29 novembre 2023

Les Contes d'Hoffmann di Michieletto alla Fenice

   La produzione de Les Contes d'Hoffmann che ha inaugurato la stagione del Teatro La Fenice è una summa dell’arte varia di Damiano Michieletto. Varia perché in questo spettacolo c’è dentro veramente di tutto, dal melodramma alla danza passando per il trasformismo e l’illusionismo, ma c’è soprattutto quell’abilità artigianale imprescindibile per dare ordine e ritmo a una partitura registica che è fantasiosa e poetica quanto la pagina di Offenbach stesso. D’altronde pochi libretti possono offrire una simile carica visionaria, che scioglie quasi completamente l’interprete dal vincolo di realtà, anzi, ne incoraggia le fantasie più sfrenate, fino a sfidare i limiti e la decenza.

Les Contes d'Hoffmann Teatro La Fenice

   È altresì vero che è proprio in questo territorio di mezzo carattere, in cui il comico addolcisce la malinconia senza disinnescarla, che Michieletto ha sempre dimostrato di saper trovare un codice personale, abbastanza scanzonato da non soffocare la leggerezza ma anche cangiante quanto necessario per blandire le ombre crepuscolari o tragiche. Tanto più che nell'occasione riesce a farlo senza spruzzarci dentro quel tocco di ruffianeria furbetta che in passato non ha lesinato e di cui, nello spettacolo veneziano, restano solo le briciole, o per meglio dire i coriandoli sbrilluccicanti.

   È uno spettacolo, questo, di cui è difficile raccontare, se non inquadrandolo per sommi capi dalla distanza come il trionfo del virtuosismo di un prestigiatore della regia capace di dare corpo e forma alle mirabolanti follie dell’opéra fantastique di Offenbach. Ci riesce plasmando immagini in cui musica e libretto trovano una realizzazione visuale che sì, in gran parte devia dai binari del testo in senso stretto, ma così facendo ne preserva la forza eversiva e, di conseguenza, la pregnanza.

   L’Hoffmann di questo spettacolo è un vecchio outsider con la debolezza dell’alcol, o forse con la necessità di anestetizzare una sfilza di cicatrici che non si sono mai rimarginate, che si trova a ripercorrere i ricordi, in parte verosimili e in parte deliranti, delle tante sconfitte che l’hanno portato a diventare quel che è. Gli episodi procedono, atto dopo atto, come in una cavalcata onirica tra le memorie degli amori passati, sempre inesorabilmente naufragati, dalla cotta tra i banchi di scuola per la prima della classe Olympia allo straziante incontro con il dolore e con la morte attraverso Antonia, qui non una cantante ma ballerina costretta a letto dalla malattia. Infine il colpo di grazia, inferto senza pietà alcuna da Giulietta, accompagnata da un carnevale di maschere mostruose in un tripudio orgiastico e, questo sì, demoniaco come solo un certo tipo di alta società sa essere. Scene da un romanzo non di formazione, ma di autodistruzione, catalizzata dai demoni radicati nell’animo stesso di Hoffmann, che l’hanno sabotato e distaccato dalla realtà un poco alla volta.

Les Contes d'Hoffmann Teatro La Fenice

   Così è a grandi linee uno spettacolo che Michieletto innaffia con un’inesauribile cascata di idee, guizzi, artifici, dettagli e fuochi d’artificio, veri e metaforici, calibrati nei tempi ad assicurare una fluidità tanto semplice all’apparenza quanto sofisticata, dimostrando una consapevolezza nella concertazione di solisti e masse che ormai ha raggiunto la piena maturità.

   Quando si nomina Damiano Michieletto, si parla tuttavia per sineddoche, perché se c’è un artista che ha fatto del lavoro di squadra una certezza granitica, questo è il regista veneziano. Al successo di una produzione di un tal livello tecnico servono delle scene come quelle di Paolo Fantin, che non sono solo “belle” di per sé, che poi non vuol dir molto, ma strategiche per garantire agilità a uno spettacolo in cui basterebbe un piccolo collo di bottiglia per grippare l’intero meccanismo, o le luci di Alessandro Carletti, determinanti nell’economia della drammaturgia stessa esattamente come i costumi di Carla Teti. O ancora le coreografie di Chiara Vecchi, che sanno assecondare il carattere più fatuo della scrittura quanto scavare nei suoi anfratti più torbidi laddove esplicitano un erotismo che è quasi sempre colto nel suo lato più grottesco.

