamente gradevole, ma ordinario sotto il profilo dei contenuti, oltre che lontano da sperimentazioni drammaturgiche o ribaltamenti di prospettiva), se affidato ad artisti poco incisivi può lasciare indifferenti, ma può avere ben altro esito se si avvale di personalità interpretative forti, lasciate totalmente libere di esprimersi.

Se la Traviata udinese è stata un trionfo - e trionfo è stato davvero: capita di rado di assistere ad un successo tanto entusiastico e convinto - il merito va soprattutto ad Ekaterina Bakanova, la quale si è dimostrata un'eccellente Violetta. Non c'è gesto o parola che venga sprecato, tutto, anche il dettaglio più minuscolo, trova la giusta illuminazione sia sotto il profilo musicale (il fraseggio curatissimo ed espressivo, la ricchezza di colori, l'impeccabile musicalità), sia nella recitazione. La Bakanova non ha voce di straordinaria bellezza, né tecnica da prima della classe , ma sa costruire un personaggio completo ed assolutamente credibile, ricco di sfumature psicologiche mai plateali o sovraccaricate: la Violetta di Ekaterina Bakanova si sviluppa organicamente seguendo una parabola definita in cui l'amore si pone come strumento di liberazione e riscatto dal clima civettuolo e posticcio dei salotti parigini. Liberazione che appare evidente in quel “o gioia ch'io non conosco” gridato al mondo spogliandosi della parrucca, vera e propria maschera sociale, ma che, com'è noto, è destinata a rivelarsi una spietata illusione. Per questa Violetta l'amore di Alfredo non è l'occasione di cambiare vita ma la possibilità di provare ad essere se stessa sino in fondo anziché quel “prodotto” della società che era stata fino ad allora. In quest'ottica il distacco finale appare ancor più doloroso e l'abbraccio al contempo disperato e terrorizzato con cui stringe Alfredo durante un “Parigi, o cara” che diventa quasi un ipnotico processo di autosuggestione, ne è forse il momento culminante. Alla luce di tutto ciò paiono davvero macchioline minuscole il vibratino stretto che affligge gli estremi acuti ed alcune imperfezioni d'intonazione nell'aria del terzo atto, cesellata peraltro con ottimo fraseggio e suggestive dinamiche, e nella cabaletta “Sempre libera”.

Al suo fianco si disimpegnava piuttosto bene Alessandro Scotto di Luzio nei panni di Alfredo. Il tenore ha voce di bel timbro, fresco ed uniforme, il volume è modesto ma sufficiente ad imporsi nell'ampia sala del teatro udinese. La prova del cantante piaceva sia sotto il profilo musicale, correttamente svolto, sia per la presenza, senz'altro avvalorata dalla bella e giovane figura.
A dispetto di un'emissione che potrebbe far storcere il naso ai vociomani più intransigenti, il baritono Angelo Veccia disegnava un Giorgio Germont convincente sia per l'imponenza del mezzo, sia per la ricchezza di sfumature con cui rifiniva il canto. Il Germont di Veccia appariva spogliato di ogni traccia di meschinità o cinismo, rimanendo, benché severo e rigido, profondamente paterno.

Accanto ai tre interpreti principali ogni altro solista compitava diligentemente la propria parte: buona la prova di Letizia Del Magro nei panni di Flora, impeccabili la Annina di Anna Bordignon, il Gastone di Alessandro D'Acrissa, il Barone Douphol di Christian Starinieri. Al pari positive le prove di Francesco Musinu (Dottor Grenvil), Dario Giorgelè (Marchese D'Obigny), All'altezza della situazione anche tutti gli altri.

All'ottima riuscita dello spettacolo contribuiva in parte sostanziale il podio: convinceva senza riserve la direzione di Paolo J. Carbone il quale non solo sapeva guidare l'Orchestra del Teatro Verdi di Trieste (in forma smagliante per precisione e bellezza di suono) senza sbavature e con la massima attenzione al palcoscenico, pur senza sottometterne il ruolo alle esigenze del canto, ma si dimostrava soprattutto interprete sensibile e maturo, capace di caratterizzare un capolavoro tra i più frequentati e mortificati dalla routine, imprimendovi una propria lettura chiara ed originale. Ad un primo atto brillante e salottiero, incalzante pur senza giovarsi di tempi frenetici o dinamiche travolgenti, seguiva un duettone connotato di dolore sordo in cui l'orchestra si poneva come specchio fedele della sofferenza taciuta di Violetta; la festa da Flora assumeva una caratterizzazione affatto inedita laddove il “largo” prescritto per il concertato finale, staccato con un tempo più rapido e rigido di quanto si è abituati ad ascoltare, diveniva un inarrestabile precipizio verso la tragedia, piuttosto che una lamentosa meditazione sui rimorsi. Ciò detto il vero gioiello della recita è stato il terzo atto, complice una Bakanova trasfigurata nell'aspetto, sorretta da un'orchestra felpata che, sin dal preludio, trovava colori soffusi e delicati che si facevano via via più cupi e drammatici fino all'esplosione finale, rabbiosa e lacerante. Insomma una prova assolutamente maiuscola dell'orchestra e di un giovane direttore che speriamo di poter ritrovare presto alla guida della compagine triestina. Al pari impeccabile il Coro del Verdi guidato dal maestro Paolo Vero.

Come accennato, a fine spettacolo, successo trionfale per l'intero cast ed in particolar modo per la protagonista, con ripetute chiamate e prolungati applausi sedati soltanto dalla calata del sipario.

30 maggio 2014

Sabina Cvilak ed Emmanuel Villaume in concerto

Ultima data della stagione sinfonica del Teatro Nuovo Giovanni da Udine, il concerto di Emmanuel Villaume alla guida dell'Orchestra Filarmonica Slovena rimediava alla defezione di un altro appuntamento, originariamente previsto per il mese di marzo. Non si pensi però a un ripiego, tutt'altro: il pubblico udinese ha avuto occasione di gustarsi un buon concerto con un programma affascinante, in larga parte dedicato a Richard Strauss, in occasione del centocinquantesimo anniversario dalla nascita, eseguito da un'orchestra di valore.

Apriva il concerto I'Idillio di Sigfrido di Richard Wagner, celebre composizione cameristica scritta per l'amata moglie Cosima. Emmanuel Villaume, aiutato da un'orchestra attenta e delicata, privilegiava la morbidezza e la trasparenza del suono, mettendo in secondo piano lo sviluppo organico del brano. Ne risultava un'eccellente esercizio di calligrafia che, complice la lentezza dei tempi e la timidezza delle dinamiche (tenute tra il piano e il mezzoforte), mancava di poesia e compiutezza.

Con l'ingresso del soprano Sabina Cvilak ed un consistente ampliamento dell'orchestra il testimone passava da Wagner ad un altro Richard, quello Strauss che, almeno in ambito operistico, ne è stato erede naturale. Tre i Lieder in programma: Allerseelen, Zueignung e Morgen.

Sabina Cvilak ha una bella voce di soprano lirico leggero piuttosto sorda nel registro grave ma con un medium brillante e sonoro. La sua prova, perfettamente sostenuta dall'orchestra di Villaume, capace di suonare tenue e rarefatta nonostante l'imponente organico, lasciava alterne sensazioni: piaceva la cura nello scavo della parola e la scelta di sfumare il canto in dinamiche soffuse così da ottenere un'atmosfera intima e raccolta, quasi rinunciando alla proiezione in maschera della voce; tuttavia alcuni limiti tecnici nella gestione del fiato rendevano le mezzevoci ingolate e la linea ingessata, soprattutto nelle frasi che si sviluppano su una tessitura più acuta.

La seconda parte di concerto proseguiva all'insegna di Richard Strauss con Tod und Verklärung e la scena finale dall'opera Daphne.

Nel poema sinfonico riemergevano pregi e difetti dell'orchestra già riscontrati nella prima frazione. Convincevano l'amalgama degli archi e la compattezza del suono mentre si avvertivano alcune imperfezioni tra i corni. Purtroppo è mancato di personalità il podio, incapace di andare oltre una sostanziale correttezza: Villaume risolveva la partitura con mestiere, differenziando adeguatamente i piani sonori e le voci strumentali ma senza osare più di tanto dal punto di vista ritmico ed espressivo. Si ascoltava così uno Strauss correttamente svolto ma metronomico e, in fin dei conti, routinario.

Il finale dalla Daphne, sempre affidato alla voce di Sabina Cvliak, consentiva al soprano di dare maggiore sfogo alla voce, abbandonando quel clima confidenziale che aveva caratterizzato i precedenti lieder. La Cvilak ne guadagnava in volume e proiezione della voce, pur mantenendo la stessa attenzione per il testo e per la dizione. I medesimi limiti nel sostegno del fiato inficiavano lievemente la linea e rendevano il fraseggio scolastico nelle frasi tecnicamente più impegnative.

Il pubblico ha comunque dimostrato di gradire, in particolar modo la prova del soprano, con lunghi e calorosi applausi. Ora l'appuntamento è per La Traviata che, il 6 giugno, chiuderà la stagione del teatro udinese.

25 maggio 2014

Al Verdi di Trieste ritorna Attila

Forse Attila non è un capolavoro né ha quel richiamo sul pubblico che servirebbe per riempire un teatro, almeno non un teatro relativamente defilato e che non può contare su un bacino d’utenza da grande metropoli. Ne consegue che la scelta del Verdi di Trieste, schiettamente improntata all’antico adagio “fare di necessità virtù”, oggi più attuale che mai, finisce per rivelarsi un buco nell’acqua, non tanto per l’esito artistico (complessivamente apprezzabile), quanto per la totale disattenzione di chi a teatro dovrebbe andarci.
Attila tornava, a meno di un anno di distanza, sullo stesso palco, con lo stesso allestimento, lo stesso direttore e qualche modifica nel cast, ragioni a quanto pare inadeguate alle esigenze del pubblico che, è noto, ha sempre ragione. Ha ragione anche quando applaude convintamente uno spettacolo buono, omogeneo e scorrevole, che avrebbe meritato qualche attenzione di più.



Circa la regia di Enrico Stinchelli confermiamo quanto scritto in occasione delle recite dello scorso giugno:

Il regista Enrico Stinchelli sceglieva di enfatizzare la componente epica della vicenda, puntando ad una teatralità dal sapore quasi cinematografico. Scelta indovinata e capace di mantenere la tensione sempre alta a dispetto della staticità intrinseca di taluni passaggi del lavoro verdiano (anzi, verrebbe da dire del melodramma italiano del primo ottocento); va reso merito al regista di avere saputo alternare alle grandiose scene di massa, restituite nella loro crudezza e violenza dove opportuno, il giusto approfondimento delle ragioni dei personaggi, soprattutto per quanto riguarda il protagonista. Piacevano le scene di grande effetto curate da Pier Paolo Bisleri, integrate dalle proiezioni di Alex Magri (talvolta ridondanti o discutibili) e dalle luci di Gérald Agius Orway.

Facendo i necessari distinguo, possiamo rilevare, nel complesso, una maggiore proprietà stilistica e tecnica dei solisti impiegati nella produzione rispetto a chi li aveva preceduti. Faceva parzialmente eccezione Enrico Iori, cantante di bella voce e presenza, corretto e sorvegliato ma in difetto – almeno in occasione della prima – di quell’autorevolezza scenica e vocale che si è abituati ad accostare all’eroe unno. Iori cantava con gusto, fraseggiava bene e dava il giusto peso alle parole, tuttavia la voce risultava non di rado in debito di volume o in difficoltà nel registro acuto.

Rispetto alla scorsa estate il soprano Anna Markarova, Odabella, palesava non poche difficoltà sia nell’intonazione che nell’articolazione delle frasi. Il soprano riscattava parzialmente una prova complessivamente deludente nella seconda parte della recita.

Molto positiva la prova del tenore Sergio Escobar nei panni di Foresto; il cantante si dimostrava in possesso di un materiale vocale di pregio, con notevole squillo e volume. Ci sono ancora alcune mende tecniche da perfezionare ma il talento non manca.
Devid Cecconi era un Ezio vocalmente robusto e sonoro, musicalmente rifinito, nonostante un timbro non brillantissimo. Buone le prove di Antonello Ceron (Uldino) e Gabriele Sagona (Leone).

Donato Renzetti dirigeva l’orchestra del Teatro Verdi con eleganza e buonsenso, assecondando il palco con rispetto ma senza quella veemenza che aveva caratterizzato le recite dello scorso anno, finendo per mancare, qua e là, di quella tensione bruciante che infiamma le partiture del primo Verdi. Coro e orchestra si dimostravano all’altezza della situazione. Repliche fino al 31 maggio.

Paolo Locatelli
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20 maggio 2014

Sergej Rachmaninov e Pëtr Il’ic Cajkovskij per la Cajkovskij Symphony Orchestra

Penultimo appuntamento di una stagione musicale di grande successo, al Teatro Nuovo Giovanni da Udine arrivava la Cajkovskij Symphony Orchestra (in passato nota come Orchestra Sinfonica della Radio di Mosca) guidata dal suo storico direttore musicale Vladimir Fedoseyev con un programma interamente dedicato alla musica russa che prevedeva la seconda sinfonia di Rachmaninov e una Suite inedita dallo Schiaccianoci di Cajkovskij.

La Sinfonia n. 2 in mi minore op. 27 di Sergej Rachmaninov, con la sua scrittura sfacciatamente tonale, pare avere ben poco a che fare con la musica di inizio novecento, rifacendosi, senza soluzione di continuità, alla lezione di Cajkovskij e Rimskij-Korsakov.

Fedoseyev ne dava una lettura assolutamente personale, sofferta, discutibile e, forse, poeticamente incompiuta ma assolutamente coerente. Il maestro russo accentuava la dimensione tragica con intima partecipazione, assecondando ed esaltando il carattere malinconico dell'opera. Va da sé che, scegliendo una simile impostazione interpretativa, rimaneva il problema di come risolvere i passaggi più estroversi e vitalistici della sinfonia, in particolar modo l'allegro finale. Il fulcro della seconda, per Fedoseyev, è l'adagio: un adagio lacerante, intriso di dolente nostalgia, giocato su tinte autunnali e fraseggi delicati, con un uso elegante e discreto del rubato. Sul tappeto degli archi (davvero splendidi) risuonava senza sforzo il clarinetto e poi, via via, in un crescendo perfettamente calibrato, ogni voce si univa alle altre.

Nello scherzo non risultava completamente risolto il particolare strabismo della scrittura per cui, mentre il cantabile dei violini suonava ammantato di riflessi notturni ed avvolgenti, il tema dei corni (ispirato al Dies irae gregoriano) pareva caricato di una pesantezza forzata ed innaturale; il medesimo problema si avvertiva nel quarto movimento in cui il tema del Dies irae viene ripreso.

Tuttavia le perplessità circa la lettura di Fedoseyev non riguardano tanto la chiave interpretativa quanto piuttosto l'irresolutezza dell'arco evolutivo della sinfonia: nella lettura del direttore il climax ascendente di tensione si risolveva e stemperava con il terzo movimento per cui il finale risultava, se non slegato dal resto, forzatamente direzionato in senso drammatico e di conseguenza privato di quel carattere ottimistico e saltellante che pur ne sarebbe cifra distintiva, finendo per perdere qualcosa in termini di compiutezza.

Ciò detto l'orchestra suonava decisamente bene, con archi al di sopra di ogni lode e qualche sbavatura degli ottoni, dimostrando ottima coesione nel creare un suono denso ma rotondo, morbido e compatto.

Convinceva meno la seconda parte di concerto, dedicata ad una suite “apocrifa” dallo Schiaccianoci di Cajkovskij, curata da Vladimir Fedoseyev stesso. Sappiamo che l'originale suite, universalmente nota, fu licenziata da Cajkovskij ancor prima che l'intero balletto vedesse la luce, seguendo un criterio narrativo e poetico stringente e compiuto. Diversamente, la scelta dei brani apportata da Fedoseyev risultava disordinata e inintelligibile sia per quanto riguarda la coerenza con la trama del balletto (la distribuzione dei pezzi era completamente arbitraria) sia da un punto di vista meramente teatrale, mancando di quella tensione che dovrebbe fare di una suite un lavoro compatto anziché un insieme di brani slegati l'uno dall'altro. La suite creata da Fedoseyev raccoglie, secondo criteri di cui ci sfugge la logica, numeri distanti e scollegati del balletto, sovvertendone l'ordine cronologico e narrativo: si va dal celebre valzer dei fiori (n.13, nel balletto seguirebbe, nel secondo atto, i vari divertissement), posto in apertura, per finire con la scena di Clara e lo Schiaccianoci (che a rigore verrebbe molto prima, nel primo atto), passando attraverso la danza dei pastorelli, il trepak, il gran valzer finale (sistemato inspiegabilmente a metà suite), la danza araba e la danza del nonno.

Oltre alle ragioni editoriali, anche l'esecuzione musicale dello Schiaccianoci non brillava per originalità e spessore. Fedoseyev sceglieva tempi estenuanti, senza che alla lentezza corrispondesse un approfondimento del fraseggio o degli impasti orchestrali particolarmente curato. La rigidità del ritmo e una certa piattezza di dinamiche privavano la suite di quella delicatezza favolistica che caratterizza il balletto, puntando verso atmosfere molto più cupe e malinconiche che tuttavia non riuscivano a conquistare l'empatia dell'ascoltatore in ragione di una predominante pesantezza di fondo. L'orchestra suonava benissimo per quanto riguarda gli archi mentre legni ed ottoni si concedevano alcune sbavature; spiace ravvisare l'inadeguatezza dell'arpa, dal suono aspro e ritmicamente imprecisa.

A fine concerto buona accoglienza del pubblico udinese per i complessi e per il direttore che hanno salutato il pubblico con la danza spagnola dal lago dei cigni di Cajkovskij.

27 aprile 2014

Dudamel e i Göteborgs Symfoniker in concerto a Udine

Capita di frequente, nell'ambiente musicale, che un artista, un cantante, un direttore, venga presentato al grande pubblico in giovanissima età con un'etichetta prestampata di grande talento. Spesso si tratta di bluff che svaniscono dopo una manciata di stagioni, a volte di onesti professionisti che la giovinezza rende più interessanti di quanto siano in realtà, molto di rado di veri e propri geni della musica. Dopo aver ascoltato Gustavo Dudamel, maestro poco più che trentenne celebre a livello internazionale ormai da diversi anni, a capo dei Göteborgs Symfoniker, orchestra di cui è direttore onorario, restano pochi dubbi sul fatto che il maestro venezuelano faccia parte della sparuta schiera dei talenti autentici. Lo è per padronanza tecnica, per maturità d'interprete ancor prima che per la straordinaria carriera di cui si sta rendendo protagonista (non si diventa direttori musicali della Los Angeles Philharmonic per caso).

Di rado capita di ascoltare un'orchestra suonare con la perfezione tecnica e l'espressività di cui sono stati capaci i Göteborgs Symfoniker guidati da Dudamel, senz'altro in buona parte per qualità intrinseche della compagine ma, non v'è dubbio, con un contributo rilevante del podio. Sarebbe un'eresia tralasciare i meriti del maestro il cui gesto nitido ed elegante ha saputo condurre gli orchestrali senza sbavature, esaltando l'accurato lavoro svolto in sede di prova: non si spiegherebbe altrimenti l'esattezza degli equilibri tra le sezioni e la preziosità dell'amalgama.

Apriva il concerto Till Eulenspiegels lustige Streiche, poema sinfonico di Richard Strauss a soggetto grottesco. Sin dall'attacco impalpabile dei violini, su cui si inserivano dolcissimi fagotti e clarinetti, si aveva la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un'orchestra di grandissima qualità. Nonostante l'imponente organico il suono risultava leggerissimo e timbrato, di limpidezza cameristica, la precisione strumentale e la cura timbrica dei professori d'orchestra impeccabile. Risultava inoltre evidente l'affiatamento con il podio, assecondato al millimetro in ogni intenzione dinamica e ritmica. Lo Strauss di Dudamel è discorsivo e raffinato, la perfezione orchestrale non è mai il fine ultimo ma un mezzo, non il solo, necessario alla narrazione. Il carattere farsesco della scrittura veniva esaltato con garbo ed ironia, senza pesantezze o forzature. Sorprendeva, oltre alla meticolosa cura dell'orchestrazione, la sottile varietà agogica della direzione, sempre mirata a valorizzare il senso del racconto musicale.

La Sinfonia in re maggiore n.38 Kv.504 “Praga” di Wolfgang Amadeus Mozart aveva il solo difetto di non avere difetti. Un'esecuzione di apollinea perfezione, in un certo senso controcorrente in un’epoca in cui va per la maggiore un Mozart d'impronta dionisiaca, violento, esasperato nei contrasti dinamici e travolgente nell'incedere. La Praga di Dudamel è un prodigio di equilibrismo ed eleganza, quasi una contemplazione della poesia armonica e contrappuntistica della partitura. I tempi sono rilassati, le dinamiche sfumatissime. La dimensione teatrale (i richiami a Nozze di Figaro e Don Giovanni sono più che evidenti), quel lato che Abert definiva passionale e demoniaco, vengono posposti all'analisi strutturale ed all'esaltazione della bellezza in sé della sinfonia. Un Mozart decisamente illuministico, razionale, liberato da ogni forzatura interpretativa, suonato senza sbavature da un'orchestra che, ridotta nell'organico rispetto al brano precedente, sapeva trovare una purezza di suono ed una trasparenza ancor più impressionanti, pur senza perdere quella rotondità e quella morbidezza che già aveva esibito nella prima frazione di concerto.

Con la Sinfonia n.2 in re maggiore op.43 di Jean Sibelius si entrava nel repertorio di elezione dell'orchestra svedese. Perfettamente in linea con quanto offerto in precedenza, Dudamel ne restituiva una lettura di grande pulizia e gusto in cui ogni dettaglio veniva illuminato senza scadere in calligrafismo, trovando un proprio senso nel discorso musicale. Colpivano la chiarezza del suono in ogni singolo momento, nei pianissimi più soffusi come nei forti che mai scadevano nel clangore, come la perfezione tecnica dei musicisti pressoché esenti da errori o sbavature. Sotto la guida di Dudamel ogni voce orchestrale trovava posto ed esaltazione con una naturalezza disarmante, calandosi nella narrazione con misura, nella consapevolezza, più evidente che mai, di essere la singola parte di un tutto ben più grande della somma algebrica delle individualità.

A fine concerto accoglienza trionfale del pubblico udinese con applausi interminabili come non accadeva da moltissimo tempo.