17 ottobre 2011

Le Nozze di Figaro alla Fenice, secondo capitolo della trilogia di Michieletto

Recensione - Seconda tappa del ciclo dapontiano alla Fenice con Le Nozze di Figaro dopo il fortunatissimo Don Giovanni recentemente riproposto e aspettando il Così Fan Tutte che a febbraio 2012 chiuderà il cerchio. 

Le nozze di Figaro è l’opera perfetta. Lo è nella sublime leggerezza della musica di Mozart come nel libretto, in cui Da Ponte sa mascherare la malinconia e le inquietudini d’ironia. Non è una semplice commedia dunque questo racconto della folle giornata in cui dovrebbero celebrarsi le nozze tra il protagonista e la cameriera Susanna, ma un affresco di vita, un’analisi dei rapporti interpersonali nonché degli affetti e delle meschinità che li regolano.



Dopo le entusiastiche risposte di pubblico e critica al precedente Don Giovanni le aspettative per questo nuovo allestimento erano altissime e, benché il regista Damiano Michieletto abbia allestito un ottimo spettacolo, è innegabile che alla fine rimanga nello spettatore un fondo di delusione nel trovarsi di fronte ad un fratello minore del precedente lavoro. 

Le perplessità non possono certo riguardare la tecnica registica che Michieletto possiede e padroneggia con classe, quanto piuttosto la sensazione che tutto si fermi alla superficie. Certo si parla di una superficie tirata a lucido, la costruzione dello spettacolo è formalmente impeccabile, la trama dipanata con sapienza e, al solito, curatissima la gestione degli artisti in scena. Si avverte però la mancanza di una lettura che scavi più in profondità tra le pieghe di questo capolavoro. 
Non giova poi allo spettacolo la somiglianza delle scene con il precedente Don Giovanni di cui queste Nozze sono, più che una prosecuzione, un calco. Benché la scelta possa sottintendere l’intenzione di mettere in relazione ancor più stretta le due opere, il risultato non solo non convince ma, peggio, finisce per limitare l’effetto dello spettacolo in chiunque abbia già visto il precedente. 

Se il Cherubino-Eros che muove le azioni dei personaggi non sembra un’intuizione così originale, più indovinato è il lavoro sul personaggio della Contessa, in scena dall’inizio fino al colpo di teatro finale. Una contessa malinconica più dell’uso che vive nell’incubo del tradimento quanto nella consapevolezza di aver perso l’amore del marito, un incubo da cui cerca di svegliarsi, di fuggire trovando nella fuga la tragica fine.

Complessivamente più che buona l’esecuzione musicale. Alex Esposito offre corpo e voce al protagonista Figaro e lo fa molto bene. La vocalità è sicura, spavalda, l’artista fantasioso. Una lieta sorprese la Susanna di Rosa Feola, giovane soprano di belle speranze che colpisce, più che per la bellezza timbrica e la consapevolezza tecnica, per il gusto nel porgere ed uno scavo della parola sorprendente per la giovane età (e nei quali si intravede, con le dovute cautele, la lezione della maestra Renata Scotto). 
Markus Werba era il Conte dopo essere stato un eccellente Don Giovanni risultando nel complesso meno convincente in ragione di una certa rigidità nel canto nei momenti in cui la scrittura richiederebbe un abbandono e una morbidezza maggiori, come il duetto con Susanna o la scena finale del perdono. Discorso non dissimile può essere fatto per Carmela Remigio che non riesce  a replicare l’eccellente Elvira soprattutto a causa di una partenza non felicissima nella cavatina che apre il secondo atto. 
Molto brava Marina Comparato nei panni di Cherubino, sicura in scena quanto nel canto. Non del tutto soddisfacenti le parti di fianco, soprattutto sul versante maschile. 

Ottima viceversa la concertazione di Antonello Manacorda che conferma di avere una particolare sensibilità per la musica del genio salisburghese. Direzione vibrante, travolgente eppure rispettosa dei cantanti, poco incline al compiacimento anche laddove sarebbe facile strappare l’effetto a buon mercato.

Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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2 ottobre 2011

Alla Fenice di Venezia trionfa il Don Giovanni di Michieletto

Chi è Don Giovanni? È un eroe, un simbolo di libertà o un immorale dissoluto? È l’allegoria della vita, della materia che sfida lo spirito e la morale? Il regista Damiano Michieletto, nel pluripremiato allestimento che ha esordito alla Fenice di Venezia nel 2010, recentemente riproposto dal teatro veneziano, non prende una posizione netta e definitiva in merito, Don Giovanni è tutto ciò e molto altro, egli è la parte più abietta o quantomeno inaccettabile di ciascun individuo, una componente al cui fascino è impossibile non cedere.



Michieletto ambienta la vicenda in un palazzo tra le cui stanze si muovono freneticamente i personaggi quasi in fuga gli uni dagli altri ma principalmente in fuga da sé stessi, incapaci di trovare una via d’uscita, come ingabbiati in un labirinto. Questo effetto è reso con un elaborato impianto scenico costituito da una serie di pareti in continuo movimento che consentono all’ambiente di mutare incessantemente rendendo l’ipercinesia della vicenda, l’irrefrenabile velocità con cui scorre la vorticosa vita di Giovanni il quale trascina con sé chiunque abbia la sventura di incontrarlo. 

Il palazzo è Don Giovanni, è la prigione in cui sono costretti i personaggi della vicenda, sedotti e rapiti dal dissoluto. Egli è l’immorale, colui che non sa coltivare affetti (chi nulla sa gradir), il crudele seduttore, eppure il disgusto che desta nel prossimo si accompagna ad un inevitabile fascino perverso che si impossessa delle anime altrui. Egli si insinua negli altri diventando parte essenziale delle loro vite che infatti, nella concezione di Michieletto, non sopravviveranno alla morte di Giovanni. Le donne che hanno incontrato Giovanni non sanno dimenticarlo (egli appare come un’ombra nei duetti tra Anna ed Ottavio ed in quelli tra Zerlina e Masetto, insoffocabile desiderio erotico femminile) ma anche gli uomini ne sono sopraffatti, Leporello in particolare. 
Si potrebbe quindi dire che Don Giovanni sia l’inaccettabile rivelazione della parte più animalesca e istintiva che chiunque nasconde in sé e che invano cerca di soffocare inorridito dall’immoralità cui si accompagna. 
In un simile contesto si spiega la centralità che Michieletto affida alla sessualità, continuamente esplicitata fino al finale secondo con la mensa trasformata in un’orgia sfrenata in cui i bocconi sono giovani ragazze atte a soddisfare l’appetito di Giovanni e del suo servo.
Quando irrompe il Commendatore, non come statua ma come fantasma che tormenta la coscienza del protagonista, la fine è segnata per tutti: il palazzo viene sommerso da un’atmosfera spettrale, le stanze ricoperte da corpi esangui. Don Giovanni è destinato alla morte ma non si tratta di una morte liberatoria, una giusta punizione per i crimini compiuti in vita, bensì di una condanna per tutti gli abitanti del palazzo che sono a tal punto impregnati e caratterizzati da Giovanni stesso da non poter evitare di seguirlo. Così durante il coro finale della “buona gente” che festeggia lieta “il fin di chi fa mal, de’ perfidi la morte” Giovanni riappare per abbattersi come una falce sulle vite ormai sopraffatte degli altri.



Oltre all'eccezionalità dell’allestimento, lo spettacolo veneziano si fregiava di un’esecuzione musicale molto buona con punte di eccellenza in alcune componenti del cast. Markus Werba è un ottimo Don Giovanni, spavaldo in scena, sicuro e ben controllato nella vocalità. Al pari degno di lode il Leporello di Vito Priante, baritono che sa unire al bel colore di voce gusto e proprietà stilistica. Buona la prova di Anita Watson come Donna Anna mentre Carmela Remigio è una perfetta Donna Elvira sia vocalmente che scenicamente.

Antonio Poli è un Don Ottavio di lusso, la voce è bella e perfettamente emessa ed il pubblico ha salutato le sue due arie con calorosi applausi. All’altezza della situazione infine la bellissima Zerlina di Irini Kyriakidou, il Masetto di Borja Quiza e l’imponente Commendatore di Goran Juric.

Ottima la direzione di Antonello Manacorda, vibrante nei passi più concitati, setosa laddove la partitura richieda slanci lirici, estremamente attenta alle esigenze di palcoscenico senza compromettere o scarificare la coerenza musicale né la bellezza e la trasparenza del suono orchestrale. 

Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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