Les Contes d'Hoffmann Teatro La Fenice

   È un peccato che una tal girandola di creatività e acrobatismo scenico, che potrebbe dettare in prima battuta i tempi e le intenzioni alla buca stessa, non entri in risonanza con la sensibilità di Frédéric Chaslin, che dal podio cosparge un velo di grigiore su tutto. Non è un cappotto plumbeo esiziale per il buon esito della performance, anche perché di fronte a Chaslin c’è l’Orchestra della Fenice che suona davvero molto bene, ma una narrazione musicale che anziché mettere “under steroids” la partitura, infiammandola in tutta la sua ricchezza di sbalzi e colori, marcia routinariamente verso la meta, preoccupandosi solo che i pezzi stiano insieme. C’è poi la questione spinosa dell’edizione adottata, su cui a onor del vero il povero Chaslin ha ben poche responsabilità, essendo subentrato al previsto Antonello Manacorda appena prima che iniziassero le prove, con tutto il materiale già aperto sui leggii. Qui lo scheletro lo fornisce la vecchia Guiraud/Choudens - con (quasi) tutte le ben note apocrifie e manomissioni del caso come la Barcarolle, il Settimino e la stretta finale dopo l'apoteosi - aggiustata qua e là con qualche pezzo pescato dalla prima edizione critica del canone, curata da Oeser negli anni Settanta, e la abolizione totale di parlati.

   Quanto al cast, c’è un Ivan Ayon Rivas nella parte del titolo che ha doti scenico-vocali ideali soprattutto per cogliere gli episodi giovanili della vita del protagonista, forte di un timbro luminoso e di un registro acuto insolente che atto dopo atto non mostra il minimo segno di fatica. Il suo inseparabile Nicklausse, che nello spettacolo diventa un bellissimo Ara ararauna che svolazza in scena, è Giuseppina Bridelli, la quale ha uno strumento delicato ma prezioso e una sensibilità espressiva che ben si sposa con il taglio cherubinesco in cui la incastona la regia.

   Alex Esposito conferma di essere semplicemente perfetto nei ruoli da satanasso, in cui il suo istrionismo può deflagrare senza inibizioni. È poi vero che l’Esposito-cantante ha ormai maturato una prodigiosa capacità di coniugare al controllo dell’emissione una chiarezza di articolazione di parola e suono, in ogni loro sfumatura e intenzione, che non si scompone neanche nelle sferzate più audaci.

   Rocío Pérez è una Olympia con tutte le giravolte vocali e i sovracuti al posto giusto, oltre che meravigliosa in scena, così come è perfettamente in parte Carmela Remigio, che sembra catapultata in una seconda giovinezza vocale tale è l’identificazione con il personaggio di Antonia e il livello di intensità drammatica che raggiunge. È invece un peccato che l’edizione scelta riduca l’atto di Giulietta a un moncherino, ridimensionando il contributo di un’artista della classe di Veronique Gens a poco più di un cameo.

   Didier Pieri è molto bravo sia nel risolvere vocalmente tutti i suoi interventi (Andrès, Cochenille, Frantz, Pitichinaccio) - in particolare il momento solistico di Frantz, qui ritratto come un maestro di danza che sprizza una gaiezza abbastanza macchiettistica, gli è valso un applauso a scena aperta - sia a connotare ognuno dei suoi personaggi, diversi nei caratteri ma accomunati da una certa propensione alla remissività.

   È solidissimo il contributo delle tante parti di fianco, dalla Musa di Paola Gardina, una Signora-Fata che dispensando l’ispirazione al protagonista cuce insieme i diversi capitoli, fino allo Spalanzani "einsteiniano" di François Piolino. Francesco Milanese è molto più che affidabile nella doppia caratterizzazione di Luther, che sembra davvero uscito da un'osteria della campagna tedesca, e Crespel, così come è impeccabile il lavoro di Yoann Dubruque (Hermann/Schlemill). Chiudono degnamente il cast Christian Collia, Nathanaël, e Federica Giansanti, la voce della madre di Antonia. Al netto di qualche piccolo scollamento, anche il Coro della Fenice preparato da Alfonso Caiani è in ottima serata.

   A fine spettacolo accoglienza trionfale per tutta la compagnia e un tributo toccante alle vittime di violenza di genere, ricordate da un paio di scarpe rosse portato sul palco.

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