5 luglio 2018

Richard III di Battistelli alla Fenice

È una lezione di teatro quella che il professor Robert Carsen impartisce nel Richard III in scena al Teatro La Fenice. L’allestimento in realtà non è freschissimo ma nasce tredic’anni fa, assieme all’opera che Giorgio Battistelli trae da Shakespeare – su drammaturgia di Ian Burton – per la Vlaamse Opera di Anversa e arriva in Italia per la prima volta.


Come accade in nove casi su dieci, il segreto per il successo di una produzione operistica è la sinergia tra palco e musica, e da questo punto di vista Carsen dimostra ancora una volta di avere pochi rivali. Lo spettacolo, complice l’ispiratissimo disegno luci che il regista firma assieme a Peter Van Praet, esalta la tinta cupa e sinistra della scrittura di Battistelli, ne asseconda l’inquietudine estenuante e sfrutta gli snodi musicali e ritmici traducendoli in azione.

La scena fissa, firmata da Radu Boruzescu, riproduce la cavea di un anfiteatro sghembo che potrebbe ricordare vagamente i teatri d’epoca shakespeariana o un vecchio circo in disarmo. Ai suoi piedi il suolo è ricoperto da una sabbia rossastra che diventa all’occorrenza sangue zampillante o un letto in cui nascondere i cadaveri. Su questo palco va in scena la macabra recita di Richard, un’ascesa al trono che pare l’allungarsi di un’ombra a coprire tutto e tutti. È l’ombra della morte, quasi un morbo che si propaga dal protagonista a chi lo circonda e che, se non uccide, storpia di una deformità che è fisica quanto morale. Chi sopravvive a Richard diventa come lui o gli si vende, arruolandosi nel suo esercito di sgherri, dei beccamorti armati di una pala con cui lottano, ammazzano e seppelliscono.

Gidon Saks è il Richard di cui ha bisogno uno spettacolo del genere: tanta voce dunque, ruvida ma duttile il giusto da soddisfare una scrittura che richiede ogni sorta di sfumatura espressiva, ma anche carisma dilagante e consumato mestiere d’attore. La parte è di quelle pesanti, non solo per l’impegno e la durata (Richard calca il palco quasi incessantemente per le due ore abbondanti dell’opera) ma anche, appunto, perché il ventaglio di sollecitazioni cui è spinta la voce spazia dal sussurro all’urlo, dal parlato ai suoni aperti più graffianti, insomma mette a dura prova le corde vocali del baritono. Contraltare al male assoluto, luciferino del protagonista – a onor del vero non privo di certo fascino – quello banale del Buckingham di Urban Malmberg, un insulso impiegato senza spina dorsale.

Il secondo protagonista dell’opera è il coro, nel caso specifico quello della Fenice preparato da Claudio Marino Moretti, che, al solito, è una macchina da guerra: suono pieno e compatto ma anche la disciplina necessaria per assecondare una regia molto esigente.

Tra le donne se la cavano meglio Sara Fulgoni, che è un’intensa Duchessa di York, e la sofferente Queen Elisabeth di Christina Daletska rispetto ad Annalena Persson, la quale è una Lady Anne dal registro acuto arrembante.

Christopher Lemmings si sdoppia tra Clarence e Tyrrel. Vocalmente pallido il Prince Edward di Jonathan De Ceuster mentre Laila D'Ascenzio è il fratellino Richard. Convincono l’Edward IV di Philip Sheffield e l’Hastings di Simon Schnorr.

Completano la compagnia, dimostrando tutti una perfetta corrispondenza tra esigenze vocali e attoriali, Paolo Antognetti (Richmond), Zachary Altman (Lovell), Till von Orlowsky (Catesby/Rivers), Szymon Chojnacki (Ratcliffe/Brackenburry), Matteo Ferrara (1st Murderer/Archbishop) e Francesco Milanese (II Murderer/Mayor).

Tito Ceccherini condivide con un’Orchestra della Fenice in serata di grazia buona parte del successo della recita. Oltre alla ricchezza del suono, che esalta la possanza della scrittura orchestrale senza appesantirla, si apprezza una preziosa attenzione per gli equilibri interni e per la complessità ritmica della partitura, nonché un impeccabile sostegno al palcoscenico, merito da spartire con la regia sonora di Davide Tiso.

All’altezza anche la prova del Kolbe Children’s Choir diretto da Alessandro Toffolo.

A fine spettacolo è trionfo per tutta la compagnia, con punte di entusiasmo per Saks, Ceccherini e Carsen.

Recensione pubblicata su OperaClick

1 luglio 2018

Maurizio Baglini alla prova delle Sonate 1 e 2 di Schumann

È uno Schumann tormentato e irrequieto quello di Maurizio Baglini ma senza le pose o i grandi sentimenti dello stereotipo romantico. Baglini non sente il bisogno di esteriorizzare una Sehnsucht che è intima, celata tra le pieghe della partitura e che non necessita di forzature o lenti d'ingrandimento per emergere, né avverte la necessità di mitigare o addolcire le asperità della scrittura schumanniana. Non c'è struggimento ma disagio, un'instabilità più affettiva (in senso propriamente patologico) che emozionale, che erompe con forza dalla musica. In fondo i problemi di salute psichica di Schumann sono cosa nota e non c'è ragione di pensare che la sua produzione non ne fosse influenzata. Dalla polifonia frammentaria e nervosa delle Sonate per pianoforte n. 1 e 2 scaturisce un ritratto del compositore che ne restituisce appieno la fragilità psicologica – molto interessanti a proposito le considerazioni stilate dallo stesso Baglini nelle note introduttive all'incisione circa le molteplici personalità compositive di Schumann.


Baglini scansa quel gusto, più o meno di maniera, che porta a mitigare i contrasti spostando l'asse espressivo verso la malinconia o la tenerezza, ma punta dritto verso un sentire moderno. Si avverte un'irrequietezza, un inesausto disagio nevrotico celato sotto alla brillantezza del suono inconfondibile del Fazioli. Già l'attacco della Sonata n.2 in sol minore, Op.22 esprime una tensione angosciosa che si manterrà a livelli altissimi per tutta la durata dell'incisione; anche i momenti più distesi (il Lied della Sonata n. 1 in fa diesis minore, op. 11 o l'Andantino della Seconda) non scansano mai completamente questa irrequietezza.

Costa infatti una certa fatica l'ascolto di questa incisione perché l'interprete non allenta mai la morsa né pare intravedere nei lavori in questione alcunché di consolatorio o rasserenante, ammesso e non concesso che qualcosa del genere in Schumann vi sia davvero.

Inutile ripetere considerazioni note in merito alla tecnica d'alta scuola di Baglini che qui, ancor più che in altre occasioni, è mezzo espressivo e mai fine. Se è lecito pretendere da una registrazione in studio la perfezione esecutiva - che ovviamente c'è - non altrettanto scontate sono la ricchezza di colori e sfumature e soprattutto l'originalità nell'articolazione.

Eccellente la qualità della registrazione, da standard DECCA.

In programma per i prossimi anni un'integrale pianistica schumanniana che, a quanto si ascolta in questa prima tappa, si annuncia molto interessante